Forum LIDI (Lega Italiana per la tutela dei Diritti degli Introversi)

Posts written by rossanaianni

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    Per ringraziare Luigi Anepeta, che ha fatto intravedere, nell'oscurità di una stazione sconosciuta, un “lanternino cieco”.

    Una giornata
    da Novelle per un anno
    di Luigi Pirandello


    Strappato dal sonno, forse per sbaglio, e buttato fuori dal treno in una stazione di passaggio. Di notte; senza nulla con me.
    Non riesco a riavermi dallo sbalordimento. Ma ciò che più mi impressiona è che non mi trovo addosso alcun segno della violenza patita; non solo, ma che non ne ho neppure un’immagine, neppur l’ombra confusa d’un ricordo.
    Mi trovo a terra, solo, nella tenebra d’una stazione deserta; e non so a chi rivolgermi per sapere che m’è accaduto, dove sono.
    Ho solo intravisto un lanternino cieco, accorso per richiudere lo sportello del treno da cui sono stato espulso. Il treno è subito ripartito. E subito scomparso nell’interno della stazione quel lanternino, col riverbero vagellante del suo lume vano. Nello stordimento, non m’è nemmen passato per il capo di corrergli dietro per domandare spiegazioni e far reclamo.
    Ma reclamo di che?
    Con infinito sgomento m’accorgo di non aver più idea d’essermi messo in viaggio su un treno. Non ricordo più affatto di dove sia partito, dove diretto; e se veramente, partendo, avessi con me qualche cosa. Mi pare nulla.
    Nel vuoto di questa orribile incertezza, subitamente mi prende il terrore di quello spettrale lanternino cieco che s’è subito ritirato, senza fare alcun caso della mia espulsione dal treno. È dunque forse la cosa più normale che a questa stazione si scenda così?
    Nel bujo, non riesco a discernerne il nome. La città mi è però certamente ignota. Sotto i primi squallidi barlumi dell’alba, sembra deserta. Nella vasta piazza livida davanti alla stazione c’è un fanale ancora acceso. Mi ci appresso; mi fermo e, non osando alzar gli occhi, atterrito come sono dall’eco che hanno fatto i miei passi nel silenzio, mi guardo le mani, me le osservo per un verso e per l’altro, le chiudo, le riapro, mi tasto con esse, mi cerco addosso, anche per sentire come son fatto, perché non posso più esser certo nemmeno di questo: ch’io realmente esista e che tutto questo sia vero.
    Poco dopo, inoltrandomi fin nel centro della città, vedo cose che a ogni passo mi farebbero restare dallo stupore, se uno stupore più forte non mi vincesse nel vedere che tutti gli altri, pur simili a me, ci si muovono in mezzo senza punto badarci, come se per loro siano le cose più naturali e più solite. Mi sento come trascinare, ma anche qui senz’avvertire che mi si faccia violenza. Solo che io, dentro di me, ignaro di tutto, sono quasi da ogni parte ritenuto. Ma considero che, se non so neppur come, né di dove, né perché ci sia venuto, debbo aver torto io certamente e ragione tutti gli altri che, non solo pare lo sappiano, ma sappiano anche tutto quello che fanno sicuri di non sbagliare, senza la minima incertezza, così naturalmente persuasi a fare come fanno, che m’attirerei certo la maraviglia, la riprensione, fors’anche l’indignazione se, o per il loro aspetto o per qualche loro atto o espressione, mi mettessi a ridere o mi mostrassi stupito. Nel desiderio acutissimo di scoprire qualche cosa senza farmene accorgere, debbo di continuo cancellarmi dagli occhi quella certa permalosità che di sfuggita tante volte nei loro occhi hanno i cani. Il torto è mio, il torto è mio, se non capisco nulla, se non riesco ancora a raccapezzarmi. Bisogna che mi forzi a far le viste d’esserne anch’io persuaso e che m’ingegni di far come gli altri, per quanto mi manchi ogni criterio e ogni pratica nozione, anche di quelle cose che pajono più comuni e più facili.
    Non so da che parte rifarmi, che via prendere, che cosa mettermi a fare.
    Possibile però ch’io sia già tanto cresciuto, rimanendo sempre come un bambino e senz’aver fatto mai nulla? Avrò forse lavorato in sogno, non so come. Ma lavorato ho certo; lavorato sempre, e molto, molto. Pare che tutti lo sappiano, del resto, perché tanti si voltano a guardarmi e più d’uno anche mi saluta, senza ch’io lo conosca. Resto dapprima perplesso, se veramente il saluto sia rivolto a me; mi guardo accanto; mi guardo dietro. Mi avranno salutato per sbaglio? Ma no, salutano proprio me. Combatto, imbarazzato, con una certa vanità che vorrebbe e pur non riesce a illudersi, e vado innanzi come sospeso, senza potermi liberare da uno strano impaccio per una cosa – lo riconosco – veramente meschina: non sono sicuro dell’abito che ho addosso; mi sembra strano che sia mio; e ora mi nasce il dubbio che salutino quest’abito e non me. E io intanto con me, oltre a questo, non ho più altro!
    Torno a cercarmi addosso. Una sorpresa. Nascosta nella tasca in petto della giacca tasto come una bustina di cuojo. La cavo fuori, quasi certo che non appartenga a me ma a quest’abito non mio. E davvero una vecchia bustina di cuojo, gialla scolorita slavata, quasi caduta nell’acqua di un ruscello o d’un pozzo e ripescata. La apro, o, piuttosto, ne stacco la parte appiccicata, e vi guardo dentro. Tra poche carte ripiegate, illeggibili per le macchie che l’acqua v’ha fatte diluendo l’inchiostro, trovo una piccola immagine sacra, ingiallita, di quelle che nelle chiese si regalano ai bambini e, attaccata ad essa quasi dello stesso formato e anch’essa sbiadita, una fotografia. La spiccico, la osservo. Oh. È la fotografia di una bellissima giovine, in costume da bagno, quasi nuda, con tanto vento nei capelli e le braccia levate vivacemente nell’atto di salutare. Ammirandola, pur con una certa pena, non so, quasi lontana, sento che mi viene da essa l’impressione, se non proprio la certezza, che il saluto di queste braccia, così vivacemente levate nel vento, sia rivolto a me. Ma per quanto mi sforzi, non arrivo a riconoscerla. È mai possibile che una donna così bella mi sia potuta sparire dalla memoria, portata via da tutto quel vento che le scompiglia la testa? Certo, in questa bustina di cuojo caduta un tempo nell’acqua, quest’immagine, accanto all’immagine sacra, ha il posto che si dà a una fidanzata.
    Torno a cercare nella bustina e, più sconcertato che con piacere, nel dubbio che non m’appartenga, trovo in un ripostiglio segreto un grosso biglietto di banca, chi sa da quanto tempo lì riposto e dimenticato, ripiegato in quattro, tutto logoro e qua e là bucherellato sul dorso delle ripiegature già lise.
    Sprovvisto come sono di tutto, potrò darmi ajuto con esso? Non so con qual forza di convinzione, l’immagine ritratta in quella piccola fotografia m’assicura che il biglietto è mio. Ma c’è da fidarsi d’una testolina così scompigliata dal vento? Mezzogiorno è già passato; casco dal languore: bisogna che prenda qualcosa, ed entro in una trattoria.
    Con maraviglia, anche qui mi vedo accolto come un ospite di riguardo, molto gradito. Mi si indica una tavola apparecchiata e si scosta una seggiola per invitarmi a prender posto. Ma io son trattenuto da uno scrupolo. Fo cenno al padrone e, tirandolo con me in disparte, gli mostro il grosso biglietto logorato. Stupito, lui lo mira; pietosamente per lo stato in cui è ridotto, lo esamina; poi mi dice che senza dubbio è di gran valore ma ormai da molto tempo fuori di corso. Però non tema: presentato alla banca da uno come me, sarà certo accettato e cambiato in altra più spicciola moneta corrente.
    Così dicendo il padrone della trattoria esce con me fuori dell’uscio di strada e m’indica l’edificio della banca lì presso.
