Ebrei e Israele

Posts written by wammaaa

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    Il segreto della gioia
    Ester Pavoncello
    | 09-05-2024


    Dalla seconda sera di Pesach abbiamo iniziato a contare: per sette settimane prima di giungere a Shavuot, contiamo l’Omer (misura di orzo che veniva offerta nel Santuario di Gerusalemme)
    Tale conteggio rispecchia il viaggio fisico e spirituale dei nostri antenati nel deserto, i quali hanno trascorso i giorni dal miracoloso esodo dall’Egitto e il dono della Torah sul Sinai, l’evento più straordinario della storia umana.
    Gli insegnamenti della Kabbalà spiegano che ci sono sette Sefirot, che Hashem assume, Attributi divini, attraverso i quali si relaziona con la nostra esistenza: Chessed, Ghevurà, Tifferet, Netzach, Hod, Yesod e Malchut. Nell’essere umano, creato ad immagine e somiglianza di Dio, le sette Sefirot si rispecchiano nei sette attributi emotivi dell’animo umano: gentilezza, moderazione, armonia, ambizione, umiltà, connessione e ricettività. Ciascuno contiene elementi di tutti e sette, ovvero gentilezza nella gentilezza, moderazione nella gentilezza, armonia nella gentilezza, per un totale di quarantanove tratti. Il conteggio dell’Omer è quindi un processo di auto raffinazione in 49 fasi, in cui ogni giorno è dedicato al perfezionamento e alla rettifica delle qualità umane.
    Da Shabbat abbiamo iniziato a leggere i Pirkei Avòt, Massime dei Padri. Chi è ricco? insegna il Pirkei Avot (4,1) colui che si accontenta per ciò che ha. Una persona può essere triste ed autocommiserarsi per tutta la vita. L’indole umana tende a concentrarsi sulle carenze, cattiva abitudine da estirpare. È un lavoro di concentrazione, avere gioia di energizzare qualcosa di cui spesso ci rendiamo conto, solo quando è minacciato o ci viene a mancare. Ciò che sembra normale, non è scontato. Basterebbe fare un giro in un reparto di ospedale. O rapportarsi con chi sta sperimentando una perdita. Ho pianto perché non avevo scarpe, finché ho incontrato un uomo che non aveva piedi. La gioia è uno stato mentale. La felicità non è una meta materiale prossima da raggiungere. Abbiamo sperimentato la verità dell’abitudine, per cui appena si raggiunge qualcosa, si sente il bisogno di altro. Esistono molte persone ricche, infelici. L’idea è comprensibile, ma non è facile, scegliere di apprezzare cosa si ha. Al mattino l’ebreo recita le birchot ashachar, ringrazia Hashem per avergli restituito la vita. Hashem ha più fiducia in noi, di quanta ne abbiamo in noi stessi. Lo ringraziamo per averci fatti ebrei. Una minoranza nell’umanità, il faro per le altre nazioni.
    La chiave della gioia, elisir di vita, è provare piacere per ciò che si possiede. Fornisce la carica e attiva meccanismi contagiosi e si propaga. I problemi esistono, in modo oggettivo, per tutti gli individui. Un obbligo morale: non abbattersi. È necessario essere attivi per poter fronteggiare le difficoltà. Chi è depresso, per il suo cattivo umore genera intorno a lui tristezza e passività. Sforziamoci, osservando gli aspetti positivi delle situazioni. La Torah non è lontana meditazione, è esercizio e pratica. Strumento per affrontare e risolvere i problemi. I conflitti sociali sono principalmente in famiglia, in cui le persone sono diverse. L’Arizal ci insegna che in casa, si misura la persona nella categoria delle mitzvot ben adam lechaverò (tra l’uomo e il compagno). In pubblico, ci si comporta in un modo apparente, per fare bella figura. Le qualità di compassione e pazienza, si considerano per come un uomo si comporta con i suoi cari. Iniziamo a fare un bel sorriso quando rientriamo in casa. Sistemiamoci per essere più belli, quando torniamo dai nostri coniugi, piuttosto che quando usciamo di casa per andare al lavoro. L’appuntamento più importante che abbiamo durante la giornata è quello in cui il tempo è condiviso con i nostri familiari. Non è immediato, ma possibile renderci pro attivi. Poniamo attenzione su ciò che va bene, apprezzando il bello di essere in vita e ringraziando con motivazione. Esercitiamoci ad appuntare su un foglio, enumerando quotidianamente, i motivi che abbiamo per essere grati. Inizialmente con facilità si compilerà l’elenco, poi si richiederà uno sforzo maggiore, per trovare altro. Il miglior modo per servire Hashem è ringraziarlo. Solo chi è felice può ricevere la presenza di Dio. Mai lasciare che la tristezza prenda il controllo. Rabbi Nachaman scrive: chi è sempre felice vince! Il tuo obbligo è solo essere felice. Ti pentirai di ogni momento in cui non sei stato felice. Oggi, adesso è l’istante migliore della tua vita. Sorridi! Tutto è per il bene.

    da shalom.it
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    Data: 06 maggio 2024

    «Dalla Colombia alla Columbia: una guerra continua contro Israele»

    Dalla Colombia alla Columbia: una guerra continua contro Israele

    Commento di Ben Cohen

    (traduzione di Yehudit Weisz)

    https://www.jns.org/from-colombia-to-colum...-war-on-israel/


    Gustavo Petro, presidente della Colombia, di estrema sinistra, ha annunciato la rottura dei rapporti diplomatici con Israele, con il plauso di Hamas. Tutte le sinistre sono mobilitate contro Israele in una ondata di odio contro "i coloni" (perché così considerano Israele: uno Stato "coloniale"). Gli israeliani e gli ebrei di tutto il mondo, a queste avversità, rispondono anche con l'umorismo.


    In tempi di avversità, gli ebrei rispondono in molti modi, di cui forse il più prezioso è l’umorismo. Quando l’Unione Sovietica era di fatto una prigione per i suoi cittadini ebrei, le battute erano numerose e pungenti, intrise di malinconia e ilarità allo stesso tempo. C'è quella dell'ufficiale dell'Armata Rossa che chiede a un ragazzo ebreo il nome di suo padre (“l’Unione Sovietica”) e di sua madre (“il Partito Comunista”) prima di chiedergli cosa vuole essere da grande? (“un orfano”). O quella del KGB che arriva a casa di un ebreo per arrestarlo a meno che non accetti di rinunciare a qualcosa a cui tiene. “Esther, tesoro mio”, dice l'uomo alla moglie, “il KGB è qui per te!” Mi piacerebbe tanto continuare, ma ho reso l’idea. Nei mesi successivi al pogrom di Hamas del 7 ottobre in Israele, gli ebrei si sono spesso rivolti all’umorismo come mezzo per elaborare il trauma causato dal peggior atto di violenza antisemita dai tempi della Shoah. Ci sono troppi esempi da citare, ma molti lettori avranno familiarità con “Rabbi Linda Goldstein”, un account fittizio su X/Twitter gestito dall’antisionista “Rabbino Capo di Gaza”, che giustappone magnificamente l’ossessione della sinistra per i micro-dettagli della politica dell’identità con la sfacciata omofobia e misoginia dei suoi alleati di Hamas. E spesso, come sottolineano molti commentatori, non c’è bisogno della parodia perché la realtà è parodia; a questo proposito, mi viene in mente la pretesa di una studentessa dottoranda della Columbia University, la quale voleva che “aiuti umanitari” entrassero nella Hamilton Hall, occupata la settimana scorsa da una folla pro-Hamas; la richiesta era accompagnata dalla sua risentita affermazione secondo cui chiunque si opponga a tale azione ovviamente vuole che gli studenti “muoiano di fame e disidratazione”.

    L'umorismo è facile da trovare, per due motivi. In primo luogo, l’antisemitismo è essenzialmente una forma di idiozia, e l’idiozia – come hanno dimostrato negli anni Charlie Chaplin, Stanlio e Ollio, Steve Martin e Ricky Gervais – è divertente. In secondo luogo, c’è la bizzarra alleanza di rivoluzionari incalliti e brutali, ma autentici, in Medio Oriente, in America Latina e altrove, con i falsi rivoluzionari che indossano la kefiah e che evitano il glutine nei campus universitari americani. E anche questo è molto divertente. Tale leggerezza è particolarmente utile nell’affrontare situazioni altrimenti intollerabili e per non commettere errori, la situazione attuale è intollerabile.
    Quando 20 anni fa emerse il movimento per colpire Israele con una campagna di boicottaggio, disinvestimento e sanzioni (BDS), il suo obiettivo finale era quello di trasformare lo Stato ebraico in quella sorta di paria che fu il Sud Africa dell’apartheid negli anni ’70 e ’80. Una condizione necessaria per raggiungere questo obiettivo era il passaggio del messaggio centrale del BDS – ossia che Israele è un’entità razzista senza diritto a un’esistenza sovrana – nella consapevolezza generale. In larga misura, questo è già avvenuto. Nell'ultima settimana, ho visto le immagini di un addetto al banco del check-in della Delta Airlines in un aeroporto degli Stati Uniti e di un autista di autobus nella città inglese di Manchester che indossavano spille con la bandiera palestinese mentre erano al lavoro; ho letto la notizia che il principale quotidiano ebraico dei Paesi Bassi sta ora spedendo la sua edizione cartacea agli abbonati in buste semplici per non farli passare per ebrei; e ho osservato cartelli nei campus universitari americani d'élite che invitavano la popolazione ebraica israeliana, la maggioranza della quale sono mizrahim (ebrei emigrati in Israele dai Paesi arabi e musulmani) a “ritornare” in Europa. Uno degli slogan più radicali emersi durante la lotta contro l’apartheid sudafricana è stato “un colono, un proiettile”. Proprio questo messaggio viene ora trasmesso – verbalmente e attraverso i fatti – agli israeliani e alle comunità ebraiche di tutto il mondo. Giovedì scorso, il presidente di estrema sinistra della Colombia, Gustavo Petro, ha annunciato che avrebbe tagliato i rapporti diplomatici con Israele, una mossa calorosamente lodata da Hamas, dall'Autorità Palestinese e dal regime islamico in Iran. In un discorso pronunciato ad una manifestazione del Primo Maggio, Petro ha completamente fatto sua l’ossessione della sinistra palestinese, insieme alla fervente convinzione che la sconfitta del “sionismo” inaugurerà una nuova era di potere popolare. “ Oggi il mondo potrebbe essere riassunto in una sola parola, che rivendica il bisogno di vita, di ribellione, di bandiera alzata e di resistenza”, ha dichiarato Petro. “Quella parola è 'Gaza', è 'Palestina', sono i ragazzi e le ragazze che sono morti smembrati dalle bombe”. Petro, eletto nel 2022, è un vero rivoluzionario con l’esperienza di vita di uno di loro, avendo aderito all’organizzazione terroristica M-19 quando era ancora un adolescente ed essendo stato torturato per mano di ufficiali militari colombiani. Le sue parole hanno anche avuto una risonanza profonda nell’altra Columbia – l’università dell’ Ivy League di New York – dove i manifestanti pro-Hamas che giocano a fare la rivoluzione, mentre i loro genitori pagano tasse esorbitanti, hanno allestito un accampamento illegale di tende. Sono state apprezzate anche a Teheran, dove il presidente iraniano Ebrahim Raisi ha lodato “la rivolta degli studenti, dei professori e delle élite occidentali a sostegno del popolo oppresso di Gaza”, mentre il portavoce del ministero degli Esteri Nasser Kanaani ha espresso soddisfazione per “il risveglio della società globale… riguardo la questione palestinese e la profondità dell’odio pubblico verso i crimini del regime usurpatore sionista e il genocidio sostenuto dall’America e da alcuni governi europei”. Ancora, questi sono esattamente gli stessi sentimenti espressi alla Columbia, all’UCLA, alla George Washington University e negli altri campus americani sconvolti dall’ondata di solidarietà con Hamas. A molti ebrei, tutto ciò sembrerà un fallimento colossale: un fallimento dell’educazione sulla Shoah, nella quale le comunità ebraiche sono state profondamente coinvolte per diversi decenni; l’incapacità di trasmettere accuratamente la vera natura della società israeliana al di là della caricatura “coloniale – insediamenti” promossa da gran parte della sinistra e da alcuni influencer di estrema destra; l’incapacità di mantenere relazioni costruttive con quelle altre minoranze in cui è diffusa la simpatia per Hamas e le sue atrocità, in particolare i musulmani americani, molti dei quali provengono da Paesi non arabi, e gli afroamericani. Forse l’aspetto più deprimente di tutti è rendersi conto che il dibattito e le discussioni sono infruttuose, anche perché il rifiuto di comunicare con i “sionisti” è diventato un articolo di fede nelle manifestazioni e nei raduni pro-Hamas. Tuttavia, allo stesso tempo, dobbiamo scrollarci di dosso il mito secondo cui queste manifestazioni sono un’espressione della “società civile”: individui e gruppi di volontari che si mobilitano per Gaza spinti dalla disperazione per le scene sanguinose avvenute in quel territorio. Da Mosca a Bogotà, da Ankara a Teheran, gli autoritari del mondo si rallegrano dell’opportunità di usare il linguaggio dei diritti umani nei confronti di occidentali ingenui. Piuttosto che persuadere, dovremmo concentrarci sulla sconfitta alla fonte. Ciò significa, nel caso della Colombia, esercitare pressioni sui legislatori statunitensi affinché impongano restrizioni commerciali e altre sanzioni al suo governo finché demonizzerà Israele, una democrazia e un fedele alleato americano, come uno stato canaglia. Ciò farà arrabbiare e alienerà ancora di più la sinistra, ma non abbiamo scelta. Tutto quello che possiamo fare è agire. E, di tanto in tanto, ridere.
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    08.05.2024 Perché avete preso di mira Kerem Shalom, “Vigneto di pace”?
    Commento di Michelle Mazel

