| Su richiesta di Queen riposto qui le mie recensioni fatte nella discussione eliminata (si, esattamente, quelle chilometriche), rivedute e corrette.
Ma invito chiunque veda un film che ritiene significativo per qualunque ragione a scrivere il suo commento positivo o negativo, mica posso farlo da solo il recensore!!
-Il Grande Silenzio di Sergio Corbucci (regista di spaghetti-western tra i più acclamati, autore anche del Django originale). Western originalissimo dalla inconfondibile ambientazione innevata così poco comune nei film di genere, zeppo di violenza e personaggi indimenticabili, primo tra tutti, in cappello da prete e pelliccia da donna, un istrionico Klaus Kinski nei panni del cacciatore di taglie Tigrero. Pessimistico come nessun Western di Leone, con un protagonista riuscito (Silenzio, un killer muto) e una primadonna di colore, altro fattore di originalità. Finale sbalorditivo. Voto: un meritatissimo 8.
-The Grey. Buono, ben fatto, interessante per essere un film di sopravvivenza nella natura (è un mix di La Fenice, Spiriti nelle Tenebre, l'Urlo dell'odio e Frozen, ma per me migliore di tutti e quattro). Liam Neeson è superbo, gli effetti speciali ottimi, accattivanti alcune scelte di regia e la violenza ben servita. Personaggi non tutti riusciti, in compenso una riflessività non verbosa ed acuta che mai trovereste in un film di genere catastrofico-avventuroso-orrorifico. Non eccezionale, ma comunque di buon livello.
-Appuntamento a Belleville. Pluripremiato cartoon francese del 2003, lo vidi da piccolo (rimanendone oltremodo inquietato), probabilmente proprio quando uscì, e pur avendolo sempre in mente non riuscìii mai a rintracciarlo. Ora l'hanno dato in tv e ho avuto l'agognata occasione. Risultato: è al momento, insieme a La città incantata di Miyazaki e The Nightmare Before Christmas, nella mia top 3 dei film animati. Storia stralunata di un ciclista che viene rapito durante una tappa del tour de france, al quale aspirava a partecipare da sempre. E dell'odissea che sua nonna e il loro cane compiranno per ritrovarlo, passando dalle sterminate campagne francesi al "mondo di luci" di New York, che veramente sembra uscita dai peggiori incubi di Tenco. Sorta di geniale masturbazione intellettuale, è una manna che sazia e manda in orbita (haha) gli occhi per il suo disegno raffinato e maniacale, per i suoi personaggi deformi e proprio per questo così vivi (ognuno sembra la caricatura del proprio fenotipo), per i paesaggi desolati, per il gusto old style che pervade ogni fotogramma. Ma è notevole anche la scelta del muto, o meglio dell'assenza di dialoghi, a cui sopperiscono suoni ossessivamente ripetuti, dalle ruote delle biciclette al fischietto con cui la nonna si esprime e attraverso il quale rumorosamente respira. Impressionante anche il lavoro fatto sul cane Bruno: dimenticate ogni antropomorfizzazione Disneyana, questo personaggio ha tutto di canino, di realistico, di goffo, di irresistibile. E viviamo una sorta di psicanalisi di questo inusuale coprotagonista, che vive ogni notte incubi se possibile ancor più allucinati della realtà quotidiana che scaturisce dal film, esso stesso un esperimento di rara originalità e vividezza.
Voto: 9
-Un sapore di ruggine e ossa. Altra opera francese, del 2012, ma stavolta non si tratta di un cartone. No, film drammatico. Il nostro protagonista è un manesco dal buon cuore che vive in giro per il paese con il figlioletto, guadagnandosi da vivere come buttafuori, agente di sicurezza, e soprattutto combattendo in incontri clandestini. La sua storia si intreccerà (ovviamente trasformandosi in amore) con quella di una addestratrice che ha perso entrambe le gambe durante un numero con le orche in un delfinario. Premesse piuttosto apocalittiche, interpretazioni tutte convincenti, un tono non di piagnisteo ma di confuso e sincero dolore.
