| Punta Abreojos
Il programma del nuovo giorno prevedeva una puntata alla laguna di San Ignacio, per andare a vedere le balene, che di solito si radunano in quella zona, per le ragioni più disparate: l’accoppiamento, la gestazione, l’addestramento dei balenotteri e, più in generale, la cura dei cavoli loro. Cosa che sempre meno riuscivano a fare, perché c’era sempre qualcuno, come noi in quel caso, che andava a infastidirle. Ma quella volta il mare era particolarmente rognoso, tanto da impedirci di entrare nella laguna. Tornammo al punto di partenza e cominciammo a fare qualcosa di utile, tipo riparare il pilota automatico, il tostapane, le guarnizioni di qualche oblò e così via. Jim, invece, fece calare uno dei gommoni in acqua e con Jack, andò verso la punta che delimitava la baia a sud, con l’obbiettivo di catturare un cucciolo di foca, per addestrarlo come …guardiano dell’Osprey! Naturalmente, il risultato di tale ambizioso progetto, fu che delle foche si presero solo le pernacchie! Per combattere il mal di mare, qualcuno aveva portato a bordo dei cerotti che andavano applicati dietro l’orecchio. Lì rilasciavano una sostanza, la scopolamina, che serviva a debellare l’odioso malore, dovuto al moto ondoso. Tutti noi avevamo tale cerotto appiccicato dietro il lobo dell’orecchio e, per quanto mi è dato ricordare, funzionava senza dare l’effetto indesiderato della sonnolenza. Appena fu possibile, prendemmo il largo per andare a Thetis Bank, la secca favolosa a largo di Bahia Magdalena, dove l’anno prima avevo sparato allo squalo martello,che mi aveva preso per uno stuzzichino per la sua dieta proteica. Quando arrivammo, c’erano alcune barche da pesca, ma impiegammo due ore buone a trovare il punto più basso della secca, a 13 braccia, circa 22 metri. Quel giorno, a causa dei postumi del raffreddore, non mi sentivo particolarmente in forma, così decisi di immergermi con l’ARA e la Nikonos. Thetis Bank era, ma non penso sia cambiata moltissimo, un vero acquario. La prima volta che ci andai ero in apnea, una visibilità eccezionale mi permetteva di vedere il fondo, ma non mi dava la possibilità di distinguere quello che vi nuotava. Oltre le risalite, al di là dei cigli, correvano larghi canaloni. In quel punto la profondità era oltre i 27 metri, perciò mi dovevo immergere a mezz’acqua per avere un’idea di che cosa dovevo aspettarmi. Solo arrivando a una ventina di metri, capii che il fondo grigio più in basso nei canali e che sembrava in movimento, effettivamente si spostava perché era costituito da centinaia di squali martello che nuotavano lentamente, come fosse una processione di paese che segue la statua della Madonna. Come dicevo, scesi con l’autorespiratore, ma il senso di disagio aumentò quando mi accorsi che non vedevo le cifre dei vari strumenti che mi portavo appresso. Conseguentemente, non sapevo che invece di essere a 40 metri ero a 50 e ignoravo anche quanto tempo stessi passando là sotto. Lì, infatti, c’erano non so quante cernie di dimensioni bovine, la cui vista contribuì ulteriormente a farmi perdere la cognizione temporale. Scattai con il flash parecchie foto, prima di decidere di risalire, sempre ignaro dello svolgimento reale dell’immersione. Una volta in superficie, scoppiò il casino. Mi ero appena tolto il monobombola, che Jim mi chiese, con gli occhi fuori dalla testa, di passarglielo. Capii che voleva fare un altro po’di decompressione e, senza indugi, glielo consegnai. Uscii dall’acqua e mi resi conto che ero solo! Tutti gli altri erano immersi a smaltire azoto. Cacchio, che stava succedendo? Un improvviso senso di “coscienza sporca”mi suggerì di fare altrettanto, così afferrai una bombola e, tenendola sotto un braccio, mi rituffai per raggiungere i miei compagni. Rimasi a -3 metri per venti minuti. Alla fine tornai in barca per trovare una compilation di facce da funerale, ma non funerale normale. No! Funerale da strage! Tutti quelli che erano andati in acqua, pensavano di essere sul punto di beccarsi un’embolia. Consultavano freneticamente le varie tabelle di decompressione per convincersi di aver fatto tutto per bene, ma con una gagliarda coda di paglia di aver fatto qualche fesseria. E riuscirono a contagiare anche me, che non mi sentivo per niente sicuro della regolarità della mia immersione. Passarono lunghi, interminabili minuti, durante i quali immaginavamo formicolii in tutto il corpo, tachicardie, travisamenti della vista: insomma ce la stavamo facendo sotto! Però il tempo passava e vere “stranezze”non