    Testata: Informazione Corretta
    Data: 08 maggio 2024
    Pagina: 1
    Autore: Michelle Mazel
    Titolo: «Perché avete preso di mira Kerem Shalom, “Vigneto di pace”?»


    https://israel247.org/pourquoi-avoir-vise-...paix-80329.html


    I soldati uccisi da Hamas al valico di Kerem Shalom, il vigneto della pace, alla vigilia dello Yom HaShoah. Non è casuale la scelta del momento per l'attacco e non è casuale nemmeno il luogo.
    C’è da dire che quel che è accaduto ha dell’incredibile. Supera ogni immaginazione. Vediamo i fatti. La Casa Bianca vuole a tutti i costi porre fine al conflitto a Gaza, molto impopolare tra alcuni democratici; questo conflitto copre di luce livida la campagna di Joe Biden, che cerca ad ogni costo un secondo mandato. Dimenticando gli impegni presi dopo il 7 ottobre, gli Stati Uniti stanno esercitando tutte le loro pressioni affinché Israele accetti le richieste di Hamas. Pretendono persino un aumento significativo del numero di camion che ogni giorno entrano nella Striscia di Gaza. L’organizzazione terroristica così rafforzata resta inflessibile sulle sue posizioni, contando per raggiungere i suoi scopi sull'intensa pressione internazionale esercitata sul governo israeliano, mentre la mobilitazione delle famiglie e dei sostenitori degli ostaggi non conosce tregua. Infatti, alla vigilia della Giornata della Memoria della Shoah, mentre si attende la risposta di Hamas alla proposta elaborata con l'aiuto dell’Egitto, il dibattito infuria in Israele e in seno al governo, alcuni membri del quale minacciano di dimettersi nel caso in cui venisse respinta una risposta positiva di Hamas. Tutto può ancora succedere. Probabilmente non abbastanza in fretta per Yahya Sinwar e per la sua banda. Si sono detti che la pressione doveva essere aumentata ancora di più? In ogni caso, hanno preso una decisione molto curiosa. Secondo Le Figaro, “Domenica, tre soldati israeliani sono stati uccisi e 12 sono rimasti feriti dai razzi lanciati dal braccio armato di Hamas nei pressi di Kerem Shalom, il principale punto di passaggio per gli aiuti umanitari da Israele alla Striscia di Gaza”, ha detto l’esercito israeliano all'Agenzia France Presse. Tra i feriti, “tre soldati sono stati colpiti in modo grave)”, ha riportato. Questi lanci che sono stati rivendicati dalle Brigate Ezzedin al-Qassam, braccio armato di Hamas, hanno indotto Israele a chiudere il valico utilizzato per trasportare gli aiuti a Gaza.  È successo, ricordiamolo, alla vigilia del Giorno della Memoria della Shoah. Una pura coincidenza? Trascuriamo il fatto che i lanciatori di razzi erano a Rafah, molto vicino alla zona umanitaria. Ma perché prendere di mira Kerem Shalom – “vigneto della pace” – questo punto di passaggio attraverso il quale ogni giorno transitano centinaia di camion carichi di tonnellate di aiuti alimentari per gli abitanti di Gaza? Dobbiamo credere in un calcolo machiavellico, ossia che gli israeliani chiuderanno questo punto, almeno temporaneamente, e saranno accusati di cercare di affamare i poveri abitanti di Gaza? In ogni caso, l'organizzazione terroristica si è sbagliata di grosso. Invano, il coraggioso Antonio Guterres è corso in suo aiuto, dichiarando: “Una “invasione” di Rafah, una città nel sud della Striscia di Gaza dove Israele ha promesso di effettuare una vasta operazione di terra, sarebbe “intollerabile.” Il governo ha dato il via libera a questa operazione. Nel giro di poche ore, l’esercito israeliano ha preso il controllo del lato di Gaza del valico di Rafah con il confine egiziano. “Tsahal”, ci dice Le Figaro , “aveva coordinato la sua operazione con le organizzazioni umanitarie”. In meno tempo di quello necessario per scrivere, Hamas ha annunciato di essere pronto ad accettare un accordo. Questa volta Israele guiderà i negoziati da una posizione di forza.
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    Corriere della Sera Rassegna Stampa

    08.05.2024 Continua l’ambiguo intervento di Mattarella all’ONU
    Cronaca di Viviana Mazza

    Testata: Corriere della Sera
    Data: 08 maggio 2024
    Pagina: 11
    Autore: Viviana Mazza
    Titolo: ««Premiare Mosca sarebbe pericoloso». Le parole di Mattarella all’assemblea dell’Onu»

    Riprendiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 08/05/2024, a pag. 11, con il titolo "«Premiare Mosca sarebbe pericoloso». Le parole di Mattarella all’assemblea dell’Onu" la cronaca di Viviana Mazza.


    Sergio Mattarella all'Onu. Dopo aver elogiato le Nazioni Unite, senza considerare tutti gli scandalosi sbilanciamenti contro Israele, la sua prima considerazione è stata: contro Israele. Il presidente italiano si unisce al coro di chi chiede che Netanyahu non attacchi l'ultima roccaforte dei terroristi a Rafah.
    «Mi unisco all’appello del segretario generale Guterres affinché siano evitate operazioni militari a Rafah per la drammaticità delle conseguenze che potrebbero avere sui civili palestinesi. Occorre poi considerare l’essenziale funzione svolta dall’agenzia delle Nazioni Unite per il soccorso e l’occupazione dei profughi palestinesi nel vicino Oriente e di conseguenza l’importanza di continuare a finanziarla». Così il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, in un discorso all’Assemblea generale delle Nazioni Unite, è entrato nel vivo della crisi in Medio Oriente. A fine marzo, la premier Giorgia Meloni aveva detto «no» al ripristino dei fondi all’agenzia (l’Unrwa) «finché non sarà fatta piena luce su come sono state utilizzate queste risorse». Ieri il viceministro degli Esteri Edmondo Cirielli, che accompagnava Mattarella a New York, ha specificato: «Ho deciso di riaprire la linea dei finanziamenti all’Unwra ma su progetti specifici. Valuteremo affinché non ci siano più commistioni con organizzazioni terroristiche».

    Il capo di Stato ha ribadito inoltre che «occorre porre fine alla catena di azioni e reazioni e consentire l’avvio di un processo che ponga termine ai massacri e conduca a una pace stabile: una soluzione che passa necessariamente dall’obiettivo condiviso del pieno e reciproco riconoscimento dei due Stati di Israele e di Palestina, con il definitivo riconoscimento di Israele e della sua sicurezza da parte degli Stati della regione».

    La sera prima, Mattarella ha incontrato Guterres, che aveva definito un’invasione di terra a Rafah «intollerabile», chiedendo ai governi di Israele e di Hamas di giungere ad un accordo «e porre fine alle sofferenze». «Il cessate il fuoco, l’accesso umanitario incondizionato alla popolazione di Gaza, la liberazione degli ostaggi sequestrati nel corso del disumano attacco del 7 ottobre — che, va sottolineato, rappresenta la causa scatenante di quanto accaduto successivamente — e l’interruzione di tutte le attività di sostegno alle organizzazioni terroristiche, restano i cardini sui quali continuare a costruire con determinazione un’azione diplomatica comune. Il conflitto non può consentire di violare le norme del diritto umanitario a tutela delle popolazioni civili».

    Su Gaza

    «Evitare operazioni militari, le conseguenze sui civili sarebbero drammatiche»

    L’Italia ha avuto un importante palcoscenico al Palazzo di Vetro per un discorso, «a più di un anno dall’80esimo anniversario della fondazione delle Nazioni Unite e dal 70esimo dell’ingresso dell’Italia», che ha incluso riferimenti ad altre crisi — dalla Siria allo Yemen —, alla necessità di una riforma dell’Onu e al Piano Mattei per l’Africa. Ma l’altro conflitto su cui Mattarella si è soffermato in particolare è l’Ucraina, sottolineando l’importanza del diritto all’autodifesa di Kiev «sancito dall’articolo 51 della Carta Onu» e i rischi di escalation nucleare e di crisi alimentare.

    «La Russia si è assunta la responsabilità storica di avere riportato la guerra nel cuore del continente europeo», ha detto il capo dello Stato. «L’invasione russa dell’Ucraina non è un mero conflitto regionale. Non foss’altro perché ad esserne protagonista è una potenza che ambisce a esercitare influenza e ruolo globali, che derivano dall’ineludibile responsabilità di essere membro permanente del Consiglio di Sicurezza e che nessuno intende ignorare».

    La ricerca di una soluzione pacifica e duratura della guerra in Ucraina, in cui è impegnata anche l’Italia, non deve consistere in «qualsiasi soluzione o, tantomeno, una soluzione che premi l’aggressore e mortifichi l’aggredito, creando un precedente di grande pericolo per tutti — ha spiegato il presidente della Repubblica —. Non si tratta di dar vita a una composizione purchessia. La pace, per essere giusta, va fondata sui principi alti e irrinunciabili del diritto internazionale e della Carta delle Nazioni Unite».
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    08.05.2024 La sinistra demonizza Netanyahu perchè ha paura di nominare i veri responsabili della guerra
    Diario di guerra di Deborah Fait

    Testata: Informazione Corretta
    Data: 08 maggio 2024
    Pagina: 1
    Autore: Deborah Fait
    Titolo: «La sinistra demonizza Netanyahu perchè ha paura di nominare i veri responsabili della guerra»

    La sinistra demonizza Netanyahu perchè ha paura di nominare i veri responsabili della guerra
    Diario di guerra di Deborah Fait


    Sandra Amurri, una delle più assidue accusatrici di Israele, sempre ospite di Quarta Repubblica di Porro. Arriva a dire che Israele non è una democrazia e non garantisce libertà di culto, quando invece è l'unico paese mediorientale democratico in cui tutte le religioni sono praticate liberamente. E poi sghignazza! Dai, Porro, non hai niente di meglio?
    Mi trovo in Italia per un periodo e devo dire che sono stata piacevolmente sorpresa dalla solidarietà che amici e conoscenti hanno voluto esprimere a Israele. Certo, le persone che mi sono vicine hanno cervelli pensanti nonostante siano quotidianamente bombardati da alcuni media che fanno venire la pelle d'oca per ignoranza vera o presunta; o per presa di posizione pro-Pal derivata da una perfetta propaganda palestinese, molto simile a quella nazista dei tempi di Goebbels.

    Quarta Repubblica, condotta peraltro da un Nicola Porro, dichiarato amico di Israele, ad ogni puntata invita (probabilmente per la par condicio) qualche personaggio di sinistra o apertamente comunista, ideologia nefasta che dovrebbe essere dichiarata fuori legge al pari del fascismo. Da qualche puntata Nicola Porro invita la giornalista del Fatto Quotidiano, Sandra Amurri, che ha la particolarità di dire cose indegne contro Israele. Ridendo divertita. E' evidente che l'unica a divertirsi sia lei perchè nessuno sorride alle sue battute razziste, anzi il più delle volte, i presenti, quelli non obnubilati dall'odio, protestano, seppur debolmente. Nell'ultima puntata di Quarta Repubblica del 5 maggio, dopo varie discussioni sui poverissimi palestinesi, lei, la Amurri, in evidente contrasto con Fausto Biloslavo, ha avuto un momento di grande ispirazione comunista, ed ha sentenziato "Israele non è una democrazia perchè ammette una sola religione". Si è sentito l'urlo di Biloslavo ma Porro, sbagliando, poichè la menzogna era troppo enorme, ha interrotto la discussione, conclusasi con le ultime parole insane della giornalista: "Israele non è più una democrazia dal giorno in cui hanno ammazzato Rabin". Ebbene, che dire? Spero che chi di dovere, gentilmente le ricacci quelle parole in gola.

    Nel frattempo desidero informare la signora che in Israele sono presenti tutte le fedi con uguali diritti. Facciamo un breve elenco sempre per difetto: I Baha'i, fuggiti dall'Iran causa persecuzioni, a Haifa hanno edificato un tempio annoverato tra le meraviglie del mondo. I cristiani, in tutte le loro diversità, protestanti, cattolici, evangelici, anglicani, ortodossi, pentecostali, vivono perfettamente integrati nella società ebraica. Abbiamo inoltre in Israele due milioni di musulmani che praticano la loro religione senza alcun problema. Non posso escludere naturalmente la nostra piccola ma amatissima comunità drusa con la sua religione segreta. Naturalmente la religione predominante in Israele è l'ebraismo, questo fatto infastidisce la signora Amurri che ride raccontando menzogne e ride ancora di più quando demonizza Israele. Penso che si dovrà rassegnare al fatto che Israele è il paese dove vive la maggior parte degli ebrei del mondo. Dovrebbe spiegarmi, la ridanciana Amurri, cos'è la non democrazia di Israele; qui tutte le fedi hanno la medesima importanza nonostante la maggioranza sia ebrea.