Voto: 7
-Molto forte, incredibilmente vicino. E questo è un gioiellino che spicca nella produzione americana degli ultimi anni (e wow, seppur con una parte non lunga, Tom Hanks sembra si sia rimesso in moto!). Storia di un ragazzo all'ossessiva ricerca di un senso e di una consolazione che lo aiutino a superare la morte di suo padre nell'attacco terroristico dell'11 settembre. Film che come pochi si evolve man mano, sostenuto dalla sceneggiatura assai poco delicata ma non per questo greve, e da un protagonista di sbalorditiva bravura, specie considerando l'età. Gran cast di giovani e vecchie glorie, il tutto per nulla patriottico (e in effetti non è "un film sull'11 settembre"). Violento, psicologicamente. Commovente, a tratti. In generale, febbrile, tormentato, da vedere e da non scordare.
Voto: 8
-The Queen. Film del 2006 sulla crisi sperimentata dai reali d'Inghilterra, e in particolare dalla regina Elisabetta II, dopo la morte di Diana Spencer nel 1997. Minimalista, nient'affatto "scandalistico", recitato dalla protagonista come si spererebbe che succedesse sempre (oscar strameritato). Anche questo è da vedere.
-Il lato positivo, con Bradley Cooper, Jennifer Lawrence e Robert De Niro. Commedia bizzarra e interessante, in tutto nettamente migliore nella prima parte, supportata da una decina buona di interpretazioni memorabili ed esilarante in certi suoi scorci. La Lawrence brilla di una luce propria, nonostante il ruolo affibbiatole. Peccato che nella seconda parte, pur rimanendo godibile e divertente, torni ad essere piuttosto convenzionale. 7=
-Orizzonti di gloria, un Kubrick d'annata 1957 meno conosciuto nel mondo rispetto ad altri suoi lavori. Gli do' un convinto 9+. Zio Stanley ha fatto in un film di un'ora e venti quello che un milione di strascicatissimi Salvate il soldato Ryan non riuscirebbero mai a fare: riuscire ad essere antimilitarista senza por lacrimoni, demagogia ne' tantomeno tempo in mezzo. Il film è solo ed unicamente disperato. Fotografato in un raffinato bianco e nero, è la dimostrazione, una volta di più, di come Kubrick si sia affacciato con uno sguardo "alieno" alla settima arte. E alla follia, sua tematica ricorrente. Kubrick il glaciale, il geometrico, l'ultrapreciso (ed ultraviolento), riesce a colpire come un pugno nello stomaco ogni volta che, da una diversa angolazione, punta le sue telecamere sulla storia che racconta. Stranamore, The Shining, Full Metal Jacket, tutti lavori di carrellate marmoree ed imponenti come simulacri greci, eppure tanto evocative, tanto inquietanti...qui le troviamo nelle sequenze iniziali in trincea, a precedere la passeggiata nel delirio di un generale sciacallesco e menefreghista. Fallita un'impresa di conquista impossibile (siamo nella prima guerra mondiale e i protagonisti sono militari Francesi in guerra coi Tedeschi), sfoga la sua insensata rabbia sui sottoposti, esigendo senza motivo alcuno tre condanne a morte per fucilazione. Il colonnello che ha guidato l'attacco, personaggio positivissimo (e infatti interpretato da un immenso Kirk Douglas, praticamente partorito per il ruolo), si assume a rischio della carriera l'onere della difesa in tribunale dei tre innocenti. La macchina dell'ingiustizia però è invincibile, e in un cupo epilogo che sembra l'anticristo di quello dell'altrettanto splendido ma a lieto fine La parola ai giurati, curiosamente uscito nello stesso anno, i tre saranno dichiarati colpevoli. E così Kubrick, per mano di uno dei soldati che vanno piangenti al plotone d'esecuzione, canta ancora una volta l'annullamento ingiustificabile della personalità umana: "Non rivedrò più mia madre" sussurra ad un algido prete uno dei tre. "Non vedrò più nessuno".