    Ci vado, e tutti anche in quella banca mi si mostrano lieti di farmi questo favore. Quel mio biglietto – mi dicono – è uno dei pochissimi non rientrati ancora alla banca, la quale da qualche tempo a questa parte non dà più corso se non a biglietti di piccolissimo taglio. Me ne danno tanti e poi tanti, che ne resto imbarazzato e quasi oppresso. Ho con me solo quella naufraga bustina di cuojo. Ma mi esortano a non confondermi. C’è rimedio a tutto. Posso lasciare quel mio danaro in deposito alla banca, in conto corrente. Fingo d’aver compreso; mi metto in tasca qualcuno di quei biglietti e un libretto che mi danno in sostituzione di tutti gli altri che lascio, e ritorno alla trattoria. Non vi trovo cibi per il mio gusto; temo di non poterli digerire. Ma già si dev’essere sparsa la voce ch’io, se non proprio ricco, non sono certo più povero; e infatti, uscendo dalla trattoria, trovo un’automobile che m’aspetta e un autista che si leva con una mano il berretto e apre con l’altra lo sportello per farmi entrare. Io non so dove mi porti. Ma com’ho un’automobile, si vede che, senza saperlo, avrò anche una casa. Ma sì, una bellissima casa, antica, dove certo tanti prima di me hanno abitato e tanti dopo di me abiteranno. Sono proprio miei tutti questi mobili? Mi ci sento estraneo, come un intruso. Come questa mattina all’alba la città, ora anche questa casa mi sembra deserta; ho di nuovo paura dell’eco che i miei passi faranno, movendomi in tanto silenzio. D’inverno, fa sera prestissimo; ho freddo e mi sento stanco. Mi faccio coraggio; mi muovo; apro a caso uno degli usci; resto stupito di trovar la camera illuminata, la camera da letto e, sul letto, lei, quella giovine del ritratto, viva, ancora con le due braccia nude vivacemente levate, ma questa volta per invitarmi ad accorrere a lei e per accogliermi tra esse, festante.
    È un sogno?
    Certo, come in un sogno, lei su quel letto, dopo la notte, la mattina all’alba, non c’è più. Nessuna traccia di lei. E il letto, che fu così caldo nella notte, è ora, a toccarlo, gelato, come una tomba. E c’è in tutta la casa quell’odore che cova nei luoghi che hanno preso la polvere, dove la vita è appassita da tempo, e quel senso d’uggiosa stanchezza che per sostenersi ha bisogno di ben regolate e utili abitudini. Io ne ho avuto sempre orrore. Voglio fuggire. Non è possibile che questa sia la mia casa. Questo è un incubo. Certo ho sognato uno dei sogni più assurdi. Quasi per averne la prova, vado a guardarmi a uno specchio appeso alla parete dirimpetto, e subito ho l’impressione d’annegare, atterrito, in uno smarrimento senza fine. Da quale remota lontananza i miei occhi, quelli che mi par d’avere avuti da bambino, guardano ora, sbarrati dal terrore, senza potersene persuadere, questo viso di vecchio? Io, già vecchio? Così subito? E com’è possibile?
    Sento picchiare all’uscio. Ho un sussulto. M’annunziano che sono arrivati i miei figli.
    I miei figli?
    Mi pare spaventoso che da me siano potuti nascere figli. Ma quando? Li avrò avuti jeri. Jeri ero ancora giovane. È giusto che ora, da vecchio, li conosca.
    Entrano, reggendo per mano bambini, nati da loro. Subito accorrono a sorreggermi; amorosamente mi rimproverano d’essermi levato di letto; premurosamente mi mettono a sedere, perché l’affanno mi cessi. Io, l’affanno? Ma sì, loro lo sanno bene che non posso più stare in piedi e che sto molto molto male.
    Seduto, li guardo, li ascolto; e mi sembra che mi stiano facendo in sogno uno scherzo.
    Già finita la mia vita?
    E mentre sto a osservarli, così tutti curvi attorno a me, maliziosamente, quasi non dovessi accorgermene, vedo spuntare nelle loro teste, proprio sotto i miei occhi, e crescere, crescere non pochi, non pochi capelli bianchi.
    – Vedete, se non è uno scherzo? Già anche voi, i capelli bianchi.
    E guardate, guardate quelli che or ora sono entrati da quell’uscio bambini: ecco, è bastato che si siano appressati alla mia poltrona: si son. fatti grandi; e una, quella, è già una giovinetta che si vuol far largo per essere ammirata. Se il padre non la trattiene, mi si butta a sedere sulle ginocchia e mi cinge il collo con un braccio, posandomi sul petto la testina.
    Mi vien l’impeto di balzare in piedi. Ma debbo riconoscere che veramente non posso più farlo. E con gli stessi occhi che avevano poc’anzi quei bambini, ora già così cresciuti, rimango a guardare finché posso, con tanta tanta compassione, ormai dietro a questi nuovi, i miei vecchi figliuoli.
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    Intervengo per fatto personale, come si sarebbe detto in altri tempi in una assemblea pubblica. Lo faccio a malincuore, costretta dalla circostanza, non più casuale, per la quale, a partire da dicembre 2008, ripetutamente, Soci e utenti, privatamente e sul forum, hanno cercato di coinvolgermi ancora nelle attuali vicende interne della Lidi.
    I contenuti che riguardano me, comparsi, senza alcuna giustificazione logica, in questa discussione, si commentano da soli.
    La deriva patologica di una comunicazione imbarbarita che non è affatto comunicazione, ma semplice dimostrazione di potere, o meglio di “esibizione dei muscoli” da parte di chi non cerca il dialogo, ma la sola narcisistica affermazione di sé, appunto comunico, quindi sono, è esemplificata alla perfezione da quei contenuti.
    Il moderatore del forum Koenig4 fa riferimento ad una corrispondenza privata con me intrattenuta, nella quale lo avrei a tal punto intidimidito e intimorito e influenzato e condizionato con la autorità professorale (!!!) dei miei giudizi critici, indebitamente esercitata su di lui, da averlo costretto a chiedere all'Amministratore del forum di ritirare suoi contributi, oppure a modificarli, anzi “restaurarli”, secondo la sua stessa terminologia.
    Io conservo interamente quella privata corrispondenza. Nella quale casomai esprimevo il mio più vivo dissenso proprio sulla inveterata abitudine di rovesciare sul forum di tutto e di più, per poi modificare, cambiare, restaurare, o addirittura far sparire, a seconda delle circostanze, e del vento che spira, come nella migliore italica tradizione. Nella quale arrivai a ricordare la nefasta attività svolta al Ministero della Verità dal protagonista del romanzo di Orwell 1984, per far capire la “pericolosità”, dal mio punto di vista, di una tale linea editoriale che mi appare assai discutibile.
    Che ora il moderatore Koenig4 venga a dire di essere stato coartato nella sua volontà, oppure di aver modificato i suoi contributi per il nobile desiderio di tener conto del mio punto di vista, è una pura e semplice falsificazione della realtà. Di cui posso comprendere le ragioni, ma che rimane comunque una pura e semplice falsificazione della realtà.
    Marcello, se hai un minimo di onestà intellettuale, dovresti ammettere che le cose che hai scritto sul mio conto non rispondono a verità. Le tue interpretazioni dei contenuti della corrispondenza che abbiamo intrattenuto sono il frutto, penso, di un tuo personale problema: sentirti sempre sotto esame, giudicato, e inadeguato dal punto di vista intellettuale e culturale. Io non ho mai messo voti a nessuno, lo faccio malvolentieri anche a scuola con i miei alunni, figurati se lo faccio nella vita quotidiana fuori di scuola, dove esigo tassativamente, fra l'altro, che nessuno mi chiami professoressa. Non è una colpa, però, se questo è comunque il ruolo che ho ed è la professione che svolgo: arrivo a comprendere che vi sono persone per le quali, indipendentemente da quello che dico o scrivo, è comunque questo mio ruolo che evoca fantasmi di un loro lontano e magari infantile passato, di cui io non sono responsabile. Non pochi proiettano su di me l'ombra di questi loro fantasmi, appartenenti al loro mondo interiore, mettendo nelle mie parole e nei miei scritti contenuti che hanno sentito da altri, altrove, in un altro tempo, non da me. Per principio, considero tutti uguali a me: se errore io commetto, purtroppo deriva sempre da un mio astratto egualitarismo giacobino per il quale, se parlo con persone più che adulte, ritengo di non dover utilizzare sempre e solo ipocrite forme di compiacenza, che debbano fortificare l'autostima di chi ho di fronte: non ho mai pensato che tu fossi una persona così debole e bisognoso di approvazione da parte mia da non poterti scrivere con limpidezza e schiettezza, e su tua richiesta, il mio punto di vista, critico, sul forum Lidi. Che tu ora quella privata corrispondenza, a distanza di mesi, la utilizzi in pubblico, falsificandone il contenuto, sinceramente mi sembra una bassezza non degna della gentilezza e della delicatezza di un introverso.
    Mi auguro che l'invito del Presidente della Lidi a non riaprire vecchie questioni, coinvolgendomi ancora, con asfissianti richieste di contatti privati, o anche pubblicamente qui sul forum, per l'autorevolezza della persona da cui proviene, sia questa volta accolto. Già diverse settimane fa, io anche, privatamente, avevo rivolto la stessa richiesta a diversi utenti del forum, rimasta inascolta.
    Rossana Ianni Palarchio