    Ho notato inoltre, e la cosa si sta facendo seria e seriale, che nei talk show, anche quelli più equilibrati, si tende a dipingere Netanyahu come il demonio responsabile di questa guerra. E' in atto il tentativo immorale di dare a chi ha reagito al peggiore pogrom della storia post Shoah, la responsabilità di quello che ne è seguito. E' semplicemente osceno. Lo è altrettanto il desiderio di dimenticare i veri responsabili di quanto sta accadendo dei morti ebrei, dei nostri soldati uccisi, degli ostaggi di cui nessuno si interessa più. Al contrario sono volutamente e colpevolmente ignorati l'assassino Yahyah Sinwar, ideatore dei massacri del 7 Ottobre. Il capo degli assassini , Ismail Haniye, residente in Qatar, come l'altro boss dell'organizzazione terroristica Khaled Meshal. Questo terzetto di organizzatori di morte non viene mai ricordato dagli opinionisti e mi chiedo perchè. Non sono sufficientemente famosi? E' forse molto meno pericoloso attribuire a Netanyahu tutte le colpe , sicuri che mai nessuno sarà punito per questo. Accusare i tre terroristi potrebbe risultare molto più pericoloso.

    Concludo, ma ribadisco, con tutte le mie forze che Israele, circondato da paesi che ne vogliono l'annientamento, da sempre attaccato da guerre e terrorismo, odiato da gran parte del mondo, ha avuto la forza di restare una grande e limpida democrazia. questo è uno miracoli di Israele e per questo sentire le voci sinistre e becere della sinistra, mi indigna come la più grande delle ingiustizie contro questo meraviglioso paese, rimasto naive e privo
    di odio, anche in una delle più grandi tragedie vissute dalla sua fondazione.

    da informazionecorretta.com
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    Yom Ha shoah Ve Hagvurà: una giornata in cui ribadire il diritto alla difesa. L’intervento del Rabbino Capo Riccardo Di Segni
    Redazione
    | 06-05-2024


    “Esistono ormai molte date per ricordare la Shoah, ognuna di queste date ha una sua storia istitutiva, un determinato valore, e spesso risulta più divisiva che unificante. Questa difficoltà la si sente con particolare urgenza in questi mesi dopo il 7 ottobre – ha detto il Rabbino Capo Riccardo Di Segni, durante il suo discorso in sinagoga per la commemorazione di Yom Hashoah Ve Hagvurà – Basta ricordare le polemiche che ci sono state circa la nostra partecipazione durante il 27 gennaio in cui avevamo delle perplessità che sono state fortemente confermate. Accanto alla pietà per quanto ci era accaduto in passato ci siamo dovuti sorbire le prediche di chi ci additava di esser passati da vittime a carnefici” ha proseguito poi il Rabbino Capo di Roma.

    “Il giorno della Shoah che si commemora oggi è chiamato Yom Hashoah Ve Hagvurà, un giorno della Shoah e dell’eroismo istituito dal parlamento israeliano negli anni ‘50, con un’impostazione ideologica e culturale molto specifica che è stata per molti anni, e lo è tuttora, divisiva. Per quale motivo? Perché la Gvurà a cui si fa riferimento è l’eroismo di coloro che hanno resistito ai nazisti. Sembrava dunque che coloro che furono in grado di resistere avessero agito nel giusto mentre gli altri, che furono vittime, contassero un po’ di meno” prosegue il Rabbino Di Segni”. Ciò rappresentava dunque una difficoltà. Originariamente la data scelta era infatti quella in cui era finita, repressa nel sangue, la rivolta del ghetto di Varsavia scoppiata nell’aprile del ‘43, dopo che già più di 270 mila ebrei erano stati deportati dal ghetto di varsavia e massacrati dai nazisti – ha ricordato Di Segni – Nel tentativo finale di ripulire il ghetto gli ebrei insorsero, e la rivolta venne schiacciata nel modo più brutale possibile, tuttavia quel momento di ribellione rappresenta l’emblema delle rivolte ebraiche contro i nazisti. In generale gli ebrei hanno combattuto contro i nazisti, c’erano più di un milione di ebrei negli eserciti alleati, e poi i partigiani e la brigata ebraica”

    Una giornata dalla forte valenza storica e culturale per gli israeliani e gli ebrei di tutto il mondo. “Questa idea della Gvurà che voleva sottolineare il parlamento israeliano, laico e socialista nella sua maggioranza, nasce da una rivoluzione culturale che è quella che ha avuto come miccia esplosiva il pogrom di Chișinău che avviene nell’aprile del 1903. Chișinău, capitale della Moldavia, aveva la metà della popolazione ebraica, il luogo però covava un profondo antisemitismo alimentato dalle autorità – ha raccontato il Rabbino Capo durante il suo intervento – ad un certo punto, si scatenò l’ira popolare contro gli ebrei, scaturita da una falsa accusa di omicidio rituale. Ci furono a quel punto massacri, distruzioni di abitazioni e stupri. Fu qualcosa di terribile per il mondo ebraico, che reagì in vario modo” ha aggiunto Di Segni.

    “Bialik, un poeta ebreo, scrisse una poesia, dal titolo “Be’ Ir Haareghà”, ovvero “Nella città del massacro” presentando un sentimento, non tanto diffuso all’epoca: un grido di protesta nei confronti degli ebrei che si erano praticamente fatti massacrare senza difendersi, assistendo inermi a quelle terribili persecuzioni Il poeta intendeva quindi richiamare il popolo ebraico ad una nuova concezione. Questo è diventato praticamente il manifesto del sionismo, che cominciò a concepire non soltanto il ritorno del popolo ebraico nella terra d’Israele, ma anche l’idea che il popolo ebraico non dovesse più essere massacrato impunemente” ha proseguito Di Segni.

    Un diritto inalienabile e spesso negato, quello di difendersi, che continua a essere contestato agli ebrei e allo Stato d’Israele, dividendo spesso l’opinione pubblica. “Questo diritto alla difesa è diventato un cardine dell’ideologia israeliana, ed è il tema che sta oggi accanto alla storia del 7 ottobre. E si noti che a Chișinău i morti furono “solo” 49, il 7 ottobre sono state massacrate circa 1400 persone. Sostenere l’idea che gli ebrei si debbano difendere, è uno dei pilastri del sionismo. Ogni qual volta sentiamo dire “io non sono antisemita bensì antisionista” vuol dire tra l’altro che si contesta il diritto alla difesa, cosa che farebbe qualsiasi persona davanti ad una minaccia di morte. Il tema che gira attorno alla giornata di oggi è questo; mentre il 27 gennaio lo ricordiamo con il mondo e le autorità, questa giornata è una ricorrenza tutta nostra, che ci deve far pensare all’attualità di questo messaggio” ha concluso Di Segni.

    da shalom.it
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    L’Haggadà di Sarajevo, storia e fascino di un manoscritto immortale
    Claudia De Benedetti
    | 21-04-2024


    A poche ore dall’inizio di Pesach in ogni casa ebraica le haggadoth sono pronte per essere utilizzate: ne esistono tantissime versioni più o meno preziose e conosciute. L’Haggadà di Sarajevo ha una storia e delle caratteristiche che meritano di essere narrate: si distingue per la bellezza delle sue immagini, per l’utilizzo di colori impreziositi da oro e rame, per il fantastico mondo degli animali presentati, per gli ornamenti floreali e geometrici; la sua storia è talmente insolita e avventurosa da sembrare frutto dell’immaginazione, una storia di tempi duri, di salvezza, debolezza e forza umana.



    L’Haggadà di Sarajevo è stata realizzata a Barcellona intorno al 1350, probabilmente per una ricca famiglia ebraica; dopo la cacciata degli ebrei del 1492, molti manoscritti ebraici vennero distrutti, ma l’Haggadà di Sarajevo sopravvisse; riapparse nel 1609, a Venezia, dove il prete Domenico Vistorini, che l’aveva ispezionata, si accertò che non contenesse nulla contro la Chiesa, annotando sull’ultima pagina del libro: “Revisto per mi”. Nel 1894 l’opera ricomparve a Sarajevo dopo essere stata venduta dalla famiglia di Josef Kohen al Museo Nazionale della Bosnia ed Erzegovina. Ma la straordinaria storia dell’Haggadà di Sarajevo non finì con la collocazione del manoscritto nei tesori sotterranei del Museo. Del prezioso libro era ben informato un gerarca nazista che nel 1942 si presentò al Museo chiedendo la consegna del manoscritto. “Purtroppo è già passato un altro ufficiale tedesco che ha portato via il libro. Non ho osato chiedere il suo nome” mentì il direttore della biblioteca del Museo Korkut. Korkut era un erudito, parlava dieci lingue, apparteneva a una nota famiglia di intellettuali, ma era soprattutto un uomo coraggioso: portò l’Haggadà fuori dal Museo e la nascose in un villaggio ai piedi del monte Bjelašnica, dove rimase per tutta la Seconda Guerra Mondiale. Korbut nascose a casa propria anche una ragazza e riuscì a salvarla. Il destino fu generoso con il manoscritto, ma non lo fu altrettanto con lui che dopo la guerra fu imprigionato e anni dopo riconosciuto Giusto tra le nazioni dallo Yad Vashem.



    Mezzo secolo dopo, durante le terribili guerre in ex Jugoslavia che hanno duramente colpito la Bosnia-Erzegivina, tra il 1992 e il 1995, il Museo di Sarajevo venne bombardato, ma l’Haggadà fu ancora una volta salvata, nascosta nel caveau di una banca dal direttore del Museo. Nel 2017, l’Haggadà è stata inserita nel patrimonio “Memorie del mondo” dell’UNESCO, e nuovamente esposta nel Museo Nazionale della Bosnia ed Erzegovina, recentemente restaurato, dove è conservata all’interno di un’alta teca in vetro. Per Pesach del 2006 ne sono state stampate 613 copie anastatiche, mentre nel 2018 è uscita una nuova riproduzione anastatica correlata dallo studio dell’illustre storico dell’arte israeliano Shalom Sabar. Sabar propone lo studio completo e dettagliato della storia del manoscritto e un esame rigoroso delle illustrazioni e del testo. La straordinaria colorazione dell’Haggadà emerge in tutto il suo ricco splendore e le decorazioni sono di grande impatto emotivo: un irrinunciabile invito a scoprire e riscoprire la bellezza del racconto dell’uscita dall’Egitto.

    da shalom.it
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    06.05.2024 Contro i cattivi maestri
    Analisi di Daniela Santus

    Testata: Il Foglio
    Data: 06 maggio 2024
    Pagina: 5
    Autore: Daniela Santus
    Titolo: «Contro i cattivi maestri»

    Riprendiamo dal FOGLIO di oggi, 06/05/2024, a pag. 5, l'analisi di Daniela Santus dal titolo: "Contro i cattivi maestri".


    Un' indagine mostra come gli insegnanti in Italia fomentino l'odio per Israele, le similitudini, con gli insegnanti durante il fascismo, sono agghiaccianti
    L’organizzazione degli studenti universitari palestinesi in Italia ha indetto, anche nel nostro paese, l’intifada delle università chiedendo che, a partire dal 15 maggio, gli studenti e le studentesse si accampino nei cortili universitari a imitazione di quanto avviene nei campus americani. Intifada è un termine che deriva dall’arabo e significa “scrollarsi di dosso”, da sempre riferito ai palestinesi intenti a scrollarsi di dosso gli israeliani, poi generalizzato con l’invito a rendere globale la rivolta e ora proposto nella versione universitaria. Cosa significa intifada universitaria? Che cosa intendono scrollarsi di dosso questi studenti? Nelle nostre università studenti e, in alcuni casi, docenti manifestano al fianco della “resistenza palestinese”, forse in un osceno fraintendimento dei termini. Un po’ come se, successivamente all’8 settembre 1943, ci fosse stato chi – nel mondo – avesse manifestato per Mussolini e le squadracce fasciste scambiandole per la resistenza partigiana in Italia. Di fatto questo è Hamas: il regime. Vorrei sviluppare queste riflessioni concentrandomi su tre punti: 1) non è necessario essere fascisti per essere antisemiti; 2) quali sono le conseguenze, per il futuro, derivanti dall’ignoranza instillata dai cattivi maestri; 3) potremmo guardare più da vicino l’esempio di chi sta combattendo l’antisemitismo con risultati migliori dei nostri. 1) Quante volte notiamo persone che si fanno scudo dell’antifascismo per dimostrare che, al di là di tutte le evidenze, non sono antisemite? Questa è una prerogativa dei cattivi maestri: mai insinuare che gli ebrei gli stiano proprio antipatici, si offendono mortalmente. Loro criticano i governi d’Israele, non gli ebrei. Eppure basterebbe conoscere un poco la letteratura italiana, se non la storia, per scoprire che persino durante l’epoca fascista – quando non esistevano governi israeliani da criticare in quanto Israele, come stato, ancora non era nato – già esistevano intellettuali antisemiti e contestualmente antifascisti. Voglio farsi un esempio. A fine Ottocento, proprio negli stessi anni in cui si stava realizzando la Prima Aliyah, crebbe anche il fenomeno del pellegrinaggio cristiano, soprattutto per via della maggiore facilità di viaggio rispetto ai secoli precedenti. Tra questi pellegrini/viaggiatori spicca Matilde Serao, autrice e giornalista italiana. Anzi, il primo “direttore donna”, come si diceva a quei tempi, di un quotidiano in Italia, ruolo sino ad allora dominato dagli uomini. A margine del suo viaggio in Terra Santa, Serao compose un volumetto dal titolo “Nel Paese di Gesù. Ricordi di un viaggio in Palestina” che, in breve, divenne un best seller. Non dimentichiamo che Serao viene studiata nelle nostre aule scolastiche anche per il suo coraggio antifascista che le fece perdere il Nobel, assegnato nel 1926 alla Deledda. Eppure l’antifascista Serao disprezzava profondamente gli ebrei e ben poco conosceva della terra che si apprestava a visitare. “Niuno qui, a bordo dell’Apollo – augurioso nome – parla di Palestina, che è vocabolo geografico non tanto comune: ma la sonante parola Soria ritorna sempre, tra i dialoghi dei viaggiatori. Soria!” E’ chiaro che l’autrice, nel suo eccitamento, non aveva compreso il termine geografico, tanto da scriverlo proprio così: “Soria”, che non ha alcun significato. Come si può immaginare, la parola pronunciata dai compagni di viaggio dell’autrice altro non era che Siria. Ciò conferma il fatto che non solo la “Palestina” non era un’entità territoriale autonoma, neanche sotto l’Impero Ottomano, ma che il suo nome era sconosciuto alla maggior parte delle persone. Infatti, la Siria ottomana includeva l’area a est del Mediterraneo, a ovest dell’Eufrate, a nord del deserto arabico e a sud delle montagne del Tauro. Il dettaglio geografico non deve distoglierci però dalla descrizione del primo incontro della Serao con gli ebrei, che avviene sul treno da Jaffa a Gerusalemme: “Pallidi, con i capelli riccioluti sulle orecchie, dai berretti di lana, dai berretti di pelliccia spelata, sudici, emananti cattivi odori” scrive la signora del giornalismo italiano. Serao non soltanto era influenzata dai pregiudizi antisemiti del suo tempo, ma li aveva fatti propri, sia in questo testo che, ancora di più, nel romanzo che scrisse di lì a poco, “La mano tagliata”. E’ tuttavia interessante notare il fatto che, nel 1905, la traduzione inglese del diario di viaggio nel paese di Gesù, non presentava le parti più specificamente antisemite.

