Posts written by .happysong.

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    metamorphomagus – 26 y.o. – supporter – brooklyn




    «È uno stereotipo.» rispondo di getto. Forse non in maniera istintiva, involontaria, ma più come una sorta di reazione calcolata, voluta, un nervo scoperto che non mi va di veder stuzzicato. Una faccenda personale.
    «Quello del Bronx.»
    Inutile tornare a ribadire a chi sta andando il pensiero in questo momento. Ma forse non era solo lui, era tutto quanto, tutto l'ambiente, la gente che ci viveva, anche se non era il massimo, anche se continua a non esserlo. Però i diamanti grezzi esistevano, sì, ma dove siano finiti o quale sia stato il loro destino ultimo questo non lo so. Io me ne sono tornata a Brooklyn come un cane con la coda tra le gambe, senza neanche riuscire a leccarmi le ferite. Devono essere rimaste lì da sole, a cicatrizzarsi: un processo lungo, volutamente, non anestetizzato. Che ci sono stati momenti in cui mi è riuscito aggrapparmi, trattenere con le unghie o con i denti unicamente quello, che alla fine era solamente ciò che mi era rimasto.
    Mi viene da aggrottare leggermente le sopracciglia, e forse perché nei tanti modi con cui mi sono sentita appellare, e gli innumerevoli significati costruiti sopra il mio stesso nome, beh, questo credo che mi mancasse. È già strano sentire a volte pronunciare il proprio nome, Vivianne. È inusuale, è raro, come per tutti quelli che il proprio nome per intero non lo sentono quasi mai. A volte mi riduco ad essere semplicemente e solo Vivi. A volte sono solamente Vivi, lo sono stata per anni interi. Molto Vivi, poco Vivianne, qualsiasi cosa questo possa voler dire. Ma i significati cambiano, e forse ha valore pure questo.
    In ogni caso no, papà e mamma col romanzo bretone proprio non ce li vedo.
    «No, direi più che suonava bene.»
    Anche se ce ne sono di assonanze, tutt'altro che fonetiche, tra il mio nome e quello di papà. A volte mi piace immaginare che un significato tra i due ci sia per davvero, e che sia quel benedetto modo per riportarmi a casa, ogni volta, dove è che devo stare, lontana anche da battaglie inutili. Per questo forse ora è meglio essere più Vivianne che Vivi.
    «Onestamente non so proprio chi sia.» sincera adesso, certe cose mi sfuggono della sua parlantina, un po' per ignoranza mia, lo ammetto.
    Butto anche io il mozzicone di sigaretta, anche se non dovrei farlo nel tombino con così tanta nonchalance, specie con il camice addosso, quello da brava persona che lavora comunque nel sociale, e che quindi non butta le cicche nei tombini se poi deve curare la gente, e che proprio non dovrebbe fumarsele le sigarette, secondo questo stesso principio. Però l'ho notato che ha seguito ogni mio movimento, questo non ho potuto fare a meno di farlo. Un po' per una sorta di "deformazione" dello sguardo, attento al particolare, e di più ai movimenti. Un po' perché è ormai dentro il mio campo visivo, abbastanza per squadrarlo e giudicarlo, anche se ha dei begli occhioni azzurri.
    «Per il lavoro posso solo farti un in bocca al lupo.» ancora più onesta. Non serve vincere di bandi o dei concorsi, qualcosa del genere insomma?
    Per l'insonnia, beh, l'ho detto, mi sento buona oggi.
    «Vieni.» gli faccio cenno prima di infilarmi le mani nelle tasche, e giocherellare distrattamente con l'accendino mentre entro e attraverso il pronto soccorso con lui al seguito. Io di certo non posso dargli niente senza prima vederlo.
    Non dovrebbero fare storie se lo vedono con me. Saluto infatti con un sorriso tiepido, senza interrompere la marcia spedita, Judith, la ragazza che sta dietro il desk. Un verso rapido per dirgli che lui è con me, e finita lì. Mi affaccio sul primo studio vuoto, e lo faccio entrare.
    Non sono una neurologa, ma probabilmente non gli interessa, come non interessa a me oggi di tenere a dormire quell'occhio che così come guarda la Polvere, entra anche tra tessuto e tessuto, tra osso e osso e si aguzza per cercare qualcosa di invisibile.

    Vivianne
    Comstock
    Dixon.

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    metamorphomagus – 26 y.o. – supporter – brooklyn