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    Se non lo hai già letto, ti consiglio allora di Rita D'Amico il saggio Relazioni di coppia. Potere, dipendenza, autonomia, Editori Laterza, 2006.

    Un libro molto interessante, scritto molto bene e molto documentato. Non ricordo come, ma venni invitata alla presentazione che l'autrice fece del libro qui a Roma, alla libreria Bibli. Fu una bella serata che mi diede l'opportunità di farmi conoscere e poi leggere un saggio davvero notevole.

    Dal risguardo di copertina:
    “Come si manifestano il potere e la dipendenza in una relazione d'amore? Quali sono i fattori economici e culturali che più di altri determinano gli equilibri tra i partner? Qual è la realzione tra potere e desiderio sessuale? Per quale motivo la dipendenza affettiva è più diffusa tra le donne che tra gli uomini? Quali sono gli effetti di una discrepanza di potere nel benessere psicologico dei partner? Penetrando nella complessità della vita di coppia, l'autrice delinea in modo coerente e articolato uno scenario relazionale in cui momenti di tenera intimità e di scambi affettuosi si alternano ad accese discussioni e litigi con il partner, rivelando così l'intricato nesso esistente tra amore, potere e dipendenza. Un importante contributo di psicologia sociale che va dritto al cuore di uno dei problemi più delicati del nostro tempo: la relazione di coppia e la sua intrinseca fragilità.”
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    Il commento di star***al libro di D. Grossman è così intenso profondo e partecipato, che mi ha convinto ad andare a comprarmelo !!!

    Di D. Grossman io ricordo di aver letto la sua bellissima orazione funebre per il figlio morto in guerra, nell’estate di due anni fa. Il testo è piuttosto lungo e quindi non l’incollo di seguito, ma è facilmente reperibile nel web. Ne riporto solo un breve stralcio:

    «Era un ragazzo con dei valori, parola molto logorata e schernita negli ultimi anni. Nel nostro mondo a pezzi e crudele e cinico non è "tosto" avere dei valori. O essere umani. O sensibili al malessere del prossimo, anche se quel prossimo è il tuo nemico sul campo di battaglia.
    Ma io ho imparato da Uri che si può e si deve essere sia l'uno che l'altro. Che dobbiamo difendere noi stessi e la nostra anima. Insistere a preservarla dalla tentazione della forza e da pensieri semplicistici, dalla deturpazione del cinismo, dalla volgarità del cuore e dal disprezzo degli altri, che sono la vera, grande maledizione di chi vive in una area di tragedia come la nostra.
    Uri aveva semplicemente il coraggio di essere se stesso, sempre, in ogni situazione, di trovare la sua voce precisa in tutto ciò che diceva e faceva, ed era questo a proteggerlo dalla contaminazione, dalla deturpazione e dal degrado dell'anima.»


    Il ritratto che ne emerge, di un ragazzo poco più che ventenne, morto in una guerra che il padre, intellettuale pacifista di Israele, aveva osteggiato, è non una orazione funebre, ma un testo che suscita “fame” di mondo, di uomini, di vita. Mi colpì moltissimo perché a me non provocò tristezza, malinconia, al contrario, lo sentii come un invito a vivere in un modo sempre più autentico e profondo.

    Certo non è un testo sull’ autostima che possa direttamente essere utile a tandream, ma un po’ obliquamente forse sì.