    In altre parole, il traduttore Richard Davey – non sappiamo se con l’accordo o meno dell’Editore William Heinemann – non se la sentì di contribuire, con il suo lavoro di traduzione, a spargere il veleno e semplicemente stralciò quelle parti.



    Certo è che la presenza ebraica infastidiva, e non poco, la Serao. Quando, ad esempio, comprende che la maggioranza degli abitanti di Gerusalemme erano ebrei, sbotta: “Ma fra le sessantamila persone che abitano tra le sacre muraglie, vi è forse un popolo di Gerusalemme?… Non gli ebrei, che ora costituiscono metà, più della metà, degli abitanti di Gerusalemme… Gli ebrei hanno iniziato a tornare a Gerusalemme. Stanno tornando da tutti i paesi lontani d’Europa, pallidi, stanchi, quasi sempre malaticci, con l’aria timida dei cani frustati, sogguardando obliquamente ogni persona, temendo in ognuno un nemico, un persecutore, silenziosi, pensierosi, incapaci di argomentare, con la necessità di nascondersi, sempre in piccole case, oscure e silenziose, in meschine botteghe, dove quasi non appare mercanzia [...] hanno l’aria di intrusi che quasi rubano l’aria e il sole dalla santa Sionne; camminano lungo le mura; si distinguono soprattutto per un’apparenza costante di debolezza, di infirmità, persino nei giovani, persino nei bambini... Non sanno lavorare la terra. La loro tradizione di pastori e agricoltori è stata dispersa, così come la loro razza: venti secoli di commercio, industria e negozi scorrono nelle loro vene. Le loro donne, raramente belle, quasi sempre pallide, con certi occhi pallidi dallo sguardo incerto, non vanno velate, ma indossano un certo curioso antico cappello… vanno anche loro insieme, silenziose, guardando appena intorno, camminando velocemente per raggiungere le loro case, che sono le più brutte di Gerusalemme.”

    Matilde Serao, che qualche anno dopo ebbe il coraggio di dire a Mussolini che era antifascista, portava nel suo cuore l’odio più antico, quello verso gli ebrei. E come lei quanti altri! Non soltanto a fine Ottocento, ma nel corso dei decenni. Che sia stata l’influenza del pregiudizio cristiano prima, di quello nazifascista dopo, di quello bolscevico e comunista più tardi o di quello islamista oggi, il virus dell’antisemitismo in Italia pare più difficile da debellare di quello del Covid-19. Però è chiaro che l’antifascismo non ci assolve.

    2) Chi sono i cattivi maestri? Matilde Serao, forse senza nemmeno rendersene conto, lo è stata per i suoi lettori. Eppure lei stessa venne influenzata da altri, che le furono maestri e da cui assorbì il pregiudizio. Nessuno nasce cattivo maestro, ma è certo che solo un impulso insopprimibilmente forte, come il desiderio di ricerca della conoscenza, ti può far ribellare a chi ti è preposto, ti insegna, ti valuta e, magari, decide della tua carriera o ti spiega che, se farai/penserai diversamente non avrai la salvezza eterna. Vedo tanti cattivi maestri in cattedra, ma questo è un discorso ancora diverso. Alcuni sono semplicemente pessimi insegnanti. Chi è in cattedra oggi, era studente ieri. Basta inviare una MAD alle scuole (messa a disposizione) per essere convocati per una supplenza. Tutto sommato, non è neppure necessario il concorso. Talvolta le scuole, in assenza di personale, affidano supplenze anche a studenti non ancora laureati. Non che la laurea, oggi, sia per tutti sinonimo di preparazione. Non ci si deve pertanto stupire se troviamo docenti, come quello recentemente balzato agli onori della cronaca a Genova per aver assegnato un tema sulle “stragi che l’esercito israeliano compie da settant’anni”, ignari persino della data cui stanno facendo riferimento. Più pericoloso e subdolo è invece quando certi stereotipi vengono riportati nei libri di testo e gli insegnanti semplicemente ripetono quanto letto, ma questo non significa essere cattivi maestri. Ci sono diversi tipi di cattivi maestri. Alla scala più infima di questo inquietante girone dantesco troviamo quelli che sono talmente pigri da non aver voglia di interrogarsi e fare ricerca neppure dopo la laurea, ma il fatto di portare la kefiah al collo li fa sentire giovani e amici dei loro studenti. Sono antisemiti? Assolutamente no, sapere a cosa fa riferimento l’antisemitismo sarebbe per loro un impegno fin troppo gravoso. Poi troviamo, appena un gradino sopra, quelli che sono stati i burattini dei cattivi maestri. Questo livello è già più problematico. Alcuni sono stati gli allievi prediletti e hanno fatto carriera, ora magari siedono a una cattedra universitaria. Tra di loro si trovano quelli che spesso non permettono agli studenti di registrare le proprie lezioni, molto più di frequente quelli che organizzano eventi sulla Palestina anche se insegnano Storia delle migrazioni delle farfalle sud-coreane. Alcuni di questi, col tempo, si trasformano: da burattini diventano burattinai e i burattinai, soprattutto nelle università, sono pericolosi. Infine i grandi vecchi, i Cattivi Maestri ad honorem. Alcuni sono scomparsi, ma i loro scritti restano. Altri – i più giovani, i neo cattivi maestri – issano metaforiche barricate: incendiano i cuori degli studenti con termini quali occupazione, genocidio, apartheid, imperialismo, privazione dell’acqua. Inutile sperare in una contestualizzazione dei temi: non si tratta di argomenti, che sarebbero facilmente contestabili, ma di slogan. Né più né meno di quanto accadeva nella Germania nazista o, ancor prima, nell’Italia degli untori. E questa è una strategia: ben sanno i cattivi maestri che è più semplice impartire una verità da assimilare senza fatica, senza il peso di dover aprire e leggere documenti e libri, che non trovare argomentazioni che potrebbero essere confutate. Gli slogan, in questo mondo di persone che non leggono neanche un articolo per intero, sono ottimi per creare coesione senza fatica: lo abbiamo visto nei campus americani, come la Columbia University. In Italia non è raro trovare anche gli aspiranti cattivi maestri: li si riconosce facilmente perché siedono nei salotti tv e pontificano probabilmente sperando in una candidatura alle elezioni. Per carità, nessuno ritiene di essere antisemita, sono tutti solo antisionisti, anche se capita che chiudano un occhio e talvolta due quando si verificano incidenti che coinvolgono studenti o docenti ebrei o israeliani. Mi chiedo come possano ritenere di poter arginare il fenomeno, quando i loro insegnamenti stanno portando il mondo alla deriva.

    Un mondo che viene diviso in buoni e cattivi, dove i buoni sono i popoli che crediamo oppressi e i cattivi i popoli che crediamo oppressori. Davvero Hamas, Hezbollah, il Jihad Islamico, gli ayatollah, i talebani e forse anche Isis sono i legittimi rappresentanti dei popoli oppressi? Non è che siano piuttosto loro stessi gli oppressori? Cosa direbbero a tal proposito le donne iraniane, pachistane, afghane, sudanesi? Quando i nostri studenti inneggiano ai missili iraniani su Israele, cosa direbbero ai genitori, agli amici, di Nika Shakarami, la ragazzina iraniana di sedici anni che, per aver partecipato a una protesta contro l’imposizione del velo, è stata uccisa da tre membri della sicurezza carceraria dopo essere stata violentata? I giovani studenti di liceo e i giovani universitari, che ascoltano narrazioni sull’occidente degenere e guerrafondaio, pendono dalle labbra dei loro docenti perché è innato nei giovani il senso di giustizia, non dovremmo offrire loro la possibilità di crearsi una conoscenza a tutto tondo? Se non altro per evitare che molti finiscano col cadere nella rete, nel vero senso della parola: basti pensare, come suggerisce il sociologo Renzo Guolo, che il jihad mediatico attira un pubblico sempre più vasto, sempre più giovane, sempre più occidentale. Non per nulla tra le manifestazioni degli studenti alla Sapienza, come nei campus americani, si sono viste persone che nulla avevano a che fare con gli studi, ma che appartenevano a organizzazioni jihadiste. Erano lì, sono lì per reclutare. Se sino a pochi anni fa le banlieue, le periferie degradate, erano i luoghi privilegiati per reclutare i più diseredati, ora i jihadisti hanno fatto un enorme balzo in avanti. Conquistando i professori, stanno conquistando l’élite di domani; conquistando i campus americani stanno conquistando figlie e figli di papà che sborsano per loro quasi 60 mila dollari all’anno per la retta universitaria, escluso l’alloggio. Pensare che Hamas e gli altri gruppi islamisti, ovvero di coloro i quali usano l’islam per scopi politici, saranno sazi non appena eliminato Israele è una pia illusione. Se così fosse per quale motivo Saddam Hussein e Khomeini si sono fatti la guerra? Per quali motivi sono scoppiate le guerre in Bosnia, in Somalia, in Sudan, in Rwanda? C’erano forse ebrei interessati a quelle terre? Ma non chiediamolo ai cattivi maestri perché alzerebbero le spalle o ribatterebbero: “E voi, quanti ne avete uccisi in Palestina?”. Voi, chi? Ecco che si fa evidente l’antisemitismo dei cattivi maestri che, forse, non sono solo antisionisti. E tornano le vecchie medievali accuse del sangue.

    Intanto i professori e gli studenti ebrei nei campus americani non possono raggiungere le aule, gli studenti ebrei e israeliani in Italia cominciano a provare paura. Io l’ho provata, la prima volta nel 2005. Proprio l’anno in cui ci fu il completo sgombero degli insediamenti ebraici dalla Striscia di Gaza subii un’aggressione in aula da parte dei collettivi studenteschi per aver invitato a lezione il dott. Elazar Cohen, israeliano. A molti parve che fosse colpa mia se gruppi di studenti erano entrati nella mia aula con fumogeni, striscioni e mazze per impedire a un ebreo israeliano di parlare. D’altra parte era vero: ero stata io a invitare il dott. Cohen. Gli stessi “studenti” continuarono a presentarsi in aula per controllarmi nel caso le mie lezioni fossero pericolose arringhe sioniste. Una volta non resistettero sino alla fine: stavo trattando delle similitudini del Padre Nostro con le preghiere ebraiche e della moltitudine di maestri Rabbini in grado di operare miracoli. Di fatto, però, sono sempre entrata in aula con la paura. Per cui capisco questi studenti, in particolar modo gli israeliani, che temono persino di rivolgersi alle autorità accademiche, anche se mi sento vivamente di suggerirglielo: la situazione è oltremodo degenerata, ma sono certa che possano contare sulla maggioranza dei docenti, magari silente, ma comunque contraria al riemergere di questa follia. Purtroppo la strada per cambiare le cose non potrà essere breve: occorre creare un ambiente educativo sano, non violento, realmente democratico e consapevole del fatto che il jihadismo oggi non è diverso dal nazismo di ieri. Forse addirittura peggiore. Occorreranno anni, se non decenni. Gli insegnanti, dalla primaria sino all’università, dovrebbero – tutti – tornare a essere guide in grado di condurre i discenti alla ricerca, scendendo dalle barricate. Perché l’unica barriera da abbattere è quella dell’ignoranza. Per farlo, i nostri ministri (Istruzione e Università) potrebbero cominciare con l’inserire insegnamenti su Israele, sulla storia d’Israele, sulla letteratura israeliana e sull’antisemitismo, nei corsi di Scienze della formazione primaria e tra i cfu obbligatori per poter accedere all’abilitazione all’insegnamento. Con una particolare attenzione, legata ovviamente alla scelta degli insegnanti. Giusto per non ripetere gli errori delle ormai inutili Giornate della memoria durante le quali a finire sul banco degli imputati sono sempre più spesso gli ebrei al posto dei nazifascisti. E forse dovremmo dare uno sguardo a chi ha ormai un’esperienza pluridecennale nel contrasto all’antisemitismo.