si manifestarono. Piano, piano le facce lunghe tornarono normali e la preoccupazione svanì. Eravamo resuscitati, perciò ricominciammo a fare caciara come e più del solito! Ho accennato all’uso dei cerotti medicati applicati dietro le orecchie per combattere il mal di mare. Avevamo avuto la leggerezza di non leggere le controindicazioni del farmaco, tra le quali c’era quella non proprio trascurabile che la scopolamina poteva abbassare la vista. A noi l’aveva abbassata a tutti e c’era andata pure bene! Verso sera, con la benedizione di un mare finalmente tranquillo, mettemmo la prua a sud, in direzione di Socorro. Era il 7 dicembre. La navigazione durò un po’ più di due giorni, durante i quali ci alternammo giorno e notte ai soliti noiosi turni di guardia, subimmo svariate avarie, delle quali la più seria fu quella del motore, che si rifiutò di funzionare per più di un giorno. Alquanto preoccupante. Anche perché eravamo in una parte di oceano molto poco battuta, tanto che non incontrammo mai nessuna altra nave o peschereccio. Per buona sorte avevamo il vento in poppa, anzi rimediammo anche uno scroscio di pioggia di breve durata del tutto inopinato così, tanto per gradire. Socorro è la base di partenza di tutti gli uragani che investono il Messico, dalla parte del Pacifico, ma questo di solito succede ad agosto e settembre. Comunque trovarci in mezzo al nulla, con il motore in panne, investiti da un improvviso acquazzone, non ci induceva al massimo dell’ottimismo. Ma ai tropici la pioggia arriva all’improvviso e altrettanto rapidamente finisce, restituendo al sole e al cielo l’azzurro e lo spazio temporaneamente sottratti. Il vento ci consentiva una velocità di 5 nodi, però intanto eravamo arrivati in vista di San Benedicto. In lontananza, solo un’ombra, si notava la grande sagoma di Socorro. Mentre osservavamo l’isola, udimmo, ormai insperati, due colpi di tosse di Mr. Caterpillar, che poi si schiarì il vocione e finalmente partì con il più desiderato dei monologhi. Che gioia: sembrava scongiurato il pericolo di dover arrancare a vela, per il resto della vacanza, verso il porto più vicino. Ci dirigemmo a tutta velocità verso San Benedicto, dove fummo accolti da una gran moltitudine di gabbiani e di sule. Ci ancorammo in una baia riparata, mettemmo in acqua i due Avon e ci preparammo ad andare a pescare, al massimo dell’emozione. Dick ed io, sul più piccolo dei due gommoni, andammo a sinistra. Gli altri si diressero a destra. Non avevamo la più pallida idea di cosa poteva aspettarci, ma speravamo di trovare qualcosa di “mostruosamente eccezionale”! La cosa eccezionale era la visibilità dell’acqua: non meno di quaranta metri! Pesci, non grandi, ma di una curiosità commovente. Un carangide di un paio di chili, con una livrea bruna, si grattava i fianchi, passando e ripassando, sulla punta dell’arpione del mio fucile. Beata incoscienza! Poco dopo arrivò una “palometa”( una specie di leccia stella) di sei chili. Beh, roba più grossa non ce n’era, l’ora di cena si avvicinava, così sparai. Quella partì come una matta, iniziando un carosello impensabile per violenza e determinazione, tanto da farmi faticare le proverbiali camicie, prima di poterla attaccare al pallone. Intervenne Dick a suggerire che dopo quella girandola di vibrazioni e spargimenti di sangue, fosse meglio defilarci, perché da quelle parti gli squali, oltre a essere numerosi, erano pure grossi. Per di più eravamo al tramonto, momento dedicato da quei predoni al pasto: dopo quel casino era igienico non rischiare. Rientrammo alla base quasi contemporaneamente agli altri, che ci dissero di aver visto uno squalo martello di cinque metri, ma non avevano avuto problemi. Capirai… La serata passò tra un racconto e l’altro relativi alle impressioni su quel luogo che tanto avevamo sognato. Purtroppo non avevamo un programma preciso su che cosa fare o dove andare, per ottimizzare le prossime uscite in mare. Non c’era stato modo di incontrare qualcuno che fosse andato in quell’arcipelago prima di noi. Forse Cousteau, ma chi lo conosceva? Poi in questi casi è sempre difficilissimo avere delle indicazioni attendibili. Avevamo parlato con degli studenti dell’Istituto oceanografico Scripps, ma non eravamo riusciti ad ottenere altro che degli strabuzzamenti oculari quando avevamo detto che eravamo andati in questo o in quell’altro posto, perché ci confessarono che loro non c’erano mai stati! Tornammo alla realtà quando Steve ci disse che il compressore si era rotto. Che palle! Meno