    «Sì, proprio quello» l'accento. Diciamo di sì, per non aggiungere altro: la risposta mi basta, e non voglio infierire con domande scomode, forse troppo per due sconosciuti. Diciamo che ho capito da sola quale è la sua preoccupazione, e mi va bene così.
    Sì New York è sempre nuova, eppure rimane sempre la stessa, anche se i palazzi cambino, lo fanno i negozi, i sensi delle strade, le persone che ci vivono. La città cambia, o forse semplicemente cambiano i punti di riferimento: quando una bussola si rompe è difficile fidarsi di una nuova, magari appena comprata o regalata, per costringersi a orientarsi e rimettersi in marcia. Non posso che dargli ragione, dieci anni sono tanti. A me ne è bastato a stento uno.
    Gli faccio un cenno con il capo, come per dire non importa o non c'è di che, anche se forse più il primo, perché alla fine son sciocchezze, anche se l'accendino è l'unico buono che mi è rimasto. Alla fine è solo un accendino.
    «Vivianne.»
    Almeno è socievole. È raro pure questo, qui ognuno vive sempre sulla difensiva, e pure io ormai, costantemente rinchiusa in una scatola di rame di un condizionatore messo su una facciata scalcinata: alla fine, sotto la pioggia, comincio a fare ruggine. E la sento, tra le giunture, tra osso e osso, tra i legamenti, quando mi chino per raccogliere qualcosa, quando resto troppo tempo seduta a una scrivania e mi intorpidisco, quando dormo in pose strane, troppo rannicchiate, e allora mi sveglio col collo a pezzi. O almeno credo. Non si tratta di un vero dolore fisico - altrimenti gli allenamenti con papà da due anni a questa parte sarebbero veramente inutili. No, è più una sorta di "dolore mentale", se così posso definirlo. Una febbre, un'infiammazione invisibile, che non salta fuori da nessuna analisi, che neanche la pranoterapia riesce ad alleviare. Un fastidio, un costante pungolo che mi costringe a tirare avanti il carro, con il giogo sopra le spalle. Un giogo che non ci ho messo io, a dire il vero. No, cazzo, io non mi son mai fatta veramente niente da sola se non forse voler troppo bene alle persone sbagliate, convinta di poterle salvare quando probabilmente il loro destino prescindeva dalla mia volontà. Una lotta contro il vento, sì, da sempre. Anche se fa rabbia, fa rabbia sapere di non poter fare la differenza, non veramente. Sapere di essere solo un inutile granello di sabbia che la macchina gigante neanche avverte quando si infila tra i suoi ingranaggi. Che è così che mi sento se penso a Lucian, se penso a quanto ci tenesse che facessi la cosa giusta, sempre, quando diceva che era la mia virtù, il mio tratto dominante, ciò di cui proprio non riuscivo a fare a meno. La cosa più giusta.
    Ma vattene a fanculo, Lou.
    Tiro una delle ultime boccate dalla sigaretta, ormai ridotta a poco più di un mozzicone, la parte che fa più schifo, ma che da sempre mi piace di più.
    «Cosa ti serve, a parte l'accendino?» che stamattina mi sento buona.

    Vivianne
    Comstock
    Dixon.

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    metamorphomagus – 26 y.o. – supporter – brooklyn




    E grazie al cielo mi concedo come primo pensiero quando finalmente apre bocca per rispondere. Perché ad un certo punto l'ho notato che mi fissava, e allora ho cominciato a guardarlo seriamente, e, appunto, la gente è strana qui dal lato pronto soccorso, specie a certi orari, in realtà, i più impensabili. Serve farsi la pellaccia dura per ogni genere di cose. In realtà il Bronx a volte finisce per essere un po' dappertutto, anche se credo di averlo visto, rivisto, masticato e rimasticato fino a vomitarlo, ormai tiepido. Non ci voglio pensare a quello che ci è morto e ho lasciato laggiù, non ci voglio pensare a quell'appartamento piccolo e stretto in cima alle scale, a quel materasso sempre sfatto dove la promessa di un letto non è mai stata realizzata. Che stronzata poi, perché cazzo non ce l'ho fatto mettere io un letto in quella stanza? Perché era una cosa sua, di principio. Ma vaffanculo, sarebbe stata veramente una stronzata.
    Comunque nell'avvicinarsi sembra un tipo apposto, non uno squilibrato per intenderci, ma potrebbe essere anche molto meno, onestamente, solo che io i suoi antidolorifici o tutte le sue morfine non gliele potrei proprio dare, e allora cominciano le lamentele e alla fine gli insulti. Capita, a volte capita a stare qui, specialmente da questo lato dove ci viene la gente disperata, in tutti i sensi possibili. E allora perché ci sto anche io qui fuori a fumare?
    Un prezzario decente? Beh, di cose ne spiega già solo 'sta domanda.
    «Non sei di zona vero?» per non chiedergli se ce l'ha un'assicurazione, probabilmente no, altrimenti certe domande non le poni neanche, o più banalmente te lo prenderesti un appuntamento da un neurologo più o meno serio per farti visitare. Non sembra neanche abbia una chissà quale emergenza che giustificherebbe il pronto soccorso. No, se ne è rimasto fino ad ora a tirare dalla sigaretta, o quello che è. Non è decisamente il caso. Però non voglio infilare il coltello in una piaga. Mi sembra comunque rude e non necessario.
    Lo squadro meglio quando si avvicina: l'ho detto, ce ne è di gente strana. Per cui indugio un attimo, con la sigaretta appesa alle labbra, prima di calarmi la mano nella tasca del camice e tirare fuori l'accendino e allungare il braccio per passarglielo.
    «Si chiama Jack» l'accendino, perché è l'unico buono che ho e ci tengo che mi ritorni indietro1: una nota di simpatia, rara di questi tempi, devo essere onesta, quando non mi sforzo per cercare di sembrare a tutti i costi allegra o solamente soddisfatta di qualche cosa, o di come vanno le cose, così, in generale. Forse è presto, forse sarebbe dovuta già passarmi: penso comunque di aver fatto passi avanti, sì, ma ogni giorno chiudo il bilancio in negativo, dicendomi che comunque non è abbastanza.

    Vivianne
    Comstock
    Dixon.