    3) Prendiamo ad esempio la Germania, nostra alleata nella Seconda guerra mondiale eppure nei decenni successivi così diversa. Ne ho già trattato in un precedente articolo, sempre sul Foglio, parlando dei tifosi di calcio tedeschi. Attualmente la Germania è considerata il “secondo migliore amico” di Israele dopo gli Stati Uniti. Va tuttavia tenuto presente che il sostegno militare americano a Israele non è cominciato nel 1948, ma soltanto dopo la Guerra dei sei giorni (1967). Eppure nei primi anni della sua esistenza, Israele dovette affrontare non soltanto la guerra d’indipendenza, neppure soltanto la crisi di Suez: occorreva trovare una sistemazione ai profughi ebrei fuggiti dall’Europa e dai paesi arabi, era necessario costruire un sistema economico in grado di reggere al peso di uno stato appena nato, dovevano essere edificate le industrie, le case, le strade, le scuole. Si trattava di compiti enormi e la Repubblica federale tedesca, fondata nel 1949 come stato nato dalle ceneri del regime nazista, fornì un aiuto indispensabile. Tra il 1953 e il 1965, quando Germania e Israele stabilirono formalmente relazioni diplomatiche, la Germania occidentale fu l’unico paese a fornire a Israele: 1) aiuto economico tramite l’Accordo sulle riparazioni di guerra, 2) aiuto militare segreto per gli sforzi bellici e 3) una generosa sovvenzione finanziaria concordata nel 1960.

    Come ci racconta Jelinek, il principale negoziatore israeliano dell’epoca – Nahum Goldmann – definì l’accordo “una vera e propria salvezza” per Israele. Gli aiuti emessi includevano acciaio, attrezzature per impianti industriali e fabbriche, navi, macchinari e molto altro. Presto sarebbero seguiti ulteriori aiuti per la ricostruzione economica.

    Nel dicembre 1957, Shimon Peres, allora vice ministro della Difesa, fece visita al ministro della Difesa della Germania occidentale, Franz Josef Strauss. Di questo incontro Peres scrisse: “Nel giro di pochi mesi dal nostro primo incontro, attrezzature di grande valore iniziarono ad arrivare all’esercito israeliano. Consisteva in eccedenze dell’esercito tedesco e attrezzature prodotte in Germania… Abbiamo ottenuto munizioni, dispositivi di addestramento, elicotteri, pezzi di ricambio e molti altri articoli. La qualità era eccellente e le quantità considerevoli”.

    Era ovvio il motivo per cui i tedeschi operavano in questo modo: avevano bisogno di riabilitazione, visto che la dittatura nazista era finita solo da pochi anni. E la popolazione tedesca fu fortemente coinvolta in questo processo. Perché in Italia, paese alleato alla Germania in quella sciagurata guerra, non accadde lo stesso? Perché abbiamo continuato a cullarci nell’idea di essere “italiani brava gente” e, di fatto, con la nostra inerzia, abbiamo permesso che ignoranza e antisemitismo finissero col tornare alla ribalta? Già, mentre la Germania muoveva i passi verso la propria “redenzione”, l’Italia siglava accordi con i palestinesi. Leggasi Lodo Moro.

    C’è qualcosa su cui desidero attirare la vostra attenzione, per comprendere appieno, e si chiama: Deutsche-Israelische Schulbuchkommission, ovvero Commissione israelo-tedesca per i libri di testo. La prima commissione, in Germania, ebbe luogo nel 1981 presso l’Istituto Georg Eckert di Braunschweig: un centro specializzato nella ricerca sui testi scolastici e i media educativi. Il suo corrispettivo in Israele ha visto la luce nel 1984, per iniziativa dell’Università di Haifa. Compito delle commissioni era ed è quello di presentare raccomandazioni – in tedesco e in ebraico – per migliorare la rappresentazione della storia ebraica e d’Israele nei libri di testo tedeschi, nonché delle rappresentazioni della Germania nei libri scolastici israeliani. Dal 2009 all’Università di Haifa è subentrato l’istituto Mofet di Tel Aviv e i gruppi di lavoro sono stati guidati da ispettori del ministero dell’Istruzione di Gerusalemme. Le ultime raccomandazioni congiunte tedesco-israeliane sui libri di testo sono state pubblicate nel 2017 a Gottingen, ma i gruppi di lavoro continuano a essere in contatto e a lavorare insieme, coinvolgendo accademici, scienziati, insegnanti di ogni ordine e grado e rappresentanti delle autorità educative.

    Questo non significa che i problemi in Germania siano scomparsi, a maggior ragione con l’importante immigrazione islamica nel paese, ma il monitoraggio è costante e l’attenzione è trasversalmente presente. La storia degli ebrei in Germania viene insegnata sin dalla scuola primaria e, nel ginnasio, compare anche la storia dello Stato d’Israele. Allo stesso modo viene insegnato, soprattutto nelle ore di Educazione civica, come riconoscere l’antisemitismo in tutte le sue forme e come riconoscere la continuità esistente dall’epoca nazista sino alle manifestazioni dell’antisemitismo islamista di oggi. In particolare le “Raccomandazioni per gli insegnanti”, che ogni Land prepara per le scuole, sottolineano come non sia proficuo concentrarsi sul tema soltanto in occasione di momenti particolari, come il Giorno della memoria o il Giorno d’Israele (quando si festeggia la ricorrenza della nascita dello Stato ebraico). Israele, l’ebraismo e la lotta all’antisemitismo devono rientrare nella quotidianità. Non stupisce, pertanto, che nelle scuole tedesche si sia recentemente trattato il tema dello sviluppo dell’antisemitismo tra i negazionisti della pandemia da Coronavirus o nei testi del genere musicale Gangsta-Rap. Come molto significativi sono anche i momenti del progetto “incontra un ebreo”, dove non soltanto i sopravvissuti alla Shoah incontrano le scolaresche, ma anche giovani che trascorrono nelle classi qualche ora in maniera del tutto conviviale a parlare del più e del meno, raccontando ad esempio delle similitudini tra il cibo kosher e quello halal. Ma facciamo un passo indietro.

    Con la caduta del Muro di Berlino, lo scioglimento della Repubblica democratica tedesca, filo-araba e filo-palestinese, e la sua annessione alla Repubblica federale, la Germania riconquista di fatto una posizione importante in un’Europa non più divisa. Parallelamente a ciò, agli inizi degli anni Novanta, vede la luce il cosiddetto processo di pace tra israeliani e palestinesi e la Germania investe non soltanto in speranza, ma anche in denaro per supportare gli accordi di Oslo. D’altra parte, come ben sappiamo, il processo si interrompe nel 2000, quando i negoziati tra Ehud Barak e Yasser Arafat si concludono con un niente di fatto a Camp David.

    Il fatto che la sicurezza di Israele sia la pietra angolare della ragion di stato della Germania – come affermato dalla cancelliera Merkel nel 2008 e ribadito da Scholz a fine 2023 – ebbe inizio in quel momento, durante la Seconda Intifada, cominciata dopo il fallimento degli Accordi di Oslo. Rudolf Dressler, all’epoca ambasciatore tedesco in Israele, scrisse che, dal punto di vista tedesco, una soluzione al conflitto poteva essere raggiunta solo se si fosse garantita la sicurezza di Israele contro il terrorismo: la sicurezza di Israele, aveva detto Dressler, doveva diventare centrale nella “ragion di stato” della Germania. E così è stato.

    Il contrasto all’antisemitismo è lasciato soltanto alla scuola? No. “Se non condividi i nostri valori, non puoi ottenere un passaporto tedesco” ha recentemente affermato la ministra degli Interni Nancy Faeser (Spd), la quale ha aggiunto: “Dal crimine tedesco contro l’umanità, dalla Shoah, deriva la nostra particolare responsabilità per la protezione degli ebrei e per la protezione dello Stato di Israele. Questa responsabilità fa parte della nostra identità oggi. Chi vuole diventare tedesco deve sapere cosa significa e riconoscere la responsabilità della Germania”. Questo impegno deve essere “chiaro e credibile”. E così il test per ottenere la cittadinanza tedesca conterrà dei quesiti vincolanti, proprio su Israele e sulla vita ebraica. Ad esempio come si chiama la casa di preghiera ebraica, quando è stato fondato lo Stato di Israele, perché la Germania ha una particolare responsabilità nei confronti di Israele, da quando esistono le comunità ebraiche in Germania, come viene punita la negazione dell’Olocausto o la negazione all’esistenza d’Israele e chi può diventare membro dei circa 40 club sportivi ebraici del Maccabi. Non dimentichiamo che, dal 7 ottobre, reclamare una Palestina “dal fiume al mare”, precludendo così la possibilità a Israele di esistere, può costare – in Germania – fino a 3 anni di prigione. E qui le leggi vengono fatte rispettare: siamo in Germania! Magari qualcosa dovremmo imparare dai nostri amici tedeschi, anche se i cattivi maestri – e da questo li riconosceremo – direbbero che la Germania è complice del genocidio palestinese e che i suoi approcci post 1949 al problema non sono altro che la dimostrazione del fatto che i tedeschi continuano a essere nazisti, identificando nelle linee guida per gli insegnanti, nei suggerimenti per i libri di testo, nelle specifiche domande per l’ottenimento della cittadinanza e nella severità nei confronti di slogan “innocenti” la riprova delle loro affermazioni. In due parole il gioco è svelato: la protezione della vita ebraica e dell’esistenza dello Stato d’Israele viene astutamente manipolata in modo tale da suggerire il rovesciamento del problema. Gli ebrei e chi li sostiene si trasformano in nazisti, mentre gli emuli e sostenitori degli ex alleati dei nazisti (Amin al-Husayini e le sue SS islamiche) diventano i partigiani di oggi. Se volessimo davvero debellare questo virus, dovremmo ricominciare dalla formazione degli insegnanti. Altra strada non c’è.
  9. .
    Shemòt. Riskin: Inadeguato quindi adatto
    REDAZIONE 08/08/2003
    Rav Shlomo Riskin – Efrat, Israele – 5763 (2002-2003) – Tradotto da Dany e Giulio Barki


    Qual è un’autentica guida ebraica? Quando dobbiamo definire la caratteristica più importante di una guida di una comunità ebraica, di una scuola, di un tempio, o di un’organizzazione, qual’è il criterio necessario? Con un tipico stile ebraico, vorrei cominciare a dare la mia risposta ponendo un’altra domanda. Perché Mosè impiega così tanto tempo e così tante energie nel rifiutare la chiamata (vocazione) che D-o gli rivolge affinché diventi la guida del popolo ebraico? Dopo tutto, ha avuto l’impegno ed il coraggio di lasciare il palazzo del Faraone, dove era stato adottato come principe egiziano, e di uccidere lo schiavista egiziano che stava picchiando l’ebreo!

    E nella storia ebraica successiva fu l’umile e calmo Saggio Hillel a dire: “se sono qui io, sono qui tutti” – non perché fosse arrogante, ma perché era consapevole del proprio valore. Quando D-o chiede ad un provato e collaudato amante del suo popolo (Mosè) di “scendere in piazza”, perché questo deve tentennare?

    Sì, Mosè si sarà sentito inadeguato a causa della sua balbuzie, ma l’Onnipotente gli aveva risposto: “Chi dispone una bocca per un essere umano e Chi lo rende muto…? Non sono Io, il Signore? Ora vai avanti e la Mia presenza sarà con la tua bocca e dirigerà quello che dirai…” (Esodo 4:11,12). Perché, allora, Mosè risponde a questa garanzia Divina con il chiaro rifiuto: “Per piacere, mio Signore, scegli come tuo messaggero chiunque altro” – ma non me! (Esodo 4:13).

    Mosè sta evidentemente rifiutando – almeno in questo punto – la shlichut, “la professione” di servire come mandatario di D-o, la vocazione di essere messaggero di D-o. E se c’è un verbo che viene, molto più spesso di altri, ripetuto e enfatizzato in questa prima parashà del libro dell’Esodo, è proprio shlah, mandare, inviare qualcuno come mandatario (Esodo 3:10,12,13,15 – per esempio). Inoltre, Mosè aveva sicuramente sentito da Yoheved, sua madre naturale e balia, della gloriosa tradizione di “mandatari” che avevano trasmesso di generazione in generazione l’insegnamento del monoteismo etico. Quando Isacco offre a suo figlio Giacobbe “la benedizione di Abramo” di ereditare la terra ancestrale di Israele, egli gli dà l’incarico, “e Isacco ha fatto di Giacobbe un suo mandatario” (Vayishlach Yitzchak et Yaakov, Genesi 28:4,5).