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    Aggiungo una piccola nota alla mia precedente testimonianza personale sul tema “superiorità” per spiegare meglio alcune riflessioni lì contenute.
    Per il solo timore di pensare che io posso valere di più di qualcun altro, non dal punto di vista dell’umanità - in questo ambito secondo me non ci sono scale oggettive di valori - ma in alcuni specifici campi, per timore che quindi che mi si possa accusare di essere presuntuosa e sprezzante, poco rispettosa degli altri, io, spesso in modo astratto, metto tutti sullo stesso piano. Se tutti mi sono pari, io non rischio di sentirmi superiore a loro e quindi, trattandoli da pari, non li disprezzo, e quindi non sono cattiva. Non potendo sopportare su di me l’atteggiamento paternalistico, sono cresciuta anche nel mito dell’indipendenza accanto a quello dell’altruismo sacrificale, corro il rischio esattamente opposto al paternalismo, comportamento per il quale non so se esista un termine in italiano, al momento non mi sovviene, comportamento mistificante anch’esso, seppure appaia più “politicamente corretto”. L’altruismo sacrificale che mi ha impedito di esperire la superiorità nei confronti degli altri, non è certamente, però, un modello intrinsecamente positivo, etico, come io per anni ho pensato. Per cercare di liberarmene fatico non poco. La difficoltà maggiore sta nel trovare un equilibrio fra il bisogno di indipendenza, piuttosto marcato, e il bisogno di essere sempre disponibile verso gli altri. Se sulla mia strada incontro qualcuno che, inconsapevole di questo mio vissuto, mi colpevolizza per le uniche capacità che posseggo e di cui sono consapevole, e che invece di aiutarmi a valorizzarle adeguatamente, mi sollecita a demonizzarle, negandone il valore, poiché magari mi percepisce, a torto, come un pericoloso nemico (spiegare i motivi per cui accade questo esigerebbe di entrare nelle dinamiche interiori di costui, e ci condurrebbe troppo lontano), nascono delle commedie degli equivoci da cui si potrebbe uscire solo con un coraggioso atto di trasparenza da parte di tutti.
    Non sempre ho trovato persone disponibili a fare ciò.
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    Imperia ha ora con grande efficacia spiegato il senso di una affermazione che la mia lettura, questa volta frettolosa, mi aveva fatto interpretare in modo scorretto. Con Imperia ci siamo già spiegate e chiarite.
    Vorrei aggiungere una piccola testimonianza di ordine personale, cui non facilmente indulgo. Mi è stato trasmesso come esempio positivo, intrinsecamente etico, un atteggiamento per il quale l’altruismo sacrificale è sempre preferibile alla strumentalizzazione dell’altro o alla prevaricazione nei suoi confronti. Io non ho mai sperimentato, perciò, il senso di superiorità, non me ne faccio un vanto, è che proprio mi è sempre stato precluso anche solo lontanamente il pensare che io potessi essere superiore ad un altro, valere di più. Così certamente ho moltissimi limiti, ma non quello di essere presuntuosa. Mi era, mi è vietato, ancora oggi, essere o anche solo sentirmi presuntuosa. L’argomento “superiorità”, quindi, quasi automaticamente, nel mio vissuto, evoca una specie di immediata reazione allergica. E si attiva il mio giacobino, e a volte certamente astratto, egualitarismo.
    La mia non corretta interpretazione dell’affermazione di Imperia ha questo retroterra.


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    Ciao Imperia, intervengo per commentare una tua affermazione con la quale non sono d'accordo. Lo faccio esclusivamente a titolo personale, anche se penso di poter esprimere quello che dovrebbero essere lo spirito di fondo che anima la LIDI. Se così non fosse, ovviamente, vi sarà chi potrà correggermi in questa mia valutazione. Gli introversi non sono una specie geneticamente superiore agli estroversi. Credo di poter affermare che in nessuno degli scritti del dott. Luigi Anepeta si afferma qualcosa del genere. Più volte devo dire che in diversi messaggi postati nel forum sembra aleggiare questa intima convinzione, gli introversi sono migliori degli estroversi. Io personalmente non lo penso, e ho aderito alla LIDI, contribuendo a fondarla (non per un qualche mio merito personale particolare, sia chiaro !) non per questo motivo, ma perché mi riconosco in quanto è scritto nel suo Statuto; esso sintetizza la posizione teorica, culturale, in senso lato “politica” che ha ispirato e ispira la più che trentennale attività intellettuale di Luigi Anepeta. La LIDI, originariamente, a questa attività intellettuale si è richiamata. Chi si avvicina alla LIDI, come simpatizzante o anche come Socio penso che non debba aspettarsi, da questa Associazione, il sostegno a posizioni che finiscono, anche se in buona fede, per alimentare un pregiudizio speculare a quello cui sono soggetti gli introversi. Il sentirsi gratificato da una appartenenza "elitaria", alla fine porta a giustificare anche appartenenze "settarie", vissute senza alcun discernimento critico, ma in modo fideistico. Il fenomeno è assai più frequente di quel che non si pensi.
    Dal mio punto di vista, onestamente, non avertene a male se lo rilevo Imperia, affermare che gli introversi sono una specie superiore non è molto diverso dal dire che gli ariani sono superiori agli ebrei, ai negri, agli omosessuali o agli zingari.
    Nè la natura si è presa gioco di noi, facendoci nascere introversi, e neppure ci ha fornito di qualcosa di qualitativamente superiore rispetto a ciò che ha fornito agli altri. Non bisogna vergognarsi di essere introversi, non è una malattia da cui guarire, ma rivendicare una superiorità sugli estroversi significa, secondo me, tradire lo spirito e la lettera non solo della produzione culturale di Anepeta, ma anche lo spirito che dovrebbe ispirare l’attività della LIDI.
    Mi piace aggiungere, infine, i versi leopardiani che chiudono la Ginestra : come l’umile ginestra affrontiamo con consapevole coraggio la nostre sorte, senza “forsennato orgoglio”, ma neppure “codardamente supplicando”. Alla fine, Imperia, il messaggio che dovrebbe passare, dal mio punto di vista, è che tutti, ma proprio tutti, apparteniamo alla specie umana, per parafrasare la nota affermazione di Einstein. Fra diecimila anni che sia stato lui piuttosto che un oscuro fornaio di Orune a scoprire la relatività non farà nessuna differenza. Invece di rivendicare inutili superiorità, se si potesse, in modo davvero autentico, costruire la “social catena” cui sempre Leopardi fa cenno nei suoi versi, questo sì, davvero, sarebbe l’unico antidoto alle nostre comuni umane miserie.
    Ciao

    E tu, lenta ginestra,
    Che di selve odorate
    Queste campagne dispogliate adorni,
    Anche tu presto alla crudel possanza
    Soccomberai del sotterraneo foco,
    Che ritornando al loco
    Già noto, stenderà l'avaro lembo
    Su tue molli foreste. E piegherai
    Sotto il fascio mortal non renitente
    Il tuo capo innocente:
    Ma non piegato insino allora indarno
    Codardamente supplicando innanzi
    Al futuro oppressor; ma non eretto
    Con forsennato orgoglio inver le stelle,
    Nè sul deserto, dove
    E la sede e i natali
    Non per voler ma per fortuna avesti;
    Ma più saggia, ma tanto
    Meno inferma dell'uom, quanto le frali
    Tue stirpi non credesti
    O dal fato o da te fatte immortali.