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    1. to come back
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    metamorphomagus – 26 y.o. – supporter – brooklyn




    È dalle 4 che sono in piedi. Onestamente sto già pensando al letto, ad un'ora decente, evitandomi possibilmente di crollare prima sul divano e svegliarmi a ore impensabili con addosso ancora i vestiti della giornata. Penso non siano i pensieri migliori per digerire il giorno che mi aspetta, ma se lasci vagare un po' il cervello allora è la cosa più innocua, davvero, che mi possa concedere. Mi tengo occupata, ecco, lo faccio da un bel po' ormai. Dovrebbe persino finire il mio tempo qui, e da un lato, la parte di me più stanca - o sfaticata? No, no quello non è più vero - ne è decisamente contenta. Il Sacred Heart è tutta un'altra cosa, sì. Eppure stare qui mi ha costretto, dapprima, a tornare a voler un po' bene a Brooklyn. Sì, sai, quando ti tolgono il tempo di fare qualsiasi altra cosa, e allora la testa trova un po' di certezze, si accomoda sull'idea di una settimana già fissata, senza troppe deviazioni, improvvisi inviti che ti portano via dalla routine, tanto che alla fine diventa piacevole non dover far nient'altro oltre a quello che è stato già stabilito. Sì, devo essermi bruciata qualche amicizia con questa mia socialità volutamente e non volutamente ridotta, anzi stroncata, ammazzata. Devo persino ammettere di essere pessima nel coltivarli io i rapporti, quelli facili, anche se ci stanno persone come Cass dove una stronzata basta, e a volte sono le sue a disarmarmi a tal punto che ci si persona regolarmente ogni cosa. Quelli difficili invece… ho fatto una promessa a papà, sicuramente prima a lui che a me stessa, e le cose hanno cominciato a cambiare. Forse perché, nel perdere tutti, ho scelto, proprio sul punto di non ritorno, sul limite del baratro di non voler perdere lui, non per causa mia almeno. Ci siamo già fatti troppi torti a vicenda, e forse su molte cose ha ragione, anche quando non ce l'ha, anche quando no è proprio ingiusto. Ma è che a me sembra di lottare contro il vento: perdo sempre. A malincuore allora, forse - onestamente non lo so come è che mi sento - devo riaggiustare la mia vita. Doloroso ma necessario, anche se è diventato un tipo di dolore diverso, non così pungente: è piuttosto come una sorta di frustrazione, un fastidio, un prurito che mi innervosisce e basta.
    Esco per prendere una boccata d'aria, anche se l'aria diventa una sigaretta fatta scivolare qualche minuto fa dentro la tasca del camice insieme all'accendino buono. La divisa del perfetto medico.
    Sì, non vedo l'ora di andare a letto, anche se ho promesso a Cass di chiamarlo quando avrei avuto cinque minuti liberi. Per cosa? Per spezzare la giornata e farmi tirare su il morale con le sue solite cazzate. Mastico il tabacco tra i denti; vorrei che la sigaretta non finisse, e allora la aspiro piano prendendo profonde boccate, giù fino a dentro i polmoni. Passano le macchine, le ambulanze sono ferme; ne parte una ma a sirene spente. E poi ci sta un tipo che se ne sta qui davanti da un bel po' senza fare nulla.
    «Bisogno di qualcosa?» gli chiedo alzando la voce ed espirando fumo.
    Perché qui ne passa di gente, gente di ogni tipo che va saputa trattare, gestire ed eventualmente pure - capita - allontanare. Gente che cerca medicine senza ricette, senza farsi visitare, perché in realtà sta cercando altro, perché certe medicine servono ad altro e diventano un pretesto pericoloso. Si riconoscono subito, purtroppo. La cosa peggiore è lo sguardo di quella gente: è uno sguardo vuoto; non triste, semplicemente offuscato e vuoto, come delle semplici biglie di vetro sciupate, fondi di bottiglie invecchiate.

    Vivianne
    Comstock
    Dixon.