-L'occhio che uccide di Michael Powell, anno 1960. All'epoca letteralmente eclissato a livello di incassi dal concomitante Psycho di Hitchcock, col tempo è stato rivalutato fino alla statura di capolavoro. Non condivido appieno questo entusiasmo, e gli preferisco decisamente l'apologo Hitchcockiano sullo sdoppiamento di personalità, tuttavia sono rimasto piacevolmente sorpreso. L'idea di fare un thriller orrorifico ironizzando al contempo sulla macchina cinematografica e catodica, con inquadrature di inquadrature dentro inquadrature ed un protagonista serial killer che mai e poi mai si separerebbe dalla sua cinepresa, anche sua arma di morte, è sorprendentemente fresca ed efficace, e regala momenti di autentico orrore. Sintesi e modello del cinema indagatore del Voyeurismo che tanto affascinerà De Palma e lo stesso Hitchcock (quello de La finestra sul cortile). Tremenda la lunga sequenza in penombra con i filmati del protagonista bambino girati dal padre ossesso, esilaranti gli intermezzi col regista e l'attrice oca, nondimeno ottime la fotografia, le ambientazioni sgargianti e la recitazione di una protagonista femminile decisamente non belloccia. Anche il (pur a mio parere più riuscito) Videodrome gli deve molto. 8, e non è un voto regalato.
-Donnie Darko, erano anni che desideravo vederlo. Ottimo (film travestito da) teen movie. Schizoide, con una patina d'innocenza pregressa e un interprete formidabile. Formalmente ed emotivamente un successo, bella colonna sonora e dialoghi da antologia.
-Mean Streets-domenica in chiesa, lunedì all'inferno, Martin Scorsese, 1973.
Ok, ho visto il miglior film di Scorsese. 10. Ma sarebbe da 11. Primo posto, dal mio punto di vista due grandi capolavori come Toro Scatenato e Taxi Driver, secondo e terzo in classifica, devono comunque cedergli la palma. Charlie (Harvey Keitel) è un delinquente di Little Italy, diligente nello svolgimento delle sue mansioni ma poco in linea con l'ambiente che lo circonda, dotato com'è di un grande senso di responsabilità e di un animo in fondo buono. Si ritrova innamorato di una ragazza epilettica, e imbarcato nella non facile impresa di cavare con regolarità dai guai il di lei cugino Johnny Boy (Robert De Niro), essere infido e fragile, indebitato fino al collo con un altro delinquente italoamericano della zona. Alla fine, Johnny Boy la farà troppo grossa. Iniziamo dall'ambiente. Quella New York che Scorsese non perde occasione di schiaffare su pellicola ogniqualvolta gira un film, capolavoro o meno che sia. Little Italy è un calvario pulsante, ogni cosa è plausibile e al tempo stesso già classica dal punto di vista cinematografico (con tanto di film dentro il film, Il Grande Caldo e La tomba di Ligeia), le luci notturne sono ipnotiche e fredde come non mai. Il film è un continuo dialogare di personaggi-stereotipo, boss mafiosi, picciotti cordiali, baristi neutrali ma non meno incombenti anche nel solo lustrare bicchieri, in pratica l'inventario completo dell'immaginario italoamericano. Sceneggiato meravigliosamente, e ancor meglio fotografato con una predominanza dei colori rosso, blu e seppia, è ricco di sequenze oniriche, di dialoghi farseschi, di ironia dissacrante, della disperazione positiva di Charlie in continuo, amorevole conflitto con la nichilista ed autodistruttiva imprevedibilità di Johnny Boy. Proprio in questi due personaggi, e nei loro magistrali creatori, si consuma lo scisma, il confronto, la messinscena, la teatralità di un far cinema immaturo ma già incredibile. Keitel è contenuto, opportunista solo nel far le veci d'altri, protettivo, tremante di rabbia repressa, innamorato gelido. De Niro è indefinibile, Travis Bickle nell'espressività schizoide, Jake La Motta nella continua giostra di autolesionismo e furia instabile, con le movenze saltellanti e grillesche di Monsieur Opal e un sorriso irriverente stampato sul volto ghignante. Accompagnata dalla musica, perennemente presente (dagli Stones a Carosone), l'opera procede senza sbavature in una progressione drammatica devastante, fino all'esplosiva violenza delle sequenze finali.
Il capolavoro di un regista di capolavori.
-I segreti di Brokeback Mountain, 2005, Ang Lee. Ho sentito parlare di questo film fino allo sfinimento, e sempre bene. Ora finalmente posso fare il mio commento, e senza dubbio il riscontro è positivissimo. L'idea di un film di ambientazione pseudowestern che affronta il non facile tema di un amore omosessuale è già un buon punto di partenza. Il fatto che i nostri protagonisti siano due cowboys, per definizione "uomini rudi", contribuisce a spiazzare, e l'insieme è decisamente un bello schiaffo al machismo virilista di Wayne & co. Attestandosi su livelli d'eccellenza anche dal punto di vista tecnico, con meravigliose riprese dei paesaggi ed un uso intelligente dei movimenti di camera, la regia di Lee sembra però voler lasciare tutto lo spazio possibile agli attori protagonisti, Jake Gyllenhaal e Heath Ledger, giovanissimi e già incredibilmente maturi nell'affrontare due ruoli non solo banalmente scomodi (tanti attori rifiutarono perchè intimoriti dalla presenza di numerose scene di sesso) ma realmente ardui ed insoliti. Gyllenhaal è giocoso, intenso ed abile in modo quasi imbarazzante, una prova che eclisserebbe qualunque attore coprotagonista, per quanto talentuoso. Ma non Ledger, che offrendogli il perfetto complemento si nasconde in una virilità ostentata e arcigna, salvo poi esplodere nella violenza o nella depressione. Non commettete però l'errore (grave!) di pensare che questa pellicola sia la classica parac****a propagandistica con annesso elogio dell'amore universale. Toglietevelo dalla testa. Se questo film non riuscirà a smuovervi emotivamente, siete delle pietre, perchè sprizza serietà e potenziale da ogni fotogramma. 8.
-Giulio Cesare, 1953, Joseph L. Mankiewicz. Film storico davvero notevole che adattando piuttosto fedelmente la tragedia omonima di Shakespeare si concentra sul complotto ordito dai senatori ai danni del dittatore romano, sull'assassinio di Cesare, sul suo funerale (con la celebre orazione commemorativa di Antonio che, in energica risposta a quella di Bruto, scatenerà il popolo romano contro i congiurati). Infine sugli strascichi della guerra tra Antonio, alleatosi con Ottaviano, e Bruto e Cassio, sconfitti a Filippi nel 42 a. c. Iniziamo con quel che è meno importante, e su cui il film scivola un po': la veridicità. Naturalmente datato a livello di costumi e scene di battaglia, e provocatoriamente anacronistico al punto da modificare le leggendarie ultima parole di Cesare, costruisce tuttavia con le splendide scenografie (da oscar, vinto) una Roma candida ed asettica, uno spazio stilizzato che enfatizza al massimo la teatralità Shakespeariana. E il drammaturgo si sente bene anche nel vocabolario, raffinatissimo e vetusto, adottato dai personaggi. Rivoluzionario anche nel non demonizzare le figure dei congiurati (presentandoli legittimamente non come assassini ma come tirannicidi), il film è un colossale, riuscitissimo esercizio di recitazione da parte di tutti gli attori, affermati e non. Pur tuttavia, tra i molti meritevoli nomi del cast spicca come un albero in fiamme un imberbe Marlon Brando, nei panni di Marco Antonio, che supera se' stesso nell'elogio funebre al comandante adorato. Elegante, torvo, mascolino, esplosivo, Brando inizia a creare la patina di ambiguità che caratterizzerà in futuro tutte le sue memorabili interpretazioni. 8,5.
-The Raven: ho guardato questo film trascinato dalla presenza di un protagonista d'eccezione, nientepoopòdimeno che Edgar Allan Poe, il magistrale scrittore che riformulò le leggi del terrore e di un genere gotico con tratti psicanalitici e filosofici. Ossìa il mio autore moderno (si fa per dire) preferito. Degli ultimi giorni precedenti la morte di Poe, a metà quasi esatta del diciannovesimo secolo (1849) si sa pochissimo, e il film si inserisce temporalmente proprio in quel periodo. Bene, c'era l'occasione per un capolavoro di decadentismo, per il recupero estetico di tecniche cinematografiche dimenticate operato dal Coppola di Dracula, per una grandissima interpretazione, per un biopic fulminante come lo fu Bird di Clint Eastwood su Charlie Parker, personaggio tra l'altro non troppo dissimile da Poe a livello di eccessi e follia personale. E invece la trama è questa: Poe viene coinvolto in una indagine, in un gioco di abilità investigativa, da un assassino che uccide ispirandosi ai metodi illustrati nei racconti dello scrittore. Premettendo che il film scorre, che è piacevole, che è ben diretto, fotografato, realizzato a livello di effetti speciali, crudezza e houmor, un simile mito meritava di più di una spy story nemmeno troppo originale e piuttosto pomposa. Rimane, nonostante tutto, la lunga ombra gettata dai racconti del terrore del geniale artista, che regala al film momenti di autentica suggestione, ma è luce riflessa, e mi è dispiaciuto molto. 6+.
-The Brave. L'ultima fatica Pixar non è il capolavoro della prolificissima (e brillante) macchina da soldi presa sotto l'ala protettrice della Disney. Che è sempre stata indipendente dal colosso dell'animazione statunitense. Pur tuttavia, a livello di trama, siamo più vicini al Disneyano (sotto alcuni punti di vista) di quanto sia mai successo alla Pixar. Un'astuto miscuglio della principessa ribelle di Aladdin, della metamorfosi di Koda, fratello orso, coadiuvato però dalle calde atmosfere celtiche di un Asterix. Nulla di nuovo, quindi, ma il film animato può vantare una grande sceneggiatura, spesso esilarante, un comparto tecnico-visivo strabiliante (si, i tanto decantati capelli della protagonista sono effettivamente sbalorditivi) e personaggi vivi e pimpanti, simpatici e ben definiti. Merida, per quanto imprigionata in un fenotipo di indegna banalità, è una protagonista delle meno banali e antipatiche che mai si siano viste in un film d'animazione. Se Brave è quindi un buco nell'acqua della Pixar a livello contenutistico, ne è l'affinamento e l'affermazione definitiva (se mai ce ne fosse stato bisogno) a livello di scrittura, caratterizzazione e realizzazione. Non è poetico quanto Up ne' stralunato quanto Monsters & co, non così furiosamente insurrezionale come A Bug's life ecc. Ma è, tutto sommato, un piacevole pezzo di cinema d'animazione. 7-.
-Non aprite quella porta, l'originale del '74 di Tobe Hooper. Gli darei sette e mezzo: meravigliosa la fotografia retrò, splendida la prima parte con una tensione cumulativa che svolge egregiamente il suo dovere, attori discreti seppur dimenticabili, sequenze memorabili come il primo incontro con l'autostoppista facente parte della famigliola di cannibali e le prime due apparizioni di Leatherface. Nella seconda, malgrado la cura riposta nella realizzazione della casa degli orrori (ispirata a quella, reale, del serial killer Ed Gein all'origine anche delle due figure di Norman Bates e Hannibal Lecter), si scade un po' nell'eccesso, fino a sfiorare il ridicolo in particolare nella sequenza finale che finisce per rassomigliare ad un'inseguimento comico da film muto. Anche questo film, come Halloween, è nettamente più impressionante nelle scene alla luce del sole che in quelle in notturna, e il piglio documentaristico che gli da il via è un espediente furbesco ed efficace. Peccato che anche questo precipiti nel finale, con una chiusura melodrammatica e morbosa senza ragioni d'esistere. Non c'è pericolo, resta un gran bell'horror, e una delle più coraggiose produzioni indipendenti di sempre, e se non spaventa più come una volta si può dire che in certe situazioni riesca ancora a sconvolgere.
-Il Leone d'inverno, 1968. Storia del re d'Inghilterra Enrico II (Peter O'Toole) e della sua consorte Eleonora d'Aquitania (Katharine Hepburn), ferocemente in disputa per decidere chi dei loro figli debba essere l'erede al trono. Il film, girato con grande intelligenza e riuscendo a non far pesare un soggetto così ingombrante, è una fucina di idee e ironia british, nonchè un'incredibile sfilata di grandi attori. Spiccano su tutti la Hepburn (se è considerata la più grande attrice mai vissuta ci sarà un motivo, no?) e un giovanissimo Anthony Hopkins, alla sua prima interpretazione cinematografica, nei panni del figlio Riccardo (quello che sarà soprannominato Cuor di Leone). L'una è una vipera dalle mille maschere, sempre deliziosamente imperturbabile, l'altro un soldato burbero e scontroso con sottintesi omosessuali. Tante altre sono le prove che si fanno ricordare, ma O'Toole eclissa tutti col suo Enrico II, un uomo vissuto, "con una mente degna d'Aristotele", come dirà la moglie, anche lui perfettamente padrone di un suo spietato houmor nero, con la statura epica che si confà ai re. A O'Toole la prova valse una delle innumerevoli candidature all'Oscar (la terza, per la precisione) che fanno di lui l'attore più candidato all'oscar per il miglior attore protagonista a non averlo mai vinto (otto volte). Praticamente una bestemmia. 9-
-(Ri)guardato Sette anime, secondo film a vedere la bizzarra collaborazione tra Will Smith e Gabriele Muccino, già concretizzata (con tanto di incassi faraonici) ne La ricerca della felicità. Will Smith interpreta un ingegnere aerospaziale che, resosi colpevole di un incidente in cui hanno perso la vita sette persone tra cui sua moglie, si dedica ad una vita di sofferto e straziante altruismo, che porta fino alle estreme conseguenze. Vero, il film, come gli è più volte stato rinfacciato, soffre di schematismo narrativo. E la regia di Muccino è totalmente ininfluente (dal punto di vista della personalizzazione, e il film non ha nulla di Italico nel tocco), per quanto ovviamente curata e presente. Ma Sette anime, come pochi altri film, ha la forza emotiva necessaria per stupire e risultare toccante senza mai scadere nel melenso, e abbozza (senza approfondire, tranne in un paio di casi) molteplici personaggi interessanti, quelli approfonditi sono letteralmente tridimensionali. Mai sopra le righe, Smith da' vita a un protagonista credibile e sfaccettato, forte di una straordinaria accessibilità e umanità, un suicida nient'affatto stanco della vita e dell'amore. Straordinario, nei panni del pianista cieco Ezra Turner, un contrito e dolcissimo Woody Harrelson, letteralmente in grado di dar vita alla sua creatura. I due brevi duetti tra lui e Smith sono meravigliosi. 7.5.
-Heat-La sfida, 1995, Michael Mann. Osannato da molti come un capolavoro, questo ambizioso (e smisurato, con due ore e quaranta di durata) poliziesco dal cast stellare riporta nello stesso film, per la prima volta dal 1974 del Padrino-Parte II Al Pacino e Robert De Niro. L'uno nei panni di un frustrato detective, l'altro in quelli di un incallito rapinatore di banche. Ma spiccano anche Val Kilmer, John Voight, Tom Sizemore, Ted Levine (il Buffalo Bill de Il silenzio degli innocenti), Natalie Portman, Danny Trejo. Per quello che forse, dopo L. A. Confidential e Americani, è il film dal cast migliore e meglio assortito degli anni '90. E in effetti le prove sono tutte mostruose: su un'accozzaglia di personaggi ruvidi (Kilmer) e delicati (Portman, Trejo) spiccano Un Pacino esplosivo e pirotecnico e un De Niro elegantemente sotto le righe. L'intreccio è contorto, alcuni personaggi irrisolti e il ritmo non sempre incalzante, ma viene compensato dagli interpreti, da alcune favolose scene d'azione e da una fotografia iperrealista (di Dante Spinotti). Disinvolto, brillante e intelligentemente sceneggiato, si attesta su ottimi livelli. Capolavoro, però, no. 8.
-Il labirinto del fauno. Il film di Guillermo Del Toro ha ricevuto tali e tanti elogi da far sorgere in me aspettative titaniche, che purtroppo ha soddisfatto solo in parte. Si, l'idea di un mix tra i romanzi di Carroll, Cronenberg, Schindler's List, Anna Frank e Il giardino segreto (più innumerevoli altri che mi sono venuti in mente durante la visione), infarcito di mitologia greca, è buona per quanto non originale. La fotografia diviene luminosa e/o gelida sempre nei momenti più opportuni, spesso ribaltando l'equazione luminoso=situazione positiva. La protagonista, giovannissima, fornisce un'ottima prova, ed eccezionale è il personaggio del gerarca Franchista, sempre composto e reso splendido dalle sue gioie di torturatore sadico. Nessun altra figura però si fa ricordare, e in generale i dialoghi e la regia delle scene "realistiche" finiscono per assomigliare a quelli di una serie televisiva, salvate dai due personaggi, essi si eccezionali, di cui poco sopra. Buoni gli effetti speciali, decisamente alto il tasso di violenza (alcune scene sono davvero di non facile fruizione), sceneggiatura discreta. Nulla di originale, come si è detto, e anche sul piano dell'invenzione visiva c'è veramente molto poco, non solo di memorabile. Con un'eccezione: il mostro antropofago dalle mani munite d'occhi, meraviglioso, nella scena più surreale e riuscita del film. Film quindi con notevoli alti e bassi, col pregio di fornire al pubblico una fiaba nera diversa dal-solito-Tim-Burton-che-ormai-sembra-avere-il-completo-monopolio-del-genere-gotico, due splendide interpretazioni ed alcune trovate fantasiose, ma che pecca di stilizzazione eccessiva e maldestra, rimane poco coraggioso (o poco profondo) nello sfiorare appena le tematiche che gli stanno a cuore, e in fin dei conti non aggiunge acqua fresca al mulino del genera fantastico. 7.
-Dead Man, Jim Jarmusch, 1995. Rientrando nella mia top 5 cinematografica, non credo ci sia bisogno di dire che il voto che gli do' è un 10 di quelli tondi e lucidi. Nessun altro film ha parlato tanto bene dell'alienazione, del mutare della psiche (Cronenberg, sei un genio ma devi ugualmente guardare e imparare!), e soprattutto dell'Orco (ossìa la morte, talmente reale e palpabile da meritarsi la sua più viscerale personificazione). Questa è presente ovunque, dal viso imperscrutabile del miglior Johhny Depp di sempre, che evolverà da timido e occhialuto emigrante a spietato e irragionevole assassino, alla fotografia in bianco e nero, dall'ambientazione (un paesaggio western davvero cimiteriale e asciutto, senza orpelli ma con chicche macabre che faranno impazzire gli amanti del grottesco) alla colonna sonora sferzante di un Neil Young palesemente strafatto. Meglio, il film è un viaggio in un Tartaro ottocentesco, in cui ci si scopre vivi solo accettando la propria morte interiore e infliggendola. Il tema del viaggio, l'autodistruzione, la ricerca, Cuore di Tenebra, l'Odissea, tutto assimilato e metabolizzato, condito con un'ironia sottile come un capello e affidato alla macchina da presa di un regista che si dimostra ancora una volte uno dei più talentuosi artisti indipendenti in vita. Zeppo di rimandi letterari, ad esempio nel nome del protagonista William Blake, che sarà scambiato dal filosofo indiano Nessuno ("Colui che parla ad alta voce senza dire niente") per il vero scrittore decadente. Violenza comica, dolcezza al vetriolo (commovente la scena in cui Depp si sdraia accanto ad un cerbiatto morto, quasi a volerne omaggiare la grazia), figure irresistibili (i tre killer, uno dei quali interpretato da Lance Henriksen), un cammeo di Iggy Pop e l'ultima interpretazione di Robert Mitchum. Si discuta a lungo sul significato e sui sottintesi, c'è tanto materiale da parlarne per anni, e non può che farci bene.
Edited by Byrne - 18/4/2013, 18:51
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