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    Ciao tandream, non saprei suggerirti libri sull’autostima in particolare, anche perché ti confesso che il termine non mi è mai troppo piaciuto, mi è sempre apparso come facente parte di un lessico, quello del cosiddetto “pensiero positivo“, a cui io mi sento estranea. Imparare a rispettare se stessi, riconoscendo e valorizzando nella giusta misura le proprie qualità, ma anche accettando i propri limiti, penso sia un impegno che richieda qualcosa di più che non ciò che certe facili ricettine svelte svelte ti promettono di ottenere: in capo ad un mese la tua vita cambierebbe da così a così, bastano quattro esercizietti tutti i giorni ... Mirabilia !!! Ma è naturalmente solo una mia opinione.
    Posso invece suggerirti alcuni articoli seri di Luigi Anepeta pubblicati su www.nilalienum.it che affrontano il tema della dipendenza da diversi punti di vista. In questo sito, utilizzando la funzione Ricerca puoi trovare molto altro materiale, non solo su questo tema.
    Concordo con la tua ottima riflessione: non vi sono torce di tale splendore cui affidare ciecamente la sicurezza del nostro cammino. Qui si va avanti tutti a tentoni, tutti, a volte, sull’orlo di un precipizio.
    Ciao
    Rossana


    La dipendenza maschile:
    http://sl.wus0.com/quclk.go?rd=http://www....0&qu=dipendenza

    Della struttura ossessiva e d’altro
    http://sl.wus0.com/quclk.go?rd=http://www....0&qu=dipendenza

    La dipendenza compulsiva da non sostanze
    http://sl.wus0.com/quclk.go?rd=http://www....0&qu=dipendenza

    Sull’indipendenza psicologica
    http://sl.wus0.com/quclk.go?rd=http://www....0&qu=dipendenza

    La dipendenza femminile
    http://sl.wus0.com/quclk.go?rd=http://www....nza%20affettiva



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    Ti piace Battiato, Davide? Saresti il primo ragazzo che incontro che lo dice. Tanti anni fa, in una scuola all’Idroscalo di Ostia, come compito in classe feci commentare i versi della canzone La cura. Non furono entusiasti della scelta, e mugugnarono come se avessi dato da commentare I Sepolcri di Foscolo. Miglior fortuna, in parte, ho avuto quest’anno, proponendo come ultimo compito in classe in V una vecchissima canzone di Violeta Parra, Gracias a la vida .
    L’incomunicabiltà fra generazioni è sempre più profonda perché non leggiamo gli stessi libri, non ascoltiamo la stessa musica, non conosciamo gli stessi film, non guardiamo gli stessi quadri, non viaggiamo allo stesso modo, non visitiamo gli stessi luoghi, non mangiamo più le stesse cose.
    L’inquietanza come tu la chiami dei giovani e dei giovanissimi a molti adulti penso sia abbastanza nota; ti do sicuramente ragione, però, quando dici che, per conoscere il vostro modo di essere di ragionare di porvi di fronte alle cose, oltre che libri di pedagogia, di psicologia, di docimologia e quant’altro, bisogna conoscere voi. Molti si mettono a parlare di problemi dei giovani senza mai averci avuto a che fare, senza mai averne incontrato uno in carne ed ossa, pensando che i giovani sono uguali a quelli di quando loro erano giovani Capisco quindi il tuo senso di estraneità e di insofferenza rispetto ad alcune analisi che vengono fatte o proposte all‘attenzione del pubblico. In qualche caso le condivido anche io, che giovane ovviamente non sono più da un pezzo. Di questi soloni che vengono a pontificare nelle scuole, ad esempio, me ne è toccato ascoltare diversi, nella mia carriera di insegnante. Se fossero stati per un paio di mesi nella mia II A igea dell’a.s. 2006/2007, ad esempio, se ne sarebbero corsi via a gambe levate con tutto il loro armamentario di pseudotecniche apprese dai libri. Soloni che non hanno mai messo piede in una scuola da quando loro ne sono usciti, che arrivano con le loro cartelline, i loro lucidi, le loro statistiche, i loro grafici, le loro fotocopie, soloni che prima hanno trasformato le scuole in aziende, condividendo magari la filosofia dei famigerati Progetti Qualità (oramai introdotti dappertutto, scuole, ospedali, poste, tribunali, ferrovie, industrie di mozzarelle di bufala...perché tutta la realtà è da gestirsi con i criteri di una azienda) e che poi ci vengono a dire come recuperare le fasce del disagio, della dispersione e dell‘abbandono scolastico. Profumatamente pagati, s’intende.
    Ma che di Alessio. un mio alunno che quest’anno se n’è andato dalla scuola pubblica per disperazione, come diresti tu, non ci capiscono un c***o.
    ciao
    Rossana



    LA CURA
    Franco Battiato


    Ti proteggerò dalle paure delle ipocondrie,
    dai turbamenti che da oggi incontrerai per la tua via.
    Dalle ingiustizie e dagli inganni del tuo tempo,
    dai fallimenti che per tua natura normalmente attirerai.

    Ti solleverò dai dolori e dai tuoi sbalzi d'umore,
    dalle ossessioni delle tue manie.

    Supererò le correnti gravitazionali,
    lo spazio e la luce per non farti invecchiare.

    E guarirai da tutte le malattie,
    perché sei un essere speciale,
    ed io, avrò cura di te.

    Vagavo per i campi del Tennessee
    (come vi ero arrivato, chissà).
    Non hai fiori bianchi per me?
    Più veloci di aquile i miei sogni
    attraversano il mare.

    Ti porterò soprattutto il silenzio e la pazienza.
    Percorreremo assieme le vie che portano all'essenza.
    I profumi d'amore inebrieranno i nostri corpi,
    la bonaccia d'agosto non calmerà i nostri sensi.

    Tesserò i tuoi capelli come trame di un canto.
    Conosco le leggi del mondo, e te ne farò dono.

    Supererò le correnti gravitazionali,
    lo spazio e la luce per non farti invecchiare.

    Ti salverò da ogni malinconia,
    perché sei un essere speciale ed io avrò cura di te ...
    Io sì, che avrò cura di te.


  10. .
    La Sardegna è stata per lunghi anni una terra a me molto cara. Lì ho iniziato la mia carriera di insegnante, con una breve supplenza in una scuola media di Orgosolo, il paese dei murales.
    Per chi desiderasse conoscere l’opera di narratori di quest’isola, continuo a proporre alcuni titoli da aggiungere a Mal di Pietre segnalato da star***:

    * Salvatore Satta, Il giorno del giudizio, Adelphi. Romanzo di insuperata bellezza, un affresco della Nuoro di fine Ottocento, con una chiusa splendida.

    * Sergio Atzeni, Passavamo sulla terra leggeri, Mondadori (ora edito -credo - da altri, io ho questa vecchia edizione. Ricordo che fui attratta dal titolo). Dal risguardo di copertina: “Scritto col passo, con le clausole e il tono del racconto epico... è difficile leggere senza commuoversi questo romanzo «antico», dominato da figure epiche e favolose, e scandito da un narrare che si sarebbe detto ormai perduto per sempre nelle epoche aurorali dell‘umanità, nei silenzi stupiti e solenni delle civiltà giovani”.

    * Salvatore Niffoi, La leggenda di Redenta Tiria, Adelphi.
    * Id., La vedova scalza, Adelphi.
    * Id., Il postino di Piracherfe, il Maestrale
    * Id., Cristolu, il Maestrale.

    Salvatore Satta è stato un grandissimo giurista. Il romanzo Il giorno del giudizio è uscito postumo.

    Sergio Atzeni, nato a Cagliari nel 1952, consegnò all’editore il manoscritto di Passavamo sulla terra leggeri una settimana prima di morire annegato in mare nell’isola di San Pietro, nel 1995. Il sito ufficiale che ricorda tutta la sua attività è http://www.sergioatzeni.it/

    Salvatore Niffoi è un insegnante di scuola media che vive e lavora nel suo paese, Orani, in provincia di Nuoro.


  11. .
    Perfezionista, Koenig43 ???
    Non preoccuparti, la scrittura al computer ha aumentato, per un qualche misterioso motivo, il numero degli errori ortografici e di battitura, in cui incorrono tutti, anche le persone più colte! Fino a quando io ho scritto esclusivamente con la penna stilografica (non molto tempo fa!!) non mi capitava proprio mai, da quando mi sono arresa alla modernità, riesco a produrre orrori ortografici (e non solo!!) anche io. Con grande godimento dei miei studenti... e non solo!! Per un po’ di tempo scoprire errori di italiano nei testi inviati al forum, ad esempio, mi ha gettato nel panico, e ho cercato di correre ai ripari correggendoli (estenuante lavoro di revisione revisione revisione e modifica modifica modifica...), alla fine mi sono arresa anche ai miei errori! Quasi sempre, ora, li lascio lì, così come sono sfuggiti all'ipercontrollo correttivo di una prof. d' Italiano.
    Ci si scusa di una colpa, un errore linguistico non lo è.

    Un saluto, naturalmente anche a felicsol, visto che ho impropriamente occupato il suo spazio di presentazione.
  12. .
    Sul tema del bisogno di appartenenza, tema “politico” per eccellenza, credo, nell’ambito della teoria struttural-dialettica, cedo la parola all’Autore, cui spetta di diritto, proponendo un brano dalla sua recensione al saggio di Duccio Demetrio, La vita schiva. Perché, come lui stesso ha scritto in Abracadabra e nell’Abbecedario “è bello dialogare con gli uomini grandi, che hanno sentito le nostre stesse cose, ma le esprimono meglio e ce le fanno capire”.

    p.s. Ieri pomeriggio alla Biblioteca Nazionale Centrale di Roma c’è stata la presentazione del saggio di Duccio Demetrio, cui ha partecipato anche il dott. Nicola Ghezzani. In un clima silenzioso e raccolto s’è parlato di timidezza, introversione, scrittura autobiografica... Tanti modi di declinare la parola «introversione». Ma in un’ «aria di famiglia»...
    p.p.s. il grassetto nel brano che riproduco è mio.

    « Una nuova programmazione sociale significa una riforma delle istituzioni pedagogiche sulla base di una concezione della natura umana affrancata dalla necessità di un ingabbiamento normativo (che produce cittadini adattati) e aperta al potenziale di differenziazione creativa che, sia pure in misura diversa, è implicito in ogni corredo genetico individuale.
    Certo, la possibilità di raggiungere uno statuto di equilibrio e di “saggezza” sul piano personale, che è l’obbiettivo proposto da Demetrio, si dà anche nel nostro mondo. Ma, posto che esso sia raggiunto, convivere con una sensibilità che restituisce inesorabilmente come penosa l’esistenza della maggioranza dei soggetti non è un bel vivere, tranne che non ci si chiuda nella torre d’avorio di un’esperienza elitaria. L’esperienza di Nietzsche, che si è cimentato su questo terreno, attesta che questa soluzione può essere addirittura pericolosa, almeno per gli introversi geniali.
    La disalienazione individuale non può prescindere da una persistente preoccupazione per lo stato di cose esistente nel mondo. Nessuna società, presumibilmente, sarà mai del tutto affrancata dalla necessità di un codice normativo e dall’esigenza che la maggioranza della popolazione si adatti ad esso senza metterne sistematicamente in discussione le norme, le regole e i valori e senza interrogarsi sul loro significato storico. Ciò non significa però che i codici normativi si equivalgano. Nulla vieta di pensare che un nuovo codice normativo possa promuovere, oltre all’adattamento all’esistente, una qualche attenzione al mondo interiore e al suo protendersi, in varia misura, verso una differenziazione personale che accresce il tasso di autenticità e riduce il conformismo passivo.
    La preoccupazione degli introversi per lo stato di cose esistente postula, risolti i problemi personali, la definizione di un progetto comune il cui obbiettivo, utopistico ma non dereistico, è e non può essere che una rivoluzione culturale, all’insegna del motto proverbiale per cui chi libera sè (e nella misura in cui si libera) libera gli altri.
    La LIDI, come noto, è nata con questo duplice intento. »
    (Luigi Anepeta, Recensione a Duccio Demetrio, La vita schiva, in www.nilalienum.it e www.legaintroversi.it)


  13. .
    Il testo della conferenza dell'11 maggio scorso è sicuramente assai bello e stimolante. In poche paginette l’ Autore racchiude la storia della specie umana, dall’ancestrale passato fino alle vertigini di un futuro tutto da costruire. Nel mezzo, noi, umani di oggi, casualmente introversi qui, oppure no, forse preferisco dire soltanto “noi umani”, dato che vedo in giro troppi che si arrabbattano ad urlare con tutto il fiato che hanno in gola IO IO IO, io introverso, io giovane, io donna, io artista, io alcolista, io genitore, io imprenditore, io psichiatra, io paziente, io matto, io studente, io docente...

    Essendo il testo fitto di considerazioni, molte le riflessioni (o forse solo vaghe intuizioni, per me, allo stato) e gli interrogativi che lo scritto suscita nei lettori. Per quel che mi riguarda, credo di aver colto nel testo della conferenza alcune risposte a questioni che mi ero posta in qualche mio intervento sul forum. Anche su questo aspetto la discussione potrebbe continuare (o meglio forse aprirsi...). Per me il problema, in questo particolare momento storico, sembra essere più quello di realizzare il bisogno di appartenenza, che non quello di individuazione. C'è dappertutto appunto la melmosa mucillagine...Come costruire una appartenenza sana, consapevole, libera, non fondata sulla paura? Se, d'altra parte, la paura di essere stati gettati nel mondo ha, alla fine, determinato nell'apparato mentale una dinamica persecutoria intrinseca, sembrerebbe che la paura dell'Altro, seppure è di origine storica, troverebbe comunque dove riversarsi ed attivarsi. Come sfuggire alla antropomorfizzazione anche di questa ancestrale Paura? Il Male, oggi, per un umano, può, come già diceva Leopardi, essere solo e soltanto quello che ci viene dalla nostra intrinseca condizione di esseri senzienti limitati? Come direbbe Luigi Anepeta, ecco che la giostra ricomincia e continua.
    Ma forse non v'è altro modo di risolvere il problema che attaccandolo dalla parte dell'individuazione. Ciascuno salvi sè. E salverà il mondo. Non è facile però accettare la massima. O realizzarla, senza incorrere nel rischio di limitarsi a curare, guicciardianamente parlando, il proprio “particulare”. Convinti magari che sia “l’universale”.
    Coltivare la propria Finitudine. Continuiamo a provarci...
    Rossana Ianni Palarchio

    Edited by rossanaianni - 17/5/2008, 10:09
  14. .
    Saper ascoltare non significa assecondare, accondiscendere. Quei miei ragazzi “fascisti” io sento di doverli ascoltare. Proprio perchè v’è stato quell’imbarbarimento del sentire comune, perchè v’è stata quella catastrofe etica e culturale, di cui io nella mia trincea scolastica quotidiana sono stata e sono testimone, purtroppo troppo spesso impotente, ma di cui la sinistra è corresponsabile, con la sua pochezza culturale, con la sua latitanza su questo piano da moltissimo tempo.
    La sinistra non rappresenta un’Italia migliore se dalle colonne dei suoi giornali continua a definire un «interprete dell’Italia subumana, rancorosa e mentalmente squadristica» Alemanno, se parafrasando il Vangelo si invitano i vincitori a un suicidio di massa, se, facendo la voce grossa dichiara che mai e poi mai dialogo vi sarà fra maggioranza e opposizione. Questo è l’azzeramento del discorso democratico. Tornino nelle fabbriche, nelle scuole, negli uffici, nei mercati a parlare con il popolo, i compagni. Tornino a studiare, a capire, a interpretare, invece di mostrare muscoli che non hanno più. Invece di lanciare proclami, che hanno l’efficacia delle grida manzoniane. Se nessuno dei miei ragazzi conosce più il significato dell’iscrizione di Piero Calamandrei che io da qualche anno sono tornata a far leggere soffermandomi sulle due parole ODIO e DIGNITÀ, qualche responsabilità vi sarà, credo.
    In diverse discussioni sul forum si è parlato dei sentimenti di rabbia, di rancore, si è parlato del disprezzo, che giustamente il dott. Anepeta ha definito un’emozione “fascista”. Troppa saccenza, a sinistra, troppi maestrini, a tutti i livelli, che danno lezioni di democrazia, antifascismo e via retorica andando, per starsene poi comodamente chiusi, nei loro salotti buoni, nelle loro redazioni molto colte, nei loro seminari molto ben frequentati, al riparo dal puzzo di popolo imbastardito da valori barbari; invochiamo una diversità antropologica rispetto agli altri che io non constato, nella vita quotidiana. È drammaticamente vero quello che un tempo le donne dicevano: “compagni in piazza, fascisti a letto“. Ma qui vale non solo per il sesso maschile, vale per tutta la sinistra. Dov’erano i compagni che oggi si stracciano le vesti quando a febbraio, nella mia scuola almeno, presumo in molte, è passata una circolare con cui si dava notizia (e allusivamente si invitano gli alunni a parteciparvi) di un convegno sulle foibe che si sarebbe tenuto al teatro Brancaccio, ed è circolato un giornalino di Blocco studentesco che fra le altre cose auspicava l’adozione del testo unico nelle scuole, oltre ad altre varie “amenità”, mentre la ricorrenza del giorno della Memoria per l’Olocausto è giustamente passata sotto silenzio? I compagni insegnanti erano tutti occupati a contare le ore dei corsi di recupero che si potevano fare, e il numero delle teste che a giugno bisogna far cadere, per regolare i propri conti e far quadrare qualche conto.
    Non sono una che si sbrodola in proprie lodi, ma io, in quella occasione, mi sono presa lo scritto di Blocco Studentesco, me lo sono letto per intero, sono entrata nella classe dei miei ragazzi di destra, e ho commentato quello scritto, e quella circolare, esponendomi quindi in prima persona, con tutta la passione civile e di parte di cui l’indignazione mi ha reso capace. Pare che sia stata una delle mie lezioni più belle degli ultimi tempi, che è riuscita a commuovere una classe in gran parte “fascista”.

    Per poter dire “Abbiamo lottato per chi c’era, per chi non c’era, ed anche per quelli che erano contro” bisogna avere tanta dignità, tanta onesta intellettuale, ma anche tanta umiltà. E non nutrire disprezzo per l’umanità, per gli uomini. Anche se dovessimo essere convinti che hanno sbagliato da 6000 anni a questa parte.
    Partigiani negli ideali che difendiamo, non di parte fra gli uomini.

    L’intervento di Sonia, che ringrazio per aver risposto al mio, solleciterebbe comunque tante altre riflessioni, ad esempio sul tema della rappresentanza degli interessi, del consenso, del rapporto fra minoranze e maggioranza, del dialogo in mancanza di reciprocità (magari anche per i diversi livelli di consapevolezza dei dialoganti), di cui né lo spazio di un intervento in un forum consente di parlare in modo adeguato, né io sarei capace di fare con una qualche competenza.
    Aspetto perciò di leggere gli articoli sulla crisi della democrazia in Nil Alienum.

    Buon Primo Maggio a tutti.
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    Un tempo, quando si voleva insabbiare una questione scomoda, in Parlamento si costituiva una Commissione d’Inchiesta su quella questione. Se ne parlava per anni anni e anni, e alla fine la questione era come scomparsa. Il linguaggio ha una qualità notevole, comunica, e tuttavia sa anche occultare. Ma, anche quando occulta, il linguaggio parla. Vi sono infatti silenzi assordanti. Scrivere teorie attorno ad ogni problema su cui inciampiamo nel nostro vivere quotidiano cela a volte la dolorosa realtà: quel problema rimane un problema irrisolvibile. Per almeno riportarlo dentro il nostro orizzonte di senso (magari anche per farvelo scomparire, tranquillizzandoci) cominciamo a catalogarlo, sezionarlo, analizzarlo, razionalizzarlo, formalizzarlo. Anepeta ci ha insegnato che questo è in fondo un bisogno viscerale che nasce dalla paura di precipitare nella confusione totale da cui, forse, emergemmo quando cominciammo a dare un nome alle cose, e, nominandole, esse furono a noi.
    La lunga e noiosa premessa per giustificare - e giustificarmi - la mia “gionta” a questa discussione, che inserendosi e continuando un discorso da altri avviato, è inevitabilmente, o forse necessariamente, “astratta”.

