PescaSub & Apnea

I racconti del Mammut

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Seriol Killer 645
view post Posted on 10/11/2011, 17:42




CITAZIONE (Corallaro @ 10/11/2011, 11:59) 
Certo, che é impossibile solo pensare di ripercorrere questi itinerari ai giorni d'oggi .

Si avrebbe la quasi certezza di essere sequestrati dai pirati .


:bye1.gif: :bye1.gif:

niente pirati e, volendo, non sarebbe neanche difficile arrivarci, perchè da San Diego organizzano charter, per pescasub e per bombolari. Credo che oggi le Revillagigedo siano un parco marino: sono considerate le Galapagos messicane.
Ci sono tantissimi posti inimmaginabili sul Pacifico, a largo della costa della Baja California. Ma ci vuole un'ottima organizzazione, perchè si sta lontano da tutto e anche un semplice mal di denti può diventare una tragedia. Poi ci sono gli squali, quelli veri, quelli che nuotano dietro ai tonni, anche quelli veri, animaloni dal quintale in su. Se tanto mi da tanto, pensate a quanto sono grossi i vari squali bianchi, gli smerigli e i tigre. Questi ultimi rari... :fisch.gif:
 
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KiraLaGuerriera
view post Posted on 10/11/2011, 22:17




a ferdino!! come andamo???!! niente piu racconti?
poi per quella cosa là .. fammi sape' eh? ;)

smack
 
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Seriol Killer 645
view post Posted on 11/11/2011, 09:49