    In maniera analoga, quando Giacobbe manda il suo primogenito prescelto Giuseppe, al quale aveva dato la tunica dalle molte bande colorate, a verificare il benessere dei suoi fratelli, lo “invia ” come mandatario e ripete persino il verbo con enfasi, “e lo ha mandato dalla valle (emek) di Hebron” (Genesi 37:13,14). Rashi cita persino il midrash: “ma Hebron è su una montagna (non in una valle)?! Il significato del testo è che egli, lo ha inviato (con il mandato) di compiere il disegno profondo (amukah, emek) (di Abramo), il patriarca giusto che era sepolto a Hebron, in modo che si realizzasse la promessa di D-o ad Abramo “fra le parti” (Rashi, Genesi as loc). Allora, perché Mosè “dà a D-o così tanti grattacapi” così come ha fatto – anche se ovviamente accetta la richiesta di D-o dopo averne visto i segni speciali?

    Rav Mordechai Elon, decano della Yeshivat Hakotel, fa una distinzione importante fra shlichut (mandato) ed arevut (garanzia); dopo tutto, come abbiamo visto nella parashà della settimana scorsa, era stato Yehudà – e non Giuseppe – a ricevere l’elezione -la vocazione -a primo-genito, e ciò è avvenuto molto probabilmente proprio perché egli era disposto ad essere un arev (garante). La missione di Abramo è quella di unire il mondo nel servizio di D-o facendo carità e giustizia (Genesi 12:3,) “si benediranno in te tutte le famiglie della terra” e, Genesi 18:19, “per il fatto che Io lo prediligo… affinché osservino le vie del Signore facendo carità e giustizia…”. Quando Giacobbe ha mandato Giuseppe a verificare il benessere dei suoi fratelli, il patriarca stava facendo del suo amato figlio il mandatario per l’unione familiare; tragicamente, come conseguenza dei racconti dei suoi sogni, si è trasformato in colui che ha diviso la famiglia – e quindi stato è privato dell’onore di essere il primo-genito.

    Il successivo momento drammatico per l’unificazione di Israele è arrivato quando il Viceré ha chiesto di vedere Beniamino, il secondo figlio di Rachel. Il vecchio Giacobbe, ancora annaspante per la sua perdita di Giuseppe, è riluttante a separarsi da Beniamino nonostante questo significhi non ricevere grano egiziano in un periodo di difficile carestia. Reuven fa un’offerta che il padre Giacobbe non può accettare: “puoi uccidere i miei due figli se non ti restituirò Beniamino” (Genesi 42:37).

    Yehudà approfitta dell’occasione, introducendo un nuovo concetto con cui guadagna l’approvazione di Giacobbe: “io, tuo servo, farò da garante (co-firmatario, arev) per il ragazzo ‘vis a vis’ a mio padre” (Genesi 44:32). Ed infine il fatto che Yehudà si sia offerto volontariamente come garante non ha soltanto permesso agli undici fratelli rimasti di andare insieme in Egitto, e quindi di procurare alimenti per la famiglia, ma è anche servito come opportunità per il Viceré di rivelarsi e riunire l’intera famiglia (Genesi 44:18 – 34, 45: 1-5).

    Cosa ha fatto di così determinante Yehudà diventando un garante? Benché un messaggero o un mandatario sia considerato come l’individuo stesso (che lo manda) (shluho shel adam K’moto), un messaggero può informare il mandante che egli desidera porre fine al suo mandato; un messaggero, inoltre, non ha la responsabilità di portare a termine il suo incarico se si trova ad affrontare emergenze impreviste (anoos rahmana patrei). Un garante o un co-firmatario, invece, si assume il massimo della responsabilità, qualunque cosa accada. Quindi Yehuda è disposto ad essere un servo al posto di Beniamino; la sua responsabilità non conosce limiti, aldilà di qualsiasi inaspettata crisi si possa presentare (come un Viceré intrigante).

    Mosè ha esitato a diventare un mandatario, o shaliah, perché non era sicuro di poter unificare gli Ebrei, di dire qualcosa agli egiziani. La sua accettazione finale, tuttavia, consistette nell’essere un mandatario – garante come era stato Yehudà; si è assunto la suprema responsabilità per il suo popolo, addirittura fino al punto di non entrare nemmeno nella terra promessa con esso. Ed effettivamente questa è la definizione più appropriata di una guida autentica: una persona che è disposta ad essere garante, ad assumersi le responsabilità per un’intera congregazione, una scuola, o una comunità, qualsiasi cosa succeda!

    Shabbat Shalom

    da morasha.it
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    Beshallàch. Lo spartiacque
    RAV ALBERTO SOMEKH 14/02/2017



    Dal racconto della manna nella Parashat Beshallach si impara una Halakhah: è Mitzwah alzarsi presto al mattino del venerdì per i preparativi di Shabbath, che non vanno lasciati alle ultime ore della giornata, ma devono essere eseguiti subito. Si discute sull’espressione della Torah da cui la Halakhah si impara. Per il Talmud e i Posseqim la si evince dalla seconda parte del versetto Wehayah bayom hashishì wehekhinu et asher yaviu (“e sarà il sesto giorno prepareranno ciò che avranno portato” – Shemot 16,5): come la raccolta e il trasporto della manna avveniva “al mattino presto” (v. 21), così anche la sua preparazione per Shabbath doveva avvenire al mattino presto.

    E’ la procedura del heqqesh (“accostamento”), che consente di applicare a due verbi appunto accostati (“prepareranno ciò che avranno portato”) gli stessi dettagli sebbene la Torah li specifichi per una delle due azioni soltanto. Il Ben Ish Chay di Baghdad ritiene invece che alla base della Halakhah citata vi sia semplicemente il verbo iniziale Wehayah (“e sarà”). I Maestri del Talmud spiegano infatti che ogni passo biblico che cominci con Wehayah contenga un racconto positivo, di simchah. E simchah, tradotta in termini pratici e concreti, significa zerizut, “sollecitudine”. Infatti che è contento di fare qualcosa corre a farla prima possibile.

    Ma c’è anche il risvolto della medaglia. I Chakhamim aggiungono infatti che invece ogni passo biblico che cominci con Wayhì contenga un racconto negativo, di tristezza e punizione. E’ il caso della Meghillat Ester (wayhì bimè Achashverosh), ma anche di brani della Torah come la ribellione nel deserto (wayhì ha’am kemit’onenim – Bemidbar 11). Anche in questo caso c’è una spiegazione ufficiale e una diversa. La spiegazione più comune è che l’espressione Wayhì ricorda un lamento (“ohi”) o l’espressione ebraica nehi dallo stesso significato. Personalmente penso che la ragione vada ricercata nella grammatica. In ebraico biblico wayhì e Wehayah sono rispettivamente il passato e il futuro del verbo essere. Il passato si ricollega a una visione pessimistica della vita e quindi a un’idea di tristezza e negatività, laddove il futuro è connesso con una visione ottimistica, positiva dell’umana esistenza.

    Ciò ci rimanda alla Parashah in maniera più complessiva. Al centro della Parashat Beshallach vi è, come è noto, la Shirat haYam (“Cantica del mare”) intonata dai Figli d’Israel subito dopo aver attraversato il Mar Rosso. La Cantica fa da spartiacque fra le due metà della Parashah e non solo nel senso letterale conseguente al fatto che le acque del mare si sono materialmente divise, ma anche in un senso più profondo. La prima metà della Parashah è introdotta da Wayhì. Essa è rivolta al passato, con il ricordo delle brutture dell’Egitto nei loro ultimi strascichi, fino all’annegamento dei nemici. Dopo la Cantica il racconto riprende adottando un registro tutto differente: si parla del futuro del nostro popolo in un mondo diverso, pacifico, segnato dal “pane del cielo” con cui D. nutriva gli Ebrei. Il verso specifica che essi “mangiarono la manna per quarant’anni finché giunsero in terra abitata” (v. 35), facendoci intravvedere la prospettiva tutta positiva dell’ingresso in Eretz Israel. Non a caso tutta questa seconda parte è introdotta addirittura da un doppio Wehayah, come leggiamo in 16,5 dal quale siamo partiti.

    Le due parti della Parashah corrispondono a due tipi di Ebrei. Vi è l’Ebreo Wayhì e vi è l’Ebreo Wehayah. L’Ebreo Wayhì è tutto rivolto al passato. Egli vive della costante commemorazione delle brutture e delle persecuzioni che hanno costellato la storia del nostro popolo. L’Ebreo Wehayah è invece proiettato al futuro. La sua è una visione positiva e costruttiva delle sorti ebraiche. Dirò che la questione è ancora più complessa. Grammaticalmente esiste in ebraico biblico il fenomeno della waw hahippùkh (“waw conversiva”) che trasforma il futuro in passato e il passato in futuro. Wayhì è propriamente un futuro del verbo essere che la waw ha trasformato in passato. A sua volta anche Wehayah è una forma passata del verbo essere che la waw ha trasformato in futuro. L’Ebreo Wayhì trasforma il futuro in passato. Per lui il futuro del nostro popolo è inconcepibile, o meglio consiste solo nel reiterare invariabilmente il ricordo delle persecuzioni subite. Per lui Ebraismo significa solo memoria, in genere memoria negativa. Egli di fatto cammina con la faccia rivolta all’indietro, nel timore inconscio di vedersi riproporre ciò che i suoi padri hanno subito. L’Ebreo Wehayah è invece colui che ha certo ben presente il passato, ma sa trasformarlo in futuro. Egli ha una prospettiva positiva: per lui l’Ebraismo è una visione attiva e propositiva del mondo. E’ l’ebreo della manna, i cui valori fondanti sono, come abbiamo già visto, l’osservanza dello Shabbath e l’attaccamento a Eretz Israel.

    Resta da fare un’ultima considerazione. La Ghematriyà di Wayhì è 31, corrispondente alle lettere alef-lamed del Nome Divino connesso con l’idea di middat ha-din (“giustizia”), laddove Wehayah è invece l’anagramma del Tetragramma yud-he-waw-he, tradizionalmente associato con l’idea di middat ha-rachamim (“misericordia”). Lo scopo della Torah è la hamtaqat ha-dinim, lo “addolcimento” della Giustizia in modo da trasformarla in Misericordia. Trasformare un passato di punizioni in un avvenire ricco di prospettive. E’ il messaggio davvero prezioso su cui deve indurci a riflettere la struttura stessa della Parashat Beshallach al centro della Torah.

    da morasha.it
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    PEKUDÈ TORÀ
    Pekudè – Il futuro delle donne
    ISHAI RICHETTI


    Nella Parashà di Pekude il versetto dice: “E ogni uomo il cui cuore lo ispirava venne, e chiunque era di spirito generoso portò la sua offerta alla Tenda del Convegno” [Shemot 35:21]. Dopo che Moshe ha convocato le persone e le ha esortate a fare una donazione al Tabernacolo, le persone hanno iniziato a portare il materiale. “E gli uomini vennero sulle donne (al haNashim)” [35:22]. Rashi interpreta questa sintassi unica nel senso che gli uomini sono venuti con le donne.

    Il Da’at Zekenim, invece, fornisce un’interpretazione diversa. I versetti rivelano che gli oggetti donati erano vari tipi di gioielli femminili. Il Da’at Zekenim commenta “e tuttavia le donne hanno partecipato e sono state meticolose nel contribuire al servizio del Cielo”. Il versetto quindi ci insegna che gli uomini hanno esortato le donne a donare l’oro dei loro gioielli al Mishkan, pensando che le donne sarebbero state riluttanti a farlo. In realtà però, le donne hanno donato volentieri. Pertanto, aggiunge il Da’at Zekenim, alle donne è stata data una ricompensa: essere esonerate dal dover lavorare nei giorni di Rosh Chodesh. Questa è un’usanza citata nello Shulchan Aruch, Orach Chaim 417:1. In che momento le donne hanno ricevuto questa festa? Hanno ricevuto questa festa al momento della costruzione del Mishkan, quando si sono distinte per la donazione volontaria dei loro gioielli al Servizio di D-o. Il Da’at Zekeinim spiega inoltre che durante il peccato del vitello d’oro, gli uomini hanno preso con la forza i gioielli delle loro mogli. Le donne si erano rifiutate di contribuire alla costruzione del vitello d’oro. Al contrario, con la costruzione del Mishkan, le donne volevano donare i loro gioielli. Secondo il Midrash, il contrasto è ancora più netto in quanto in relazione al Mishkan c’erano molti uomini riluttanti a donare i loro soldi, mentre le donne erano universalmente entusiaste. Il Da’at Zekenim teorizza che, poiché il Mishkan è stato eretto a Rosh Chodesh Nissan, era specificamente Rosh Chodesh Nissan che era stato originariamente offerto alle donne come giornata festiva da lavoro e quidni l’usanza di astenersi dal lavorare ad ogni Rosh Chodesh era un derivato di questa festa originale.