    Una concezione dualistica della natura umana, che sta alla base della teoria struttural-dialettica, presuppone l’esistenza del conflitto, che appare funzionale alla vitalità del meccanismo, del congegno, per dirla con la koiné del Capo! Lo stato di tensione fra le due nature è alla base di tutto l’ambaradam che ci tiene occupati per la maggior parte del nostro passaggio su questo pianeta. La paura che tutti provano quando si scatena un conflitto richiama forse il pericolo da cui bisogna guardarsi: il conflitto è vitale, ma anche mortale: al di sopra di una certa soglia è disfunzionale all’esistenza del gruppo, (o anche del singolo, se parliamo di conflitti interni di un soggetto) ma anche al di sotto di quella soglia si corre lo stesso pericolo. Il giocherello funziona su un equilibrio molto precario, che bisogna di volta in volta individuare con la maggiore approssimazione possibile. Il conflitto è necessario, per me. Un sano conflitto, che diventa vitale e creativo di equilibri ad un livello più alto, a patto che esso venga riconosciuto in quanto tale. Riconoscere l’esistenza di un conflitto, all’interno di una aggregazione sociale, quando si verifica, mi sembra il primo atto di onestà intellettuale. Personalmente, quando mi trovo fra persone adulte e con un po’ di esperienza di vita, provo sempre ad esplicitare i termini della questione, naturalmente dal mio punto di vista. Trovo francamente insopportabile, però, la sperimentata tecnica di lasciare l’avversario a parlare da solo, derubricando le sue posizioni a ridicole argomentazioni su cui non vale la pena perdere tempo. C’è una tolleranza che il buon Marcuse, in un famosissimo saggio del 1965 definì “repressiva”, che caratterizza questa “confortevole, levigata, ragionevole, democratica non-libertà”, tolleranza repressiva grazie alla quale il conflitto in realtà non si supera, semplicemente si sterilizza.
    «Aufhebung» è il termine hegeliano che indica il movimento dialettico, termine di difficile traduzione in italiano, mi si dice, e che credo Anepeta nei suoi scritti abbia reso con il verbo “sormontare” (mi corregga, naturalmente, se la supposizione è errata!). La negazione cioè non nullifica, non annienta, sempre qualcosa rimane, nel successivo assestamento di un movimento tellurico avvenuto in precedenza.
    Un conflitto nasce sempre da ragioni, variamente distribuite fra le parti in causa. Fra persone che abbiano raggiunto un certo grado di maturazione personale, io ho sempre pensato che di queste ragioni si potesse con trasparenza parlare, senza stare troppo a badare solo a sottigliezze, toni, espressioni un po' fuori le righe. Persone adulte un conflitto lo affrontano a viso aperto, senza tergiversazioni, secondo me. Si può anche rimanere fermi sulle proprie rispettive posizioni, che tuttavia, se confronto leale e reale v’è stato, non saranno comunque più le stesse identiche di prima. In ciò consiste l’arricchimento del movimento dialettico, questo per me significa sormontare un conflitto. V’è un conflitto nobile e dignitoso, anche se aspro, che io apprezzo e ritengo necessario, assai più di stanche e ripetitive concordanze, ottenute sottraendosi al confronto. Un conflitto che arricchisce, non immiserisce. E’ questo il conflitto che non scaturisce da logiche di potere, cui è così difficile sottrarsi, poiché facciamo dipendere la nostra identità da quelle logiche, ma che nasce dal naturale bisogno di “verità” (con lettera minuscola!!) su cui nessuno, come altri ha ricordato giustamente altrove su questo forum, può pretendere, però, di avere sempre l’ultima parola. Troppo spesso negli ultimi tempi questo mi è capitato di vedere. Fare come se nulla fosse stato penso non sia una buona soluzione, mai, né per un singolo soggetto e neppure per una aggregazione sociale che si riconosca in una qualche finalità comune. Far calare l’ombra del silenzio, sottraendosi al confronto, al dialogo, arretrando nell’anonimato incontattabile di una facile neutralità, ma sostanzialmente rimettendo sul tavolo comune, immutate e granitiche solamente le proprie ragioni, quasi a ribadire voce alta “Io ci sono e sono sempre Io“, a me sinceramente suona come un segno drammatico di debolezza.
    Un conflitto segnala che c’è un problema all’o.d.g. Può darsi che non vi sia cura, ma giungere almeno ad una accettabile diagnosi non mi sembra risultato da scartare. Bisognerebbe ascoltare i sintomi del malato, invece che stendere attorno a lui un cordone sanitario a protezione dei sani. Con una mozione d’ordine si può certo modificare l’ o.d.g. e parlare d’altro. Ma allora alla fine si parla di falsi bisogni, funzionali solo a ricompattare l’identità dell’aggregazione, che il conflitto sorto poteva mettere a rischio. Legittimamente, sia chiaro, si fa una tale scelta. Che io comprendo, anche se non condivido. Tuttavia dei fatti, delle scelte, delle difficoltà emerse bisognerebbe fare una analisi strutturale, dinamica, che comprenda in profondità cosa si agita nel ventre molle delle motivazioni, delle aspettative, delle concezioni ideologiche di cui sono portatori i singoli attori della vicenda sociale. Non per individuare colpevoli, ma per capire la realtà.
    Perché per quante mozioni d’ordine si facciano, “quel problema” evocato dal conflitto continua a chiedere di essere almeno analizzato, se non risolto.

    A scuola, quando la conflittualità si alza oltre un certo livello, i sindacati indicono un bello sciopero di venerdì, il rappresentante della RSU, nella bacheca sindacale fa, uscire un bel comunicato roboante, i dirigenti scolastici organizzano una piacevole occasione conviviale, a seguire o prima di un qualche Collegio docenti...Ma lo sappiamo tutti che non è cambiato nulla. E stancamente rimaniamo in attesa del prossimo sciopero, del prossimo comunicato sindacale, del prossimo collegio docenti con intrattenimento a precedere o seguire...

    Chi ha perso rifletta sulle ragioni della sconfitta, ma chi ha vinto oggi si chieda se non sia solo una vittoria di Pirro.

    p.s.
    Avevo scritto il mio intervento senza aver letto gli ultimi messaggi su Roma. Aggiungo, scusandomi allora per la lungaggine, due battute.
    Lo scoramento che leggo negli interventi relativi all’esito delle elezioni comunali a Roma naturalmente lo condivido. Ma in un ordinamento democratico la possibilità di essere battuti in una competizione elettorale deve essere prevista.
    Se siamo stati battuti, domandiamoci perché, piuttosto che dipingere gli avversari come “mostri” del tutto alieni da noi. Io non sono sorpresa di questo esito, perché tutti i miei ragazzi sono di destra e hanno votato a destra. Non sono tutti coattoni rozzi ignoranti e barbari. Noi non li abbiamo saputi ascoltare.

    Tutte le mie programmazioni scolastiche (che non so dove mai vadano a finire e chi mai le legga!) recano in epigrafe questa frase:
    “Una scuola laica è una scuola in cui non c’è mai nessuno che abbia ragione senza la possibilità o la probabilità che qualcun altro gli dia torto”.
    (Guido Calogero, «IL Mondo», 6 dicembre 1955)

    per rimanere o tornare alla visione dialettica della realtà, al conflitto, al suo superamento, nel riconoscimento anche delle ragioni degli altri.

24 replies since 24/7/2006
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