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    Only Quincy

    beatrice
    beatrice
    beatrice
    beatrice
    beatrice
    lemoine
    «Che ci vuol fare, diciamo che non ho il fisico, né la tempra per stare sul campo.» anche se non è del tutto vero. Forse la forma fisica è secondaria, forse no, ma quello che è importante lì, e che è fondamentale per tutti i suoi colleghi della ricerca è avere l'occhio. Sì, l'occhio, quello che ti permette di vederle le cose, prima ancora che scovarle. È difficile definire un "tipo" di reliquia, se pensi a quelle che vedi alla Piramide quasi quotidianamente. Per questo serve l'occhio, perché nella banalità riesce a distinguere i filamenti invisibili, ben nascosti dell'eccezionale, e molto spesso è proprio lì che risiede ciò che ha più potenziale, nell'inaspettatamente banale. Ma il tuo occhio è qualcosa che non hai ereditato dall'esperienza, non dalla tua almeno, da quella che hai vissuto personalmente. Il tuo deve appartenere ad una donna e poi ad un uomo che poi te l'hanno fatto ereditare quasi indebitamente. Lo stesso occhio che prima non ti permetteva di soffermarti certe cose, era decisamente più distratto, mentre adesso fatica, nervoso, a lasciare andare cose, anche oltre l'apparenza, non importanti.
    «Oh, beh..» è quasi un borbottio che ti rimbalza tra labbro e labbro. Shostakovich almeno è ballabile rispetto a Beethoven, anche se ti si cuce sulla bocca un sorriso divertito, per onore alla facciata della conversazione - anche se in fondo si rivela piacevole, e facile intrattenersi con un uomo carismatico, pure troppo. «Lei è un uomo di spirito, Signor Rowle. E non le piace mollare la presa, vero?» perché la cosa delle reliquie ha inavvertitamente attirato la sua attenzione, in modo singolare, in modo curioso, pensi, forse perché c'è la solita voce, quella di Callum, che per tutta la sera ti rimbomba nella testa. «Va bene, ma mi costringe all'umiliazione di risultare noiosa.» l'ennesimo cordiale e brillante affondo. «Faccio il lavoro di archivio. Analizzo e catalogo le reliquie che arrivano alla Piramide e che vanno conservate. Cerchiamo di capirne il funzionamento, metterle in sicurezza ed etichettarle.»
    Un giro, poi di nuovo il quadrato di passi.
    «L'avevo avvertita che sarei stata noiosa.»
    Ma poi la musica si ferma, cambia atmosfera e il ballo si scioglie naturalmente, quando Dorothea Lovecraft prende parola tuttavia non lasci il fianco di Quincy. Forse l'occasione giusta per continuare ad osservarlo con la coda dell'occhio durante tutto il discorso e infine l'estrazione.
    «Peccato, avevo il 21.»
    assassin
    recruit
    spirit perceiver empathetic 28 y.o. mother italian-french
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    emeraude
    emeraude
    emeraude
    emeraude
    kabakov
    No, una parte di te non pensa che sarebbe potuta veramente andare meglio di così, ironia a parte. Quella serve solo per indolorare la pillola già di per sé amara. Perché per quanto stretto sia il legame tra te e Rufus, per quanto vicino sia il vostro pensiero su molte cose, lui rimarrà sempre un Foulger, forse il migliore dei Foulger, ma con un'idea piantata in testa e ormai germinata, sì, specialmente adesso che è a sua volta compagno e padre.
    Impugni meglio la cornetta del telefono, piantando i gomiti sul banco e sporgendoti in avanti, verso il vetro. Serri le labbra per un istante mentre lo guardi, stavolta seria, anche se non in maniera dura, critica. Sei piuttosto sicura delle scelte e del percorso che ti ha portato fino a qui.
    «E chi te lo dice che abbia intenzione di sposarmi di nuovo?» che di scherzo aveva poco, fino ad un certo punto. No, oltre alla battuta, era qualcosa invece di terribilmente serio. "Il buon senso di un cacciatore" avrebbe potuto risponderti, e lo avrebbe capito, certo: era esattamente quello il tipo di pensiero. Quello di una società, la vostra, pur sempre fatta di uomini e poi di donne, di figli da mettere al mondo e donare alla caccia, di relazioni stabili che assicurasse costantemente la nascita di quella progenie. È così che i cacciatori si assicurano il futuro, persino te, non lo puoi negare, specie nelle condizioni in cui hai vissuto negli ultimi anni, ma «Ho già fatto il mio dovere per la comunità, mi pare.» con il mettere al mondo quattro figli, e da quel punto di vista non pretendi di fare di più. Non puoi, ci sono limiti che tu stessa hai imposto oltre a quelli dettati dalla tua stessa età e fisiologia. Quando sono nati Val e Théo hai gridato al miracolo, perché loro sì che erano inaspettati, decisamente inattesi. Non te la senti di chiedere di più, né a te stessa, né alla Fortuna.
    «È scozzese, ma comunque meno di quanto possiate bere voi quando venite a casa mia.»
    Senza poi contare che non sai neanche dove ti vorrà portare questa cosa con Kieran, se durerà, se è destinata a lasciare segni o a far germinare a sua volta ancora qualche cosa. Anche se in fondo ci speri: hai scoperchiato l'armatura abbastanza per sapere di non voler rischiare ancora una volta una ferita profonda. Ma se l'hai aperta quella fenditura allora una sorta di speranza dentro di te cova.
    Allora in quella domanda allora, Perché dovrei sposarmi di nuovo? si svela tutto questo: il fatto che Kieran non ha niente di desiderabile per un cacciatore, e forse è proprio per questo che questa cosa ti piace, ti mette finalmente quella che per te è un'agognata pace. Perché non hai da dimostrare più niente. Non in questo, almeno.
    «D'accordo fratellino, senti questa anche.» l'ultima carta, quella che un po' lo sai, ti tradisce, ma non si può tenere troppo coperta a questo punto. «Kieran è un magonò.» glielo sussurri alla cornetta, stavolta gentile, gli occhi ben aperti che si specchiano sul riflesso del vetro.
    hunter
    head of kabakov
    mother reliquary paleographer 34 y.o. wyoming
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    Dionne Ochoa
    mermaid ⋆ activist ⋆ journalist





    Accavallò le gambe, l'una sull'altra, poi fece rimbalzare un ginocchio magro contro un altro, unì le gambe e torse il busto per farle scivolare entrambe sul materasso: la solita coda mancata. Le dita a tamburellare sulla pancia un ritmo che sapeva di stomaco vuoto, di una fame ancora più simile ad un appetito, ma non abbastanza per darle la spinta di alzarsi, recuperare, rassettare e mettersi a fare qualche cosa di utile, o di inutile, semplicemente qualche cosa.
    Lo seguì con lo sguardo per tutto il tragitto da un muro all'altro della stanza, senza sforzarsi neanche di alzare il capo, semplicemente facendo ondulare le pupille da una parte all'altra: una sorta di mal di mare terrestre.
    «Mh. Dog.»
    Ma Dionne non stava pensando a Dog. Non ci stava pensando affatto. Stava pensando più a Jesse, infatti, a come si muoveva, in maniera sincopata, fatta di nervosismi ma sottopelle, non ancora sulla lingua, non ancora pronti ad esplodere in maniera isterica. Non era così lui. Erano come miasmi, vortici che si si muovevano addosso, creavano mulinelli e lo tenevano così, in balia di tutte quelle molteplici forze centrifughe che lo facevano gravitare prima in un punto, poi in un altro, poi in un altro ancora, senza una chiara geometria, senza una rotta precisa. E lui ci si faceva trasportare. Dog, il ragazzo-cane era una sorta di pretesto. Era importante, sì, ma era un punto, non la questione. La questione era un'altra, ed era come se Jesse già le possedesse le sue risposte. Solo non trovava il modo coerente, accettabile, fedele per dirle. Il punto, questo punto dell'intera questione era che Dog, e non soltanto lui alla fine, aveva abbracciato quella che da semplice protesta era finita per diventare una ideologia, una violenta, una troppo criminale. E gli pesava: se un minimo conosceva Jesse o aveva empatia nei suoi confronti, capiva che la cosa non lo lasciava indifferente. Si era creato qualcosa di grande, qualcosa di troppo grande sì, qualcosa di cui neanche Dionne ne avrebbe voluto fare parte. Un po' per principio, per filosofia personale: niente gabbie, niente definizioni, essere inscatolati significa abbracciare una certa politica che fa sia il bene che il male, ma quest'ultimo non si può mai scindere e semplicemente buttare. Apolitica, in tutti i sensi. Un po' perché si sentiva "veggente" anche se magari ipocrita: non erano quelli come lei quelli veramente discriminati. Di esemplari come lei ce ne erano poi davvero così pochi, e molti, neanche i più conservatori, se li sarebbero immaginati così: su un materasso, nel Bronx, a sollazzarsi nelle proprie giornate con un licantropo.
    «Ma tu a che pensi?» dritta al punto, senza altre storie, senza altri pensieri filtrati, nascosti nelle storie degli altri.
    A lei, in fin dei conti, ipocrisia o meno, interessava solo di Jesse, di quello che pensava lui.

    «How will we be in that waking? How will we be in the womb? We may all begin aquatic but we leave only dust from our bones»


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    ORACLE OF RA 29 y.o TESS BISHOP HAKKA voice look aesthetic song
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    i don't belong in the world, that's what it is. something separates me from other people.
    Mi ha costretto?
    «No, non mi ha costretto.» scuoto veloce la testa, perché non è così che è andata, non come potrebbe pensarla, in questi termini, Rexana, e le voglio cavare immediatamente questo pensiero maledetto dalla testa. Che sia stata una sorta di obbligo, di violenza perpetrata nel momento meno atteso, senza che dipendesse anche solo in minima parte da me. No, non è andata così.
    Eppure non mi riesce sostenere neanche di essere stata veramente libera, mai, in ogni cosa, anche se è da tanto tempo che provo a convincermi che sia questa la mia chiamata, la mia vocazione, la mia natura stessa in quanto oracolo prima ancora che in quanto Bishop, o Hakka, o solamente me stessa. Questa forma di obbedienza viene prima di qualsiasi altra cosa, di tutte quelle pieghe che hanno preso poi la mia vita, in maniera più o meno imprevedibile: no, questo c'è sempre stato, non sono mai stata veramente e completamente libera. Ma lo accetto, e anche se non volessi lo dovrei fare ugualmente, per evitare di perdere tempo in una lotta insensata, già persa. Ci ho provato, ci ho provato a fare le cose diversamente, a rompere lo schema, ad autodeterminarmi, se vogliamo, ma è difficile ignorare le responsabilità che ti sono state cucite addosso addirittura prima ancora che i flussi si addensassero a costituire l'anima: c'era già qualcosa, un cuore, una missione, di cui sono diventati involucro, si sono intrecciati sopra di essa, ne hanno fatto motore, nucleo vivo, pulsante. Vivente. È una cantilena che rimane in testa, una nota lontana, quella voce che ti riporta sempre a casa. È un destino già scritto, uno da cui non si può scappare.
    «Ma i termini erano che, in quanto suo Oracolo, il primo figlio che avrei avuto, in qualsiasi momento lo avessi concepito, gli sarebbe appartenuto per essere suo paladino oppure oracolo a sua volta.» una cosa del genere. «Un Figlio di Ra.». Lo so cosa significa quel nome, lo so dalla storia, dall'archeologia, da nomi scritti e vergati che hanno in sé quel glifo, quel simbolo di appartenenza. Mandanti del dio stesso in terra, grandi uomini, poche donne, pochissime, quelle che sono riuscite a strapparlo con la forza. Ma io non sono qui a sperare che mio figlio diventi qualcuno di importante, qualcuno di forte. Mi basta che esista, anche a costo di grossi sacrifici, anche a costo di perderla io la mia vita per lui. Perché deve essere questa la missione dell'Oracolo di Ra, non gli è concesso altro tipo di conforto, di retribuzione, di dono addirittura. Ma non me ne pento, non me ne voglio pentire. Perché se c'è qualcosa che ancora mi restituisce una identità, una forma di autodeterminazione, di libertà di scelta, è sapere che tutto ciò che ho fatto l'ho sempre fatto per noi, per le nostre sorelle. Mi basta sapere che in quella decisione sono stata Tess, prima di qualsiasi altra cosa.
    «Non saprà mai chi è suo padre.»
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    emeraude
    emeraude
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    emeraude
    kabakov
    Qualcosa dentro di te si contrae. Lo fa istintivamente. Forse perché sei davvero diventata questa casa. Forse perché ogni sussulto, ogni minacciosa scossa è come se facesse vibrare anche le tue di ossa, anche la tua gamba rotta facendoti istintivamente piantare meglio i piedi per terra qualora ci fosse il bisogno, l'urgenza di scattare e farlo per correre dai bambini. Ma qui non c'è nessuno oggi se non tu e lui che hai di fronte. Ma è un istinto che ormai non si sradica più, non dopo quello che hai visto, non dopo come è stata ridotta Ronnie da quella bestia che sembrava solo un ragazzino, e forse lo era davvero, ma tu ormai ci vedi solo e soltanto quella stramaledettissima bestia che hai spedito all'inferno.
    Qualcosa dentro di te si contrae, ma trova espressione solamente nel volto che si indurisce, si piega impercettibilmente indietro, come per darti modo di guardare secondo una diversa prospettiva il volto giovane che hai davanti. Non che sia diventato improvvisamente una minaccia, ma non ti piacciono le menzogne, e ti piacciono ancora meno se si consumano dentro casa tua, se diventano il biglietto per entrare e rimanere sotto il tuo tetto.
    Lo capisci adesso cosa voleva dire Morgan, come si era sentito dopo il tuo di silenzio, quello con il quale avevi chiesto soccorso ai Crain in un momento veramente difficile. E adesso forse pure lui fa lo stesso, anche se ci sono cicatrici veramente difficili da ignorare, specialmente se qualcuno ci preme così forte sopra. Sono vulnerabilità costate veramente care, ferite che non vuoi riaprire. Il solo pensiero ti genera dolore e rabbia.
    Snoccioli sotto la lingua, tra i denti, qualche istante di silenzio, continuando a guardarlo, a studiarlo, come per cercare, per assicurarti la presenza dei bordi di una maschera invisibile sul suo viso.
    «Valentin Hollow.»
    E il tuo cervello semplicemente lo registra come Valentin, ma lo traduce quasi automaticamente come Valentine, con l'inflessione più americana, diversa da quella di tuo figlio, nonostante tutti i nomignoli che ormai lo abbreviano, per comodità, il suo nome.
    Ma la tua testa non ti spinge più in là di questo. Del resto, perché dovrebbe farlo? Che motivo ne avrebbe? Ci sono cose impensabili, cose sulle quali il tuo pensiero neanche mai si è avventurato, perché sei una donna reale che non crede nelle coincidenze, e non crede in nient'altra cosa se non quella reale che si consuma sotto i tuoi occhi, direttamente tra le tue mani.
    «E da dove è che allora vieni? E perché hai mentito?»
    Seria, ormai dura e irreprensibile.
    hunter
    head of kabakov
    mother reliquary paleographer 35 y.o. wyoming
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  10. .
    emeraude
    emeraude
    emeraude
    emeraude
    kabakov
    «Perché dovrebbe avere qualcosa che non va?» gli chiedi con la stessa vena di sarcasmo pungente. «Ah già sì, perché sto parlando con te.» che voleva dire in realtà tante cose. Oltre allo scherzo, o alla lamentela nei confronti dell'iperprotettività di Rufus, c'era in realtà anche l'altro lato del suo essere così protettivo. Non si era mai trattato, tra voi, soltanto di una - a tuo parere - sterile forma di affermazione di un'identità insindacabile come era quella di certi cacciatori e di certe famiglie di cacciatori, come poteva benissimo essere quella dei Foulger.
    Però capisci come certe cose potrebbero seriamente "preoccuparlo", per gli stessi motivi: perché è un Foulger e perché è tuo cugino, e le cose, raziocinio e sentimenti si muovono su binari paralleli ma pur sempre su binari che viaggiano insieme.
    Prendi un sospiro, sciogliendo in uno sbuffo sul vetro il sarcasmo e l'ironia per tornare seria, anche se non vuoi sembrare eccessivamente preoccupata. Non lo sei, ti dici, ma in realtà quello che ti dà pensiero non è tanto adesso la reazione nell'immediato di Rufus, quanto il genere di pensieri che continueranno a macinargli nel cervello per… giorni? Imprevedibile. Perché ci tieni che le cose vadano bene anche per lui, dopo le infinite lotte e preghiere perché tra lui e Andre le cose funzionassero. Col senno di poi, anche se è un pensiero che non vorresti concederti ma nel quale a volte ti capita di cadere, forse tuo cugino aveva ragione su diverse cose. Ma scaccialo, non fa bene a nessuno, nemmeno a te. Però pagheresti davvero adesso perché le cose con Kieran funzionassero meglio, anche se le carte con cui questa relazione tra lui e Rufus non partono tutte in regola.
    «Non è un cacciatore. La sua famiglia aveva bisogno di conoscenze, ho fatto un accordo con la comunità che li sostiene e ho accettato che lo mandassero a Putnam Valley. Si chiama Kieran Callaway.»
    È quasi strano dire il suo nome così, come se rivelassi un segreto, come una che è tornata bambina e che tira giù il solito broncio per confidare qualcosa che la fa arrossire.
    «Fa il predicatore. Non è esattamente… nostro coetaneo, direi. Ha anche lui un figlio.»
    Ma non è l'età quella che conta. Ad un certo punto è una preoccupazione che svanisce, e lo ha fatto senza che te ne rendessi veramente conto, così come non è un peso sapere di Tobias. È qualcosa che funziona perché è tra due persone a modo loro adulte, pensi, credi, così ormai ti ritieni.
    «Sto bene.» ci tieni però a ribadire «Mi piace stare con lui.» che alla fine è il succo, la cosa più importante.
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    Edited by .happysong. - 3/5/2024, 00:35
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    Only Quincy

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    lemoine
    Non potevi chiedere di meglio sotto un certo punto di vista. Ti sei evitata mille peripezie per cercare anche solo di trovare una scusa per avvicinarti a Quincy Rowle, scartando - fortunatamente - persino la carta della pura e banale (anche se non sempre efficace) fascinazione femminea. Anche se gli scivoli piano accanto, con eleganza ma pure con una certa consapevolezza di te. E devi fare appello ai tuoi ricordi viscerali più che celebrali anche per fare questo: per risultare leggera, perfettamente amalgamata nell'ambiente e nella veste, come se non esistesse per te altro tipo di realtà oltre a questa, come se la quotidianità ricalcasse esattamente lo stesso disincantato sfarzo. Come se non fosse cominciato invece, con un autobus perso, un molo, una sigaretta e un bacio ad uno sconosciuto.
    C'è un modo con cui vuoi apparire, uno che vuol solo pretendere per adeguarsi alla presenza di Sara, ma che è in realtà ben altro e, forse ancora più banalmente, ti viene da ringraziare adesso per la pittoresca varietà delle conoscenze e delle amicizie con cui ti sei impratichita a cambiar di aspetto, di veste e persino di personalità.
    «Ho paura di doverla deludere. Lavoro nella sezione del Centro Analisi. Diciamo che quando arrivano da me il divertimento c'è già stato.» l'individuazione, la scoperta. Quando arrivano da te sono già stati messi abbastanza in sicurezza da permettere al tuo dipartimento di metterci le mani senza "far saltare tutti in aria" se così si può dire.
    È una persona affabile Quincy, piacevole, certamente non risentito dall'onere della casualità del ballo. Le hai notate le persone che conversavano con lui, come hai notato, nel muoversi delle mani, l'anello che anche lui porta al dito, forse più mascherato con quell'argento un po' inusuale, ma hai la sensazione che anche quella fosse una fede.
    «Addirittura malauguratamente commenti con una certa nota di curiosità nella voce.
    «Dopo il suo commento non credo di essere indiscreta a dirle di preferire Shostakovich.»
    Anche se non era più esattamente quella la musica che suonava in casa sua. Però non era difficile attingere ai vecchi ricordi da Ombrelune: certe cose dimostrano di riuscire a rimanere attaccate addosso per una vita intera.
    «Direi per cause naturali, grazie agli studi, ho cominciato presto alla Piramide. Lei è familiare con l'ambiente?»
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    Numero 21
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    happysong richiede la chiusura del seguente topic: x
    Motivazione: conclusa <3
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    Alastor
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    Lo sentì come era cambiato il tono, l'atmosfera, quasi l'aura - se fosse stato in grado di percepirla - attorno ad Azrael. Si era spento, un poco. Ci provava a tenersi su, a tenergli testa come era solito fare, ma ad un certo punto è come se il gioco finisse, per il semplice fatto che lui ha deciso di cambiare le regole e Alastor finisce, all'improvviso, per trovarsi con il giro di carte improvvisamente sbagliato in mano. Un bel colpo da maestro, una partita a tennis perfetta rovinata dal fatto che l'altro giocatore è stanco, fiaccato troppo, mentre l'altro ancora vuole giocare con il suo degno avversario. Un po' come il gatto con il topo, quando il topo è abbastanza veloce da riuscire a sfuggirgli. Ed è così a volte che va tra Alastor e Azrael, e ad Alastor piace, fin tanto che sa di poter trovare dall'altra parte qualcuno in grado di rispondere ai suoi servizi e a tutte le sue palle curve infingarde e ingannatrici. Da un lato, pensa pure, deve essere questo il motivo che ha spinto lui, Banditore, a sorseggiare , seduto davanti alla poltroncina di un Emissario, versato dalle sue stesse mani, quando ci sono invece i suoi simili che sputerebbero o a cui striderebbero i denti alla sola idea di avvicinarsi così tanto a sfiorare una Scintilla. Forse perché quella di Azrael non è più quella di un tempo, forse perché proprio Alastor gliel'ha fiaccata all'epoca con una stoccata davvero, davvero crudele, di una crudeltà assolutamente gioiosa, e da allora le cose, tra i due, sono diventate più tollerabili. Però non si è mai chiesto, Alastor, come potesse essere dall'altra parte, dalla parte del giocatore stanco, affrontare sempre qualcuno pronto a pungere, pugnalare, ed è forse ora il momento in cui, tra le fenditure della sua torre rossa, qualcosa la scopre o la intuisce. Ma non può farci nulla, si dice, lui è fatto così, niente può pensare di cambiarlo, neanche Azrael. È perché è così che siede al suo tavolo, è perché è così che gli muove pure la compassione di non spegnere definitivamente la Scintilla di un nemico. Così è fatto Alastor, non lo si può cambiare, si dice.
    «E faresti male, molto male. Non riuscirei a farci niente.»
    Pensare veramente di affidargli il Just A Cup Of Tea suonava veramente come una mezza follia. Togliendoci pure il "mezza": una completa follia. Lui, lì dentro, a fare ciò che ad Azrael e al suo tramite riusciva così bene, con lo stesso tipo di attenzione, di delicatezza.
    Ma al di là della pessima idea di affidare un negozio tanto raffinato ad un Banditore come lui, c'era un pensiero diverso dietro a quel testamento, uno a cui Alastor non voleva pensare, perché non lo voleva fare e basta, perché era difficile ammettere qualcosa, scoprire un nervo, spalancare le fenditure, affacciarsi direttamente sulle proprie mura. Certe cose erano troppo, e basta. Ma lo capì, lo sentì, e decise di allontanarsene, come se fosse stato punto da qualcosa di troppo serio, troppo reale da poterlo accettare come possibilità.
    Sollevò le mani in aria. Era praticamente una partita persa questa storia della musa e di Baudelaire. Gliela poteva concedere questa vittoria, più per sfinitezza che per altro - si diceva. Forse perché davvero una vittoria, ad un certo punto, era felice di dargliela. Forse perché ancora ripensava a quella frase, al modo con cui era suonata, alla serietà con la quale l'aveva pronunciata e poi infine al silenzio con cui l'aveva sigillata e consegnata a lui, come notaio del futuro incerto. Forse perché non aveva altro modo per rispondere a quelle parole, se non questo: sollevando appena la tazza e allungando le gambe sotto al tavolo.
    «Ringrazi il proprietario, come sempre