male che ce n’era un altro. Il giorno dopo salpammo alle sei per coprire le 25 miglia che ci separavano da Socorro. Man mano che ci avvicinavamo, l’isola si mostrava in tutta la sua maestosità. Era completamente diversa da come la immaginavo: pensavo di trovare un isolone tetro, di colore scuro, invece era verdissima, molto alta, ricordava Marettimo. Sotto costa c’erano diversi faraglioni e la pietra era decisamente scura. I fondali degradavano subito sui 20 metri e oltre, con un fondale di pietroni grigi come avevo visto l’anno prima a Stintino e all’Asinara. Ormeggiammo in una cala riparata dal vento e subito vedemmo, a non più di cinquanta metri da noi, una pinnaccia che volteggiava pigramente. “Cominciamo bene!”pensai. Ma mi sbagliavo. Era una manta enorme, che tranquilla girava e rigirava, avanti e indietro. Classico esempio di chi sta a casa sua e si fa gli affari propri! Passò tutta la mattina così, concedendosi agli scatti delle Nikonos e a un’estemporanea sottomissione a fare da mezzo di trasporto per Dick e il sottoscritto, che dopo alcuni tentativi, leggi grattamenti e carezze sul groppone, eravamo riusciti a salirle sulle “ali”. Solo perché eravamo in apnea, la cavalcata durò pochi secondi. Più che infastidita, sembrava disorientata: dovemmo abbandonare quell’affascinante creatura, a causa della nostra modesta autonomia sottomarina. Dio che esperienza! Poco più tardi ebbi un motivo di invidia nei confronti dei miei compagni, perché non ero riuscito a entrare in acqua in tempo per poter assistere a un carosello di delfini in vena di confidenze, tanto che tra fischi e squittii, si fecero addirittura accarezzare la groppa dai sub immersi. Elegantemente, come erano apparsi, così si dileguarono. Quando entrai in acqua, trovai un’ottima visibilità e una clamorosa concentrazione di pesci. Moltissimi carangidi curiosi come scimmie, poi uno yellow tail ( tipo ricciola), al quale sparai, mancandolo vergognosamente. Un enorme formazione di jureles (carangidi), che Dick fece avvicinare con un aspetto a mezz’acqua, ma senza sparare, forse perché ritenuti poco apprezzabili in cucina. Più in basso nuotavano delle grosse palometas sui 10 chili ma, ancora una volta, nessuno sparò. Credo che sotto, sotto tutti noi “sentissimo” la presenza di qualche squalo famelico, cosa che sconsigliava di iniziare una belligeranza pericolosa. In effetti trovammo uno squalo, ma giaceva mortissimo sul fondale sabbioso. La mia prima capovolta coincise con un dolore lancinante ai seni frontali, fastidio che da due anni mi stava rovinando il piacere delle immersioni in apnea. Era talmente forte, che mi toccò compensare anche in superficie. Comunque, una volta in gommone, mi ritrovai in buona compagnia: Dick aveva il raffreddore, George non compensava con un orecchio e Tony aveva il mal di schiena! Era senz’altro meglio tornare sull’Osprey. Lì trovammo il resto della compagnia che si stava preparando a un’uscita in grande stile: bombole, fucili, telecamera, macchine fotografiche e, insomma tutto l’occorrente per importanti imprese. Quasi tutto: dopo 5 minuti dalla concitata partenza, dovettero rientrare perché avevano dimenticato gli erogatori. Un dettaglio! Dopo un’oretta ci richiamarono, preoccupatissimi, perché non trovavano più Jim. Per fortuna lo recuperarono prima che la nostra squadra di soccorso li raggiungesse. A parte tutte le diapositive che avevano scattato e i chilometri di pellicola che avevano girato, quando rientrarono avevano sul gommone 29 aragoste, una cerniotta e una sogliola. Le giornate cominciavano la mattina presto. Alle sei e mezza eravamo tutti in movimento: c’era chi preparava la colazione, chi metteva in ordine i fucili e i relativi sagoloni e chi faceva rifornimento di carburante per i gommoni. Qualcun altro riempiva le bombole d’aria compressa e c’era chi si occupava delle macchine fotografiche. Eravamo otto subacquei e di attrezzatura ne avevamo tanta. Oltre a occupare molto spazio, c’era il problema che si mischiavano pinne, maschere, erogatori, cinte di zavorra, coltelli, mute, insomma chi pratica questo sport conosce il problema derivante dalla promiscuità in barca. Perciò la mattina c’era sempre un mucchio di cose da fare. Nonostante la buona volontà a muoverci con una certa organizzazione, riuscivamo sempre a incappare in inconvenienti di diversa natura. Forse questo era dovuto alla frenesia di andare a scoprire quel mondo sommerso e all’impazienza, una volta terminata l’immersione, di vedere i filmati o di fotografare