    Qual è il significato di Rosh Chodesh che era visto come una festa adatta da regalare alle donne?
    Più avanti nella Parashà, il versetto dice: “E fece il Kiyyor di rame e la sua base di rame dagli specchi delle legioni [donne] che si ammassarono all’ingresso della Tenda del Convegno [Shemot 38:8]. C’è un bellissimo Rashi qui che elabora: Le donne d’Israele avevano usato questi specchi per abbellirsi. Moshe inizialmente rifiutò questi specchi per l’uso nel Mishkan, sostenendo che fossero uno strumento dello Yetzer Hara (inclinazione al male). D-o non era d’accordo con Moshe e gli ha ordinato di accettarli. “Questi sono per Me più preziosi di qualsiasi altra cosa”. Rashi spiega il motivo per il quale questi specchi erano così preziosi per D-o. Quando gli ebrei furono ridotti in schiavitù in Egitto, gli uomini persero la speranza. Non volevano vivere con le loro mogli. Non volevano avere figli. Il pensiero di generare figli che sarebbero nati, vissuti e sarebbero morti in schiavitù era estremamente deprimente.

    Come descrive il Midrash, le donne sono uscite nei campi e si sono abbellite davanti ai loro specchi e hanno in questo modo convinto i loro mariti a vivere con loro e ad avere figli. Quegli specchi rappresentavano la continuità del popolo ebraico. Se non fosse stato per quegli specchi e quel trucco e gli sforzi di abbellimento di quelle donne, non ci sarebbe stata una nazione ebraica. Di conseguenza, D-o insistette sul fatto che quei preziosi specchi appartenessero effettivamente al Mishkan.
    Da questi commenti vediamo come quelle donne hanno mostrato una fede profonda nella redenzione.

    Quando tutto sembrava cupo, quando non sembrava esistere futuro, quando sembrava non esserci alcuno scopo nell’avere figli, le donne conservavano una speranza nel futuro, mantenendo vivo il sogno della rinascita. Quando gli uomini si sentivano giù ed erano pronti ad arrendersi, furono le donne a insistere: “Dobbiamo andare avanti”. Quando arrivò il momento di costruire il Mishkan (secondo molti Rishonim questo avvenne dopo il peccato del vitello d’oro), gli uomini non lo volevano in quanto rappresentava una grande discesa dalle altezze spirituali. Se non ci fosse stato il peccato del vitello d’oro, non ci sarebbe stato bisogno di un Mishkan. La Shechinà [Presenza Divina] avrebbe permeato l’intero campo. Saremmo stati ad un livello spirituale così alto che D-o non avrebbe dovuto limitarsi ad un Tabernacolo. Dopo il peccato del vitello d’oro, D-o non poteva più dimorare in tutto l’accampamento, aveva bisogno di un Mishkan. Di conseguenza, per gli uomini, il Mishkan rappresentava una discesa spirituale e per questo erano riluttanti a donare il loro oro e argento. Le donne, tuttavia, hanno nuovamente prevalso col loro entusiasmo dicendo dimostrando lo stesso spirito che avevano in Egitto, credendo ad un futuro migliore e ad una rinascita. Questo spirito, dicono i nostri Saggi, è ricompensato nel modo più appropriato attraverso la festa di Rosh Chodesh perchè rappresenta la rinascita e il rinnovamento.

    Dal coraggio e dalla costanza di quelle donne dobbiamo imparare che anche se nella vita ci troveremo ad affrontare difficoltà, non bisogna disperare ma è necessario credere in un futuro migliore. D-o ci dà le forze per superare queste difficoltà che ci si presentano e per crescere, imparare ma anche per aiutare il prossimo.

    Da morasha.it
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    Ma è veramente “impossibile” tradurre il Talmud?
    REDAZIONE 04/04/2016

    Sandro ServiÈ stato detto recentemente che “tradurre il Talmud è impossibile quanto tradurre la Torà”. Giusto, come si potrebbe anche sostenere che “dipingere un fiore è impossibile”, o “descrivere un amore è impossibile”. Tuttavia queste operazioni vengono compiute: operazioni parziali, imperfette, ma non disutili.
    Chi potrebbe affermare che l’immenso lavoro portato a termine in cinquant’anni da rav Adin Even Israel (Steinsaltz) con la sua traduzione in ebraico moderno, o che l’altrettanto ciclopico lavoro degli editors della ArtScroll, nella loro edizione americana, non abbiano avuto un impatto rivoluzionario sull’ebraismo mondiale aprendo le porte del Talmud a decine o centinaia di migliaia di studiosi, o di semplici studenti?
    Più banalmente, chi di noi – e siamo tutti convinti che la Torà sia intraducibile – potrebbe sostenere che la traduzione della Bibbia in oltre 2500 lingue non abbia cambiato la Storia dell’Umanità?
    Tradurre il Talmud è un’impresa enorme: non so se, e quanto, noi ci riusciremo. È una sfida culturale entusiasmante. Non a caso tutti i redattori il cui lavoro sto coordinando, fra tutte le difficoltà, e anche le frustrazioni, dovute ai tanti ostacoli da superare, tutti, mi dicono che, passata la prima fase di stupore e di timore, vengono presi da una passione, da una gioiosa commozione che permette loro di superare le fatiche e i disagi del loro lavoro, umile e insostituibile.
    Data la complessità del Testo, lo scopo della nostra edizione è quello di facilitarne la comprensione realizzando non una traduzione che parli al lettore nel suo linguaggio, in uno stile che sia a lui familiare (con una di quelle traduzioni che gli esperti definiscono naturalizzanti), ma cercando di avvicinare il lettore al testo e al contesto dell’Opera (traduzione estraniante), dischiudendogli le porte che la rendevano inaccessibile.
    Questo obiettivo viene perseguito non solo con una traduzione, fedele, dell’originale a fronte, ma con un complesso di accorgimenti: un sistema di titolazioni di contenuto e di notazioni logiche; il mantenimento dei “concetti” traslitterati nella lingua originale (ma rigorosamente spiegati); le introduzioni; le note di commento; le rubriche speciali (di Halakhà, di Natura, di Linguistica); i glossari e gli indici.
    Tutto questo lavoro parte con la prima traduzione condotta nel Sistema web: in questa fase l’essenziale è trasportare in italiano il testo, senza fraintendimenti, senza forzature, ma con le aggiunte linguistiche indispensabili per rendere comprensibile un testo estremamente criptico. Ma, subito dopo, inizia il lavoro, spesso misconosciuto, dei redattori. A loro è richiesto di eseguire l’editing del testo, intervenendo, quando necessario, sul lessico, sull’ortografia e la sintassi, sulla formattazione delle varie componenti dell’edizione (che deve essere adeguata alle regole e alle convenzioni adottate dal progetto grafico-editoriale), di compilare indici, schemi, schede integrative.
    L’esistenza di una piattaforma web, in cui tutto il lavoro viene svolto, offre incredibili vantaggi, ma è anch’essa parte dell’impegno. La redazione, di concerto con l’art director, collabora con l’équipe di ricercatori esperti di linguistica e filologia computazionali del CNR nella creazione di questo potente strumento, sottoponendo via via problemi, richieste, nuove esigenze.
    Al risultato finale, che sarà – ci auguriamo – una doppia edizione, su carta e digitale, dei trattati talmudici, si aggiungeranno due “effetti collaterali” nient’affatto trascurabili: il primo è lo sviluppo di un Sistema software, altamente sofisticato, e utilizzabile in futuro per altre traduzioni similari (di altri testi, in altre lingue); il secondo è la formazione di uno staff di traduttori e di redattori specializzati che, al momento del lancio dell’iniziativa, in Italia non esisteva, e che potrà, appunto, formarsi su questa eccezionale opportunità professionale.
    *Progetto Talmud, redattore capo

    Da morasha.it
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    Devarìm 2011
    RAV ALBERTO SERMONETA 06/08/2011
    Con la parashà di Devarim inizia il quinto ed ultimo libro della Torà; esso comprende una serie di discorsi che Mosè rivolge al popolo, prima di lasciarlo definitivamente e prima che esso faccia ingresso finalmente, nella Terra Promessa.
    Mosè come un buon padre si rivolge al popolo, anche con parole molto dure, riguardo il comportamento che dovrà tenere nella terra di Israele ed a volte ammonendolo che, nel caso in cui il popolo dovesse allontanarsi dall’osservanza delle mizvot in modo grave, potrebbero capitare gravi sciagure.
    Tutto ciò, commentano gli esegeti, viene fatto da parte di Mosè con una eleganza ed una finezza che non tutti riuscirebbero ad avere.

    Nella parashà in questione Mosè ricorda al popolo alcune località particolari del viaggio durato quaranta anni.
    I commentatori spigano che il motivo per cui Mosè cita queste località è per ricordare al popolo senza svergognarlo, che in quei luoghi è accaduto qualcosa di grave che il popolo ha commesso.
    E’ questa una parashà molto dura, in cui oltre a ciò che si è detto, vengono raccontate molte malefatte del popolo, durante i quaranta anni di peregrinazione nel deserto, ma soprattutto le lamentele che Mosè rivolge al Signore, in cui manifesta la sua stanchezza per aver sopportato il popolo che molte volte gli si era mostrato ostile, nonostante tutto ciò che egli aveva fatto.
    Questo shabbat, a differenza degli altri sabati dell’anno che prendono il nome dalla parashà, lo prende dalla prima parola della haftarà che leggeremo in essa “chazon” (visione di Isaia) Isaia cap.1 v.1
    Esso è infatti il sabato che precede il digiuno del 9 di Av, in cui si fa lutto per la distruzione del I e del II Tempio di Gerusalemme, ad opera dei Babilonesi nel 587 a.E.V. e dei Romani nel 70 d.E.V.
    Questo sabato non è un giorno di lutto, perché di shabbat è assolutamente, per qualsiasi motivo, proibito fare manifestazioni di lutto, sia private (come nel caso della morte di una persona cara), sia pubbliche (come nel caso in questione del 9 di Av); tant’è che nel caso in cui tale data dovesse cadere di shabbat, il digiuno si posticipa al giorno successivo e quello shabbat è considerato come tutti gli altri sabati dall’anno.
    La differenza sta che nel rito Italiano e alcuni altri riti, le tefillot o per meglio dire, le parti che normalmente sono particolarmente cantate nelle normali tefillot di shabbat, vengono recitate a voce bassa, per indicare al pubblico che sta arrivando il giorno più luttuoso per il nostro popolo.
    Durante la settimana, cioè da questo sabato in avanti, fino al dieci del mese di Av dopo mezzogiorno, (per alcuni dal I del mese) ci si astiene dal raderci, dal tagliarsi i capelli e le unghie e dal mangiare carne (ad esclusione dello shabbat stesso).
    Molti usano pure non lavarsi interamente con acqua calda (è permesso farsi la doccia con acqua fredda) e alcuni usano non lavare la biancheria e fare il bucato fino al giorno successivo il digiuno (molti tutto il giorno, altri fino al mezzogiorno).
    Il giorno di tishà be Av (dalla sera dell’8 agosto alle ore 20,20 fino alla sera successiva alle ore 21, 29) è proibito, oltre che a mangiare e bere, anche lavarsi, ungersi (profumarsi o spalmarsi creme di bellezza), indossare scarpe di cuoio, avere rapporti coniugali e persino salutarsi, in segno di lutto rigoroso.
    Il digiuno deve essere preso con un pasto frugale (se’udat ha mafseket) a base di uova, lenticchie ecc. senza assolutamente mangiare carne e bere vino; nello stesso modo deve essere interrotto la sera successiva, in segno di proseguimento del lutto della giornata.
    E’ uso che dopo la tefillà di shachrit ci si rechi al cimitero a trovare i propri cari.
    Durante la tefillà di ‘arvit di lunedì sera e quella di shachrit di martedì mattina, si prega al buio (per comodità di lettura si può usare una candela) stando seduti su sgabelli bassi o in terra; la tefillà di shachrit, viene recitata senza taled e tefillin e nella ripetizione della ‘amidà viene omessa la “birkat cohanim”- la benedizione sacerdotale.
    Dalle ore 14 in avanti, con la recitazione della tefillà di minchà, si indossa nuovamente il taled ed i tefillin e viene recitata come di solito, con le luci accese e stando seduti normalmente sui banchi o su normali sedie.
    Da quel momento, molti usano tornare a salutarsi e secondo alcuni usi ( alcuni sefarditi), ci si può fare la doccia ci si può radere, si può nuovamente lavare la biancheria e rimettere in ordine la casa (no secondo il rito italiano).
    Dal pranzo del giorno successivo si può riprendere la vita regolare, lavandosi, radendosi e tagliarsi i capelli e soprattutto mangiare cibi di carne.