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    egon
    egon
    egon
    egon
    sholokov
    Ci aveva visto giusto, o quantomeno aveva avuto un certo tipo di intuizione che per un attimo si era piegata in una certa direzione senza sperarci troppo, e alla fine era rimbalzata indietro, sempre a distanza di sicurezza nell'osservare una scena, un tavolo, due commensali, uno dei due forse troppo ben vestito per essere davvero alla pari dell'altro, o almeno del suo stesso ambiente.
    C'è qualcosa, forse è attaccato al collo stretto della bottiglia, che gli sussurra, gli sibila, suona sul vetro, che non è così che dovrebbero funzionare le cose, per lui almeno. Pensa che questo sia soltanto un ripiego, un modo per girare intorno ad una cosa senza prendere soluzioni definitive. La frustrazione delle cose incerte, la conosce bene Egon. Delle indecisioni, delle scelte prese a metà, mai decisive, mai ferree, anche a costo di pagare prezzi molto alti troppo alti. Era stata la lentezza della burocrazia, di queste scelte grigie in parte a causare quello che era successo a Brooklyn e ad Amarna, ma a lei non ci voleva pensare. La ricordava bene la sensazione nelle ossa e nei muscoli di un sonno costantemente interrotto, di una partenza sempre prossima e incerta: è come bruciare dentro, scoppiare di febbre. Quando le decisioni non venivano prese per tempo, e poi si era costretti a farlo tutti insieme costringendo qualcuno a pagarne il prezzo. No, non si trattava nemmeno di una guerra condotta dai piani alti: tutti avevano quella stramaledetta febbre, dal primo all'ultimo. Gli avevano detto che il mondo era fatto esattamente così, di scelte ponderate, di burocrazia, di tappe su tappe, piccoli passi in una direzione sconosciuta, non sempre però protesi in avanti, a volte era semplicemente tornare indietro e perdere terreno. Non stiamo perdendo terreno, ma in realtà il passo indietro era solo e solamente il ripiego all'indecisione.
    Ed è questo pensa Egon adesso: che c'è troppo poco tempo e vivere da clandestino non risolverà niente, non in tempi brevi. Quanti buchi nell'acqua ancora dovrà fare prima di trovare qualcuno con qualche informazione da… semplicemente da archiviare, mettere via in una sorta di collezione di cui ancora non se ne conosce l'uso, e il prevederlo è scade soltanto nell'utopia. Ma lo hanno abituato anche al sacrificio, al costringere sé stesso sulla via più dura, ed è forse quella, per l'ennesima volta, la più giusta da seguire.
    Non lo fai per te: un mantra che ormai non suona neanche più nella testa, è diventato un rumore bianco, quel brusio di sottofondo che si sente anche nel più completo silenzio, senza il quale scoppiano le orecchie.
    «Sì, ne conosco di tipi così.» dice masticandosi una mezza smorfia sul bordo della bottiglia. Che poi sia vero o no, non fa differenza in realtà. Nella sua New York la gente ci preoccupava della propria estate era rara. La gente sperava quantomeno di arrivarci a quell'estate.
    Ecco una soluzione decisiva: evacuare la città. Troppo decisiva, troppo per la burocrazia di una metropoli in subbuglio e già mutilata.
    «Grazie, ma neanche a me interessava quello.»
    Gli indica con un cenno il posto libero accanto al suo, mentre se ne resta chinato in avanti, ormai senza troppa grazia, sul bancone.
    «Gli stai dietro da parecchio?»
    agent
    dimensional phenomena
    dimensional traveler black mage 39 y.o. n.y. 6
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    Disponibile con Hector! <3
1123 replies since 29/7/2012
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