o pesare i pesci catturati. Capitò più volte che un gommone partisse a tutta birra, senza che si fosse controllato che tutti gli occupanti fossero risaliti a bordo. Una volta io e Jack risalimmo da un’immersione con l’ARA e non trovammo nessuno ad aspettarci. Questo causò al mio compagno un attacco di panico che non riuscii in nessun modo a mitigare. Jack vedeva squali dappertutto, pensava di annegare a ogni pinneggiata e temeva che la corrente (che non c’era !) se lo sarebbe portato in Cile. Impiegammo più di un’ora a raggiungere gli altri e fu una bella faticata, perché avevamo gli autorespiratori (vuoti) che ci limitavano nei movimenti, più le macchine fotografiche. Ancora sento le urla di Jack che cercava di attirare l’attenzione di qualcuno senza esito. Dovemmo coprire la distanza che ci separava dal gommone più vicino, per intero. Una volta a bordo, Jack si abbandonò a un’ imbarazzante crisi di pianto. Socorro dovette assistere anche a questo. Mah!! Volevamo vedere, scoprire il più possibile, perciò se non trovavamo subito qualcosa di notevole, rimontavamo sui canotti e via, di corsa, verso un altro posto. La presenza più continua era costituita dalle mantas: ne trovavamo ovunque, alcune veramente enormi. E quasi tutti provammo l’ebbrezza della “cavalcata” sul dorso del “diavolo di mare”. Mai nome fu più infelice, per un animale di una mansuetudine impareggiabile. Pensare che nel libro di Gianni Roghi, “Dahlak: l’avventura della felicità”, c’è un capitolo dedicato alla cattura di uno di questi selaci da parte di Raimondo Bucher: stendiamo un telone pietoso e non fatemi parlare. Tra una corsa e l’altra in gommone, quasi ci inseguisse un diavolo vero, doppiammo Cape Rule e arrivammo in vista di Braithwaite Bay, dove era situata la base militare con annessa stazione meteorologica. Si trattava di poche case di legno, qualche serbatoio di carburante, alcune antenne radio, una banchina di attracco, una strada che si inerpicava e si perdeva dietro una collina…mamma mia! Non doveva essere divertente la vita da quelle parti. Ci ributtammo in acqua, ma anche lì niente di eclatante: il mostro non voleva farsi vedere. Rimontammo sui canotti e ingaggiammo una corsa per raggiungere l’Osprey, che nel frattempo ci aveva superato ed era ormeggiato in una cala riparata. Facemmo il punto della situazione, che non era incoraggiante, considerando che pesci grandi non ce n’erano. Decidemmo di dedicarci alla fotografia con ARA ai pesci di barriera e loro habitat. Sai che palle! Ma dovevamo accontentarci, per forza, di quello che c’era. Passammo quaranta minuti a riprendere pesciotti colorati, con l’unica variante di un incontro con qualche decina di aragoste intanate e l’incavolatura per il mio flash che non…flashava! Ma fu un’esperienza per provare la telecamera Sony Betamax. Quando tornammo a bordo, non ci levammo neanche le mute, per andare a vedere la cassetta registrata sul televisore: ci sorbimmo 40 minuti di pallosissima immersione, che naturalmente a noi sembrò di una vivacità e di un pathos incredibili! La sera avemmo qualche problema con la cucina ( elettrica ), che non funzionava a causa di un’avaria di un generatore, cosa che ci costrinse a cenare piuttosto tardi e a farci andare a dormire un po’ incazzati. Il 12 dicembre tornammo allo scoglio dove avevamo incontrato i delfini, ma un mare proibitivo ci costrinse a prendere foto solo da fuori. Poi andammo in un punto dove le onde erano più permissive e chi trovammo? Una manta, un vero gigante: aveva due remore sulla schiena che avranno pesato 5 chili l’una. L’apertura… pinnale era, senza esagerare di almeno 4 metri. Ci furono terribili minacce da parte di Jim, che voleva filmare la scena e temeva che potessimo spaventare quella placida creatura: chi si fosse buttato in acqua prima di lui, sarebbe tornato in Messico a nuoto; chi avesse fatto fuggire la manta, non avrebbe avuto la cena o, nel caso di Jay, il gelato. Si seguitava a scherzare, per camuffare l’emozione. Poi ci immergemmo. Al solito l’animale si avvicinò curiosa: era imponente, con un nuoto tranquillo e armonioso muoveva le sue smisurate ali come un gabbiano sottomarino. Jim riprendeva metri e metri di pellicola. Io scesi sui 20 metri e incontrai un branco di Jureles che volteggiavano intorno a un panettone di roccia liscia che si ergeva dal fondo. Mi giravano intorno, probabilmente domandandosi perplessi, chi fosse questo “animale”, avvolto in mille bolle rumorose.
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