Punta Abreojos

Il programma del nuovo giorno prevedeva una puntata alla laguna di San Ignacio, per andare a vedere le balene, che di solito si radunano in quella zona, per le ragioni più disparate: l’accoppiamento, la gestazione, l’addestramento dei balenotteri e, più in generale, la cura dei cavoli loro. Cosa che sempre meno riuscivano a fare, perché c’era sempre qualcuno, come noi in quel caso, che andava a infastidirle. Ma quella volta il mare era particolarmente rognoso, tanto da impedirci di entrare nella laguna. Tornammo al punto di partenza e cominciammo a fare qualcosa di utile, tipo riparare il pilota automatico, il tostapane, le guarnizioni di qualche oblò e così via.
Jim, invece, fece calare uno dei gommoni in acqua e con Jack, andò verso la punta che delimitava la baia a sud, con l’obbiettivo di catturare un cucciolo di foca, per addestrarlo come …guardiano dell’Osprey!
Naturalmente, il risultato di tale ambizioso progetto, fu che delle foche si presero solo le pernacchie!
Per combattere il mal di mare, qualcuno aveva portato a bordo dei cerotti che andavano applicati dietro l’orecchio. Lì rilasciavano una sostanza, la scopolamina, che serviva a debellare l’odioso malore, dovuto al moto ondoso. Tutti noi avevamo tale cerotto appiccicato dietro il lobo dell’orecchio e, per quanto mi è dato ricordare, funzionava senza dare l’effetto indesiderato della sonnolenza.
Appena fu possibile, prendemmo il largo per andare a Thetis Bank, la secca favolosa a largo di Bahia Magdalena, dove l’anno prima avevo sparato allo squalo martello,che mi aveva preso per uno stuzzichino per la sua dieta proteica.
Quando arrivammo, c’erano alcune barche da pesca, ma impiegammo due ore buone a trovare il punto più basso della secca, a 13 braccia, circa 22 metri. Quel giorno, a causa dei postumi del raffreddore, non mi sentivo particolarmente in forma, così decisi di immergermi con l’ARA e la Nikonos.
Thetis Bank era, ma non penso sia cambiata moltissimo, un vero acquario. La prima volta che ci andai ero in apnea, una visibilità eccezionale mi permetteva di vedere il fondo, ma non mi dava la possibilità di distinguere quello che vi nuotava. Oltre le risalite, al di là dei cigli, correvano larghi canaloni. In quel punto la profondità era oltre i 27 metri, perciò mi dovevo immergere a mezz’acqua per avere un’idea di che cosa dovevo aspettarmi. Solo arrivando a una ventina di metri, capii che il fondo grigio più in basso nei canali e che sembrava in movimento, effettivamente si spostava perché era costituito da centinaia di squali martello che nuotavano lentamente, come fosse una processione di paese che segue la statua della Madonna.
Come dicevo, scesi con l’autorespiratore, ma il senso di disagio aumentò quando mi accorsi che non vedevo le cifre dei vari strumenti che mi portavo appresso. Conseguentemente, non sapevo che invece di essere a 40 metri ero a 50 e ignoravo anche quanto tempo stessi passando là sotto. Lì, infatti, c’erano non so quante cernie di dimensioni bovine, la cui vista contribuì ulteriormente a farmi perdere la cognizione temporale. Scattai con il flash parecchie foto, prima di decidere di risalire, sempre ignaro dello svolgimento reale dell’immersione. Una volta in superficie, scoppiò il casino.
Mi ero appena tolto il monobombola, che Jim mi chiese, con gli occhi fuori dalla testa, di passarglielo. Capii che voleva fare un altro po’di decompressione e, senza indugi, glielo consegnai.
Uscii dall’acqua e mi resi conto che ero solo! Tutti gli altri erano immersi a smaltire azoto. Cacchio, che stava succedendo?
Un improvviso senso di “coscienza sporca”mi suggerì di fare altrettanto, così afferrai una bombola e, tenendola sotto un braccio, mi rituffai per raggiungere i miei compagni. Rimasi a -3 metri per venti minuti.
Alla fine tornai in barca per trovare una compilation di facce da funerale, ma non funerale normale. No! Funerale da strage! Tutti quelli che erano andati in acqua, pensavano di essere sul punto di beccarsi un’embolia. Consultavano freneticamente le varie tabelle di decompressione per convincersi di aver fatto tutto per bene, ma con una gagliarda coda di paglia di aver fatto qualche fesseria. E riuscirono a contagiare anche me, che non mi sentivo per niente sicuro della regolarità della mia immersione.
Passarono lunghi, interminabili minuti, durante i quali immaginavamo formicolii in tutto il corpo, tachicardie, travisamenti della vista: insomma ce la stavamo facendo sotto! Però il tempo passava e vere “stranezze”non si manifestarono. Piano, piano le facce lunghe tornarono normali e la preoccupazione svanì. Eravamo resuscitati, perciò ricominciammo a fare caciara come e più del solito!
Ho accennato all’uso dei cerotti medicati applicati dietro le orecchie per combattere il mal di mare. Avevamo avuto la leggerezza di non leggere le controindicazioni del farmaco, tra le quali c’era quella non proprio trascurabile che la scopolamina poteva abbassare la vista.
A noi l’aveva abbassata a tutti e c’era andata pure bene!
Verso sera, con la benedizione di un mare finalmente tranquillo, mettemmo la prua a sud, in direzione di Socorro. Era il 7 dicembre.
La navigazione durò un po’ più di due giorni, durante i quali ci alternammo giorno e notte ai soliti noiosi turni di guardia, subimmo svariate avarie, delle quali la più seria fu quella del motore, che si rifiutò di funzionare per più di un giorno. Alquanto preoccupante. Anche perché eravamo in una parte di oceano molto poco battuta, tanto che non incontrammo mai nessuna altra nave o peschereccio.
Per buona sorte avevamo il vento in poppa, anzi rimediammo anche uno scroscio di pioggia di breve durata del tutto inopinato così, tanto per gradire.
Socorro è la base di partenza di tutti gli uragani che investono il Messico, dalla parte del Pacifico, ma questo di solito succede ad agosto e settembre. Comunque trovarci in mezzo al nulla, con il motore in panne, investiti da un improvviso acquazzone, non ci induceva al massimo dell’ottimismo.
Ma ai tropici la pioggia arriva all’improvviso e altrettanto rapidamente finisce, restituendo al sole e al cielo l’azzurro e lo spazio temporaneamente sottratti. Il vento ci consentiva una velocità di 5 nodi, però intanto eravamo arrivati in vista di San Benedicto. In lontananza, solo un’ombra, si notava la grande sagoma di Socorro.
Mentre osservavamo l’isola, udimmo, ormai insperati, due colpi di tosse di Mr. Caterpillar, che poi si schiarì il vocione e finalmente partì con il più desiderato dei monologhi. Che gioia: sembrava scongiurato il pericolo di dover arrancare a vela, per il resto della vacanza, verso il porto più vicino.
Ci dirigemmo a tutta velocità verso San Benedicto, dove fummo accolti da una gran moltitudine di gabbiani e di sule. Ci ancorammo in una baia riparata, mettemmo in acqua i due Avon e ci preparammo ad andare a pescare, al massimo dell’emozione. Dick ed io, sul più piccolo dei due gommoni, andammo a sinistra. Gli altri si diressero a destra. Non avevamo la più pallida idea di cosa poteva aspettarci, ma speravamo di trovare qualcosa di “mostruosamente eccezionale”!
La cosa eccezionale era la visibilità dell’acqua: non meno di quaranta metri! Pesci, non grandi, ma di una curiosità commovente. Un carangide di un paio di chili, con una livrea bruna, si grattava i fianchi, passando e ripassando, sulla punta dell’arpione del mio fucile. Beata incoscienza!
Poco dopo arrivò una “palometa”( una specie di leccia stella) di sei chili. Beh, roba più grossa non ce n’era, l’ora di cena si avvicinava, così sparai. Quella partì come una matta, iniziando un carosello impensabile per violenza e determinazione, tanto da farmi faticare le proverbiali camicie, prima di poterla attaccare al pallone. Intervenne Dick a suggerire che dopo quella girandola di vibrazioni e spargimenti di sangue, fosse meglio defilarci, perché da quelle parti gli squali, oltre a essere numerosi, erano pure grossi. Per di più eravamo al tramonto, momento dedicato da quei predoni al pasto: dopo quel casino era igienico non rischiare.
Rientrammo alla base quasi contemporaneamente agli altri, che ci dissero di aver visto uno squalo martello di cinque metri, ma non avevano avuto problemi. Capirai…
La serata passò tra un racconto e l’altro relativi alle impressioni su quel luogo che tanto avevamo sognato. Purtroppo non avevamo un programma preciso su che cosa fare o dove andare, per ottimizzare le prossime uscite in mare. Non c’era stato modo di incontrare qualcuno che fosse andato in quell’arcipelago prima di noi. Forse Cousteau, ma chi lo conosceva? Poi in questi casi è sempre difficilissimo avere delle indicazioni attendibili. Avevamo parlato con degli studenti dell’Istituto oceanografico Scripps, ma non eravamo riusciti ad ottenere altro che degli strabuzzamenti oculari quando avevamo detto che eravamo andati in questo o in quell’altro posto, perché ci confessarono che loro non c’erano mai stati!
Tornammo alla realtà quando Steve ci disse che il compressore si era rotto. Che palle! Meno male che ce n’era un altro.
Il giorno dopo salpammo alle sei per coprire le 25 miglia che ci separavano da Socorro.
Man mano che ci avvicinavamo, l’isola si mostrava in tutta la sua maestosità. Era completamente diversa da come la immaginavo: pensavo di trovare un isolone tetro, di colore scuro, invece era verdissima, molto alta, ricordava Marettimo. Sotto costa c’erano diversi faraglioni e la pietra era decisamente scura. I fondali degradavano subito sui 20 metri e oltre, con un fondale di pietroni grigi come avevo visto l’anno prima a Stintino e all’Asinara.
Ormeggiammo in una cala riparata dal vento e subito vedemmo, a non più di cinquanta metri da noi, una pinnaccia che volteggiava pigramente. “Cominciamo bene!”pensai. Ma mi sbagliavo. Era una manta enorme, che tranquilla girava e rigirava, avanti e indietro. Classico esempio di chi sta a casa sua e si fa gli affari propri! Passò tutta la mattina così, concedendosi agli scatti delle Nikonos e a un’estemporanea sottomissione a fare da mezzo di trasporto per Dick e il sottoscritto, che dopo alcuni tentativi, leggi grattamenti e carezze sul groppone, eravamo riusciti a salirle sulle “ali”. Solo perché eravamo in apnea, la cavalcata durò pochi secondi. Più che infastidita, sembrava disorientata: dovemmo abbandonare quell’affascinante creatura, a causa della nostra modesta autonomia sottomarina. Dio che esperienza!
Poco più tardi ebbi un motivo di invidia nei confronti dei miei compagni, perché non ero riuscito a entrare in acqua in tempo per poter assistere a un carosello di delfini in vena di confidenze, tanto che tra fischi e squittii, si fecero addirittura accarezzare la groppa dai sub immersi. Elegantemente, come erano apparsi, così si dileguarono.
Quando entrai in acqua, trovai un’ottima visibilità e una clamorosa concentrazione di pesci. Moltissimi carangidi curiosi come scimmie, poi uno yellow tail ( tipo ricciola), al quale sparai, mancandolo vergognosamente. Un enorme formazione di jureles (carangidi), che Dick fece avvicinare con un aspetto a mezz’acqua, ma senza sparare, forse perché ritenuti poco apprezzabili in cucina. Più in basso nuotavano delle grosse palometas sui 10 chili ma, ancora una volta, nessuno sparò. Credo che sotto, sotto tutti noi “sentissimo” la presenza di qualche squalo famelico, cosa che sconsigliava di iniziare una belligeranza pericolosa. In effetti trovammo uno squalo, ma giaceva mortissