Fuga per la gloria - Seconda parte
Andrea Caracciolo da Cesano Boscone, con diploma di perito elettrotecnico e genitori meridionali, guardò oltre la linea della mezzeria e adottò l’attegiamento dello studente chiamato alla lavagna o, se preferite, di Robert De Niro in Taxi Driver: “Dici a me?”, puntandosi il dito medio contro il petto. Diego, con le mani sui fianchi, lo guardò come si fa con un bambino un po’ tonto e assentì, silenziosamente. L’Airone si voltò verso i suoi compagni in maglia verdeblù e disse: “Ragazzi, giochiamo un’amichevole contro l’Argentina dell’86”, come se fosse la dichiarazione più ovvia del mondo e l’equazione spazio/tempo qualcosa che non appartenesse a quella dimensione. Ed infatti non le apparteneva. Mentre Burruchaga terminava il suo riscaldamento ai flessori, senti chiamare ad alta voce dalla stanza accanto.
Gigi Riva era appoggiato alla base del palo, quello sinistro. Su quello destro, nella medesima posa di attesa, Enrico Albertosi. Rombo di Tuono aveva in bocca uno stelo d’erba, la luce al neon della stanza centrale, con la sua forza, sembrava un sole a mezzodì, senza averne il calore. Il bomber aveva gli occhi chiusi e immaginava, ricordava, rifletteva. Immaginava di essere al sole dell’Amsicora il 12 aprile del 1970, il giorno del primo, ed unico, scudetto del Cagliari. Il giorno più bello della sua vita? Chissà. La dicotomia tra il carattere schivo del leggiunese ed il calore naturale dell’isola era un mistero irrisolto. Aveva sentito le notizie della TV, il campo era piazzato lì vicino. Era preoccupato, ma non per lui, non per i suoi compagni di squadra. “In fin dei conti siamo miniature animate dall’estro e dalla fantasia dei nostri proprietari. Possiamo ammalarci solo nei loro sogni. Corriamo il rischio di romperci, ma la colla mette tutto a posto”. E già che lui si era rotto, sul serio. A quel pensiero il polpaccio e la caviglia destra iniziarono a prudergli, come il moncherino di un amputato. Ma, per fortuna, la gamba destra era attaccata al suo posto. Ricordava, però. Il 31 ottobre del 1970, il Prater di Vienna, il Cagliari già lanciato verso quello che sarebbe stato il secondo scudetto. Gigi quella partita con la maglia della Nazionale non avrebbe dovuto giocarla, così come il mediano difensivo Norbert Hof della nazionale austriaca. Ma il destino incrocia e fa scherzi, a volte molto amari. Incrocia un tecnico tedesco che veicola un virus in Italia di ritorno dalla Cina. Pensate che beffa. Incrocia due giocatori con tasso di “sapere” calcistico agli antipodi, ed il più scarso frattura il perone del più forte. Il giorno più brutto della sua vita? Chissà. Riva scacciò quel pensiero con la mano, come ad allontanare un insetto in quell’ambiente asettico che non ne conteneva. Rifletteva. Rifletteva di come la sua squadra, dopo cinquant’anni, avesse finalmente trovato una guida all’altezza, un tecnico che, in punta di dita, sapeva spingere quelle miniature oltre le paure e che alimentava un sogno contenuto nei numeri, nella cabala. Era ora di chiudere un cerchio, riportare il tricolore a Cagliari, e quel mister (Il Freddo lo chiamavano), che li faceva allenare come ossessi tutti i giorni, ne aveva la forza. Era capace, nonostante i cinque scudetti consecutivi in altre formazioni, di avere ancora “fame”, di sognare le casacche bianche sotto la curva non più dell’Amsicora ma della “Sardegna arena” ad abbracciare il popolo di quella che era una nazione nella nazione. Quando potremo tornare ad abbracciarci, senza paura. A risvegliarlo fu la voce di Angelo Domenghini che urlava verso la porta dell’altra stanza chiedendo cosa succedesse. “Ehi, dell’altra stanza, che passa?”. Fu Burruchaga, come detto, a rispondere: “Qui sono scomparsi tutti, ci hanno lasciato in campo”. Domenghini di rimando: “E che cosa pensate di fare?”. Il “Burru”, ironicamente: “Cosa vuoi che facciamo? Giochiamo!”
Riva, che aveva sentito il colloquio, si sollevò appoggiandosi al palo, trotterellò verso il centrocampo. Di fronte vide Giampiero Boniperti, impeccabile nei suoi boccoli biondi e con l’immancabile fazzoletto a detergersi il sudore del riscaldamento. Alle spalle del futuro presidente della Juventus, la maglia bianconera extralarge del gallese Charles e i calzettoni arrotolati di Omar Sivori. “Avete sentito anche voi?”, chiese Riva. “Sì”, rispose preoccupato Boniperti. “Cosa ne dite di un’amichevole?”, fece il cagliaritano. Boniperti si voltò e fissò negli occhi i due compagni di squadra, senza proferire parola. El Cabezòn sollevò con una magia la palla di cuoio che aveva tra i piedi e la scaraventò nella porzione di campo occupata dal Cagliari. “Ganamos cabras”…
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