| Una spiegazione è dovuta: ho dovuto abbandonare il gruppo su WhatsApp perché mi sono trovato in una congestione totale di comunicazione: tra le cose buone che mi porterò dietro da questa storia resteranno sicuramente le centinaia di persone che mi hanno contattato e che non ho potuto gestire direttamente. Lo schema, inevitabile anche per le particolari condizioni fisiche di degenza (con un casco in testa comunicare è quasi impossibile), era quindi di identificare un referente per i diversi gruppi di persone che poteva raggiungere.
Non posso iniziare, quindi, senza un ringraziamento molto sentito a Pholas, con il quale ho mantenuto un contatto costante anche nei giorni peggiori, e che ha svolto in maniera efficace e generosa il ruolo di "ufficiale di collegamento" su WhatsApp. Non dimenticherò il suo aiuto, e la mia gratitudine verrà sospesa solo in occasione dei derby.
Sono tornato a casa ieri sera, al 46° giorno di degenza, pulito come se non mi fossi neppure ammalato. Non devo osservare restrizioni particolari in casa, mi limito a osservare le regole comuni quando esco. Il recupero completo avverrà col tempo, mi aiuterò con le cure e con la pratica della normalità, che tanto può. Il rischio di essere arrivato a fine corsa è stato reale, e in qualche modo mi ero già disposto all'eventualità. Poi, è arrivato Spyros, un anestesista greco che mi ha avviato alla pratica del casco.il dubbio, legittimo, è che lui abbia voluto preferirmi ad altri pazienti: i caschi erano pochi, non certo quanti bastavano per una pandemia improvvisa. Il casco è una cosa ben brutta, e dovevo oltretutto sopportarne le dimensioni ridotte: all'ospedale, era stata consegnata soltanto una misura medium, che ovviamente soffrivo.
Potrei dire molte cose su questa vicenda, i cui esordi sono stati davvero difficili. Il giorno del mio ricovero a Villa Scassi, il 23 marzo, e il successivo 24 hanno segnato le cronache cittadine, e non solo, per l’assalto ai Pronto Soccorso. Uno dei medici mi ha dato il numero di picco raggiunto: 192 ricoverati, per una struttura che ne può accogliere un terzo. Stessa storia a San Martino e al Galliera. Primi quattro giorni in barella, non proprio un sogno per le persone delle mie dimensioni. La scena poteva effettivamente ricordare la guerra: mancavano i segni fisici delle ferite e delle distruzioni, ma le facce delle persone sembravano quelle di chi era sfollato da un bombardamento. La paura dominava assoluta. Io non sono facilmente impressionabile, ma non era possibile estraniarsi da un contesto da incubo solo per pensare a sé. Mi sono trovato un vicino sconosciuto che voleva che gli prendessi la mano, e non potevo farlo, Un quarantenne, padre di una bambina di due anni, è stato tenuto per mano dall'infermiera per più di due ore, e poi se n'è andato. Poi, sono stato in due reparti diversi, il primo per il bombardamento di ossigeno, il secondo, negli ultimi giorni, per la “messa a punto” degli specialisti (pneumologia).
Se trovo chi parla male della sanità pubblica, lo meno. Senza di questa, non oso pensare come sarebbe stato gestito il flagello. Se la professionalità è un obbligo, non altrettanto lo sono umanità e dedizione. Ne ho trovate entrambe in quantità industriale, ma soprattutto un livello di consapevolezza che ha spinto chiunque oltre i propri obblighi e i propri limiti. Tutti si sono battuti, oltre i turni assegnati, per acquisire conoscenze nuove su un maleficio perfettamente sconosciuto. Alla cura si associava l’aggiornamento continuo, che rimbalzava da ospedale a ospedale, in Italia e nel mondo. Questo, nella penuria più drammatica di dotazioni. Le infermiere si facevano i calzari isolanti con in sacchi della spazzatura. Ho sviluppato in poco tempo u rapporto confidenziale e consolatorio con tutto l'apparato medico e paramedico. Tra chi stava meglio qualcuno, maligno, ha insinuato che avessi una monumentale faccia come il culo. A tanto si arriva, nei momenti difficili.
Come paziente, posso dire che l’assunzione di responsabilità è fondamentale: se in un simile marasma pensi di privatizzare la tua sofferenza riducendola a un rapporto compulsivo con il campanello per chiamare l’infermiera, ritardi la tua guarigione e peggiori la vita a tutti. Il contesto emotivo è decisivo, le morti erano la normalità; nel mio reparto hanno perso un medico e un'infermiera, che fino a pochi giorni prima si erano prodigati per arginare il disastro. Questo va gestito e non puoi privatizzarti rispetto a quello. I giorni e, spesso, le notti sono stati segnati da lamenti e preghiere e da tanta paura. Ho provato a propormi, come parte di un “tutto” dolente, a chi stava peggio di me. Chissà, magari un po’ è servito. Una speranza, però, è stata data da da valori che lo superano. Devo dire, per esempio, che da non credente sono rimasto colpito dal fatto che qualcuno abbia voluto includermi nelle sue preghiere. Evito le facilissime battute sul camallo bestemmiatore: potete crederci , o meno, ma ho il massimo rispetto della spiritualità di ognuno, e ho raccolto questa disponibilità come un privilegio. Un episodio soltanto, ad alleviare la tristezza di queste note. Un'infermiera, in aperto riferimento polemico a un paziente insopportabile che avrei dimesso a calci nel culo, mi dice "eh, pazienti come te ce li manda il Signore". La mia risposta : "Lascia perdere, che alla procura celeste hanno una quantità tale di fascicoli a mio carico, che è meglio non svegliare il can che dorme".
Sintesi estrema: il COVID è stato battuto in venti giorni, non la polmonite devastante che ha lasciato in regalo a me e a molti altri. Qualcuno di questi non potrà raccontarla. Fine della cronaca, non voglio annoiarvi oltre. Avrò bisogno di un po' di tempo per riprendermi. Nel frattempo, vi abbraccio.
Michi
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