    Lunedì 15 Agosto è TU BE AV (15 del mese di AV) giorno particolarmente festivo per il popolo ebraico, il quale si augura che da quel momento terminino tutte le disgrazie capitate al popolo di Israele.
    Racconta un midrash che quando i 12 esploratori tornarono dall’aver visitato la terra di Israele, raccontarono al popolo che non sarebbero mai riusciti ad espugnare gli abitanti, perché essi erano dei giganti (portarono come testimonianza di ciò, i frutti della terra che avevano dimensioni enormi); per questo il popolo pianse, lamentando al Signore la volontà di ritornare indietro.
    Quella sera era il 9 del mese di Av ed il Signore li punì dicendo loro che, dato che avevano pianto per una cosa vana, per tutta la durata dei giorni della terra, piangeranno per qualcosa di molto più grave e decretò che quella generazione non sarebbe entrata in Israele.
    Per questo, per quaranta anni consecutivi, gruppi di ebrei che erano usciti dall’Egitto, all’infuori di Giosuè e Calev, scavavano una fossa e vi entravano dentro; l’indomani venivano trovati morti.
    La sera del 15 di Av del quarantesimo anno, il gruppo di turno scavò la propria fossa, vi entrò, ma l’indomani mattina furono trovati vivi; quello era il segno che era stata espiata la colpa del popolo e che più nessuno del popolo sarebbe morto.
    Ecco il motivo per cui i nostri Maestri sostengono che quella data, il 15 di Av, sarà il giorno in cui tutte le disgrazie del popolo di Israele cesseranno definitivamente.
    Sostengono anche i nostri Maestri che chi fa lutto per Gerusalemme, piangendone la distruzione, avrà il merito di gioire per la sua ricostruzione.
    Possa questo accadere presto ai nostri giorni
    Amen

    Da morasha.it
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    L’etimologia di una voce giudeo-romanesca: ngarelli
    La signora S. L., di Roma, scrive di aver trovato in un testo il termine giudeo-romanesco ngarelli e chiede se sia possibile risalire alla sua etimologia.

    Risposta
    La lettrice ha visto la parola in un saggio di storia dell’ebraismo romano, contenuto nel lavoro di Silvia Haia Antonucci e Alessandra Camerano, “Ormai è passata”. L’illusione di una generazione e le trasformazioni dell’identità ebraica romana, in La comunità ebraica di Roma nel secondo dopoguerra. Economia e società (1945-1965), a cura dell’Archivio Storico della Comunità Ebraica di Roma, Roma, CCIAA Roma, 2007, pp. 111-140, a p. 118. Si tratta di una serie di interviste a ebrei romani, nati nella prima metà del Novecento, sulle vicende della guerra, della deportazione e prigionia oppure sulla vita nell’ex-ghetto, ormai liberato da quasi un secolo. Nell’intervista a Liliana Spizzichino si trova il passaggio che ci interessa:

    «Mamma mi ha raccontato che durante la guerra è stata aiutata tantissimo, dal portiere, dai vicini di casa, anche dalle famiglie dove andava a lavorare: ci hanno sempre portato rispetto. C’erano degli amichetti miei, ‘ngarelli’, che parlavano male degli ebrei, dicevano che erano tirchi, inaffidabili, e che loro sapevano riconoscerli da lontano. Per questo non dichiaro facilmente la mia appartenenza all’ebraismo e sono sempre molto imbarazzata in un ambiente che non è il mio».
    In nota è chiarito il significato: “Termine in ebraico-romanesco, l’idioma degli ebrei romani che unisce l’ebraico ed il dialetto romanesco, che indica i non ebrei”. La parola in effetti è tipica del giudeo-romanesco, il dialetto parlato dagli ebrei romani e di cui abbiamo testimonianze dal Medioevo fino almeno ai primi del Novecento – ma sulla cronologia recente diremo in chiusura di questa nota.

    L’origine di giudeo-romanesco ngarelle risale all’ebraico ‘ārēl letteralmente ‘coperto’, quindi per estensione referenziale ‘non circonciso’, aggettivo frequente nell’Antico Testamento a indicare i non ebrei (sono ‘ārēlîm ad esempio i Filistei nella storia di Sansone), oppure, in senso esteso, gli ebrei che non osservano correttamente i precetti. La parola ebraica è poi stata ripresa nei dialetti giudeo-italiani moderni per designare senz’altro il ‘cristiano’ da parte degli ebrei.

    Nell’articolo il brano è citato due volte e la parola appare una volta come ngarelli e l’altra come ngarelle. La forma più vicina al giudeo-romanesco è ngarelle, invariabile, che ha -e finale aggiunta all’originaria desinenza in consonante. Essa si ritrova, nella grafia ngkarelle che intende rappresentare più da vicino la pronuncia romanesca, nei Sonetti di Crescenzo Del Monte (1908), il maggior poeta giudeo-romanesco del Novecento; ad es. nel sonetto ’O scèkez la famiglia ebrea non ha ancora trovato uno scekez (il ragazzino cristiano che per una piccola mancia si prestava ad accendere il fuoco o i lumi a casa di sabato, quando agli ebrei la mansione era vietata), sicché provano a cavarsela cercando un cristiano qualsiasi, appunto un ngkarelle:


    A quest’ora lo scèkez ’un c’è più:
    ’ngkrazziadeddio, scegnemo, e imo a vedé’
    se c’è un ngkarèlle da portacce su.
    Una delle prime attestazioni del termine si trova in un testo “pseudo”-giudeo-romanesco, cioè in un testo scritto da romani cristiani per imitare parodiando la parlata degli ebrei e quindi gli ebrei stessi (un genere testuale assolutamente maggioritario per quel che riguarda il giudeo-romanesco moderno). Una delle poesie reazionarie di fine Settecento raccolte nel cosiddetto “Misogallo romano”, un’invettiva minacciosa contro gli ebrei romani, inizia appunto così:

    Voi ste Macchà [questi castighi] cercate o Ieudim [o Giudei]
    Mentre mandaste noi cento Macod [sventure]
    E lo giuraste sù la Bangenfod [una veste rituale]
    Alla presenza degl’Angarelim [non ebrei, cristiani]

    (il testo si legge in M. Formica e L. Lorenzetti (a cura di), Il Misogallo romano, Roma, Bulzoni, 1999, p. 420). La voce manca invece, salvo errore, nella letteratura giudeo-romanesca precedente, che consta soprattutto di testi teatrali scritti tra Sei e Settecento. In quella tradizione la parola usuale, e comprensibilmente frequente, per indicare il non ebreo è goi, plur. goìm(me), dall’ebraico gôj ‘popolo’, poi appunto ‘non ebreo, gentile, idolatra; cristiano’; il termine goi sarà poi anche della letteratura italiana “alta”, da Leopardi a Pirandello.

    Ben presente dunque in giudeo-romanesco, la voce è diffusa con lo stesso valore in molti altri dialetti giudeo-italiani, dal gd.piemontese ngarél o narel al gd.triestino gnarel, gd.mantovano gnarèl (entrambi con gn- di gnomo), gd.fiorentino ’arel, gd.livornese ‘arel (l’apostrofo « ‘ » iniziale trascrive il suono ng-, che i livornesi non ebrei pronunciavano g: garè) eccetera. (Maggior dettaglio in U. Fortis e P. Zolli, La parlata giudeo-veneziana, Assisi-Roma, Carucci, 1979, pp. 207-208; M. Aprile, Grammatica storica delle parlate giudeo-italiane, Galatina, Congedo, 2012, p. 234). Le differenze nella consonante iniziale dipendono non tanto dai dialetti sottostanti, quanto piuttosto dalle tradizioni moderne di lettura della lettera ‘ayin, che sono diverse a seconda delle diverse comunità della diaspora ebraica in Italia. Infine, va notata la presenza in giudeo-romanesco di un calco di ‘ārēl, formato anch’esso su una metafora icastica: chiuso, usato anche al femminile chiusa, sempre col valore di ‘non ebreo, cristiano’.

    Una nota conclusiva: il valore linguistico di testimonianze come quella di Liliana Spizzichino, contemporanee benché riferite a eventi di settant’anni fa, è discusso. Il giudeo-romanesco è considerato dagli specialisti come una lingua ormai estinta. La presenza di singole parole giudeo-romanesche in tali testimonianze, numerose quanto si voglia, è di sicuro una documentazione importantissima, ma non implica che la lingua a cui quelle parole appartenevano fosse essa stessa ancora viva nell’uso all’epoca, né tanto meno che lo sia adesso. D’altra parte, non è lecito sottovalutare, tra le molte testimonianze odierne fatte di letteratura, soprattutto teatrale, con una forte componente identitaria, le varie videoregistrazioni di parlato comune (o sedicente tale) effettuate in anni recentissimi da parte di ebrei e soprattutto di ebree romane, oggi anziani ma tuttavia appartenenti alla generazione successiva a quella dei deportati dai nazifascisti, ora rintracciabili con facilità nei repertori in rete. In molti casi il dialetto usato dagli interpreti è un romanesco comune infarcito di giudaismi stereotipici, perlopiù di livello lessicale, e ha quindi un interesse linguistico relativo. In altri invece i tratti di pronuncia e alcuni elementi grammaticali ricorrenti incuriosiscono per vivacità e verosimiglianza rispetto a quanto sappiamo del giudeo-romanesco, e meriterebbero perciò un’indagine specifica (sul tema si veda intanto la testimonianza aggiornata di M. Procaccia, Cronache di Piazza, in G. Vaccaro (a cura di), Marcello 7.0. Studi in onore di Marcello Teodonio, Roma, Il Cubo 2019, pp. 489-498).


    Luca Lorenzetti

    18 gennaio 2022

    da qui:

    https://accademiadellacrusca.it/it/consule...-ngarelli/10075
  15. .
    Acharè Mot. Solo chi fa parte di una comunità riceve il perdono divino di Kippùr

    DONATO GROSSER

    Questa parashà inizia con le istruzioni al Kohen Gadol su quello che doveva fare durante il giorno di Kippur, il giorno dell’espiazione dei peccati. Il Kohen Gadol doveva prendere due capri acquistati con i fondi pubblici del popolo d’Israele ed estrarre a sorte il loro destino. Un capro veniva sacrificato nel Bet Ha-Mikdàsh e serviva di espiazione per i peccati commessi in relazione con il Bet Ha-Mikdàsh, come nei casi in cui qualcuno vi fosse entrato senza essere in stato di purità. Riguardo al secondo capro è scritto che il Kohen Gadol “poneva le sue mani sulla testa del capro vivo e confessava su di lui tutti i peccati dei figli d’Israele e tutte le loro trasgressioni e le metteva sulla testa del capro che mandava nel deserto a mezzo di un uomo predisposto a questo scopo” (Vaykrà, 16:21).

    Il Maimonide (Cordova, 1138-1204, Il Cairo) nel Mishnè Torà (Hilkhòt Teshuvà, 1:2) scrive: “Riguardo al capro da mandare via, poiché serve da espiazione per tutto Israele, il Kohen Gadol fa la confessione a nome di tutto Israele […]. Il capro da mandare via espia tutte le trasgressioni della Torà, sia quelle meno gravi (kalòt) sia quelle gravi (chamuròt). Sia che qualcuno le abbia fatte intenzionalmente, sia involontariamente; sia che ne fosse conscio, sia che non lo fosse. Tutto viene espiato con il capro da mandare via, a condizione che la persona abbia fatto teshuvà (cioè che abbia rimorso, confessi i peccati e prometta di non commetterli più). Se non ha fatto teshuvà il capro da mandare via espia solo i peccati meno gravi. E quali sono i peccati meno gravi e quali sono quelli gravi? Quelli gravi sono i peccati per i quali vi è la pena di morte da parte del Bet Din e il karèt (morte per mano divina). I giuramenti in vano e in falso sono peccati gravi, anche se per loro non vi è la pena del karèt. Le altre mitzvòt proscrittive (che comandano di non fare), e le mitzvòt prescrittive (che comandano di fare qualcosa) per la cui omissione non vi è il karèt, sono parte dei meno gravi”.

    R. Joseph Beer Soloveitchik (Belarus, 1903-1993, Boston), In Mesoras Harav (pp. 115, 119, 124) spiega che la confessione del Kohen Gadol sul capro espiatorio non comprende rimorso e intenzione di non fare gli stessi peccati, elementi necessari per la confessione individuale. Quando confessa per tutto Israele, la confessione non è un’espressione di teshuvà ma è un mezzo di espiazione (kapparà) pubblico, come un sacrificio comune. La kapparà, espiazione, implica la rimozione della punizione che risulta dal peccato commesso. Così come un creditore può rinunciare a riscuotere un debito, l’Eterno può assolvere il peccatore dalla punizione.

    R. Soloveitchik sottolinea che il Maimonide scrive che il capro espiatore è un mezzo così forte di espiazione che anche senza pentimento serve da assoluzione per tutte le trasgressioni, ad eccezioni di quelle che comportano la pena di morte da parte del Bet Din o la morte per mano divina (karèt). Il capro espiatorio non appartiene a nessun individuo, appartiene alla comunità, alla Kenèsset Israel che ha una sua personalità indipendente. Il sacrificio del capro espiatorio serve da espiazione per i peccati di tutti i membri del popolo d’Israele che aderiscono alla Kenèsset Israel e ne rimangono membri inseparabili. L’individuo riceve l’espiazione solo nella sua capacità di membro della comunità.

    È grazie a questa spiegazione che si può comprendere la distinzione che fa il Maimonide tra i peccati punibili con la pena di morte e gli altri. In relazione alle persone che meritano la pena di morte è scritto “la persona sarà tagliata da Israele” (Vaykrà, 19:13) e anche “Quella persona sarà tagliata dalla comunità” (ibid., 19:20). Queste persone hanno fatto qualcosa che li esclude dalla comunità d’Israele. Di conseguenza, l’espiazione comune del capro espiatorio non ha effetto su di loro. Il Maimonide conclude che al giorno d’oggi, senza il Bet Ha-Mikdàsh, vi è solo la teshuvà che serve per l’espiazione di tutte le trasgressioni (Hilkhòt Teshuvà, 1:3).

    da morasha.it
373 replies since 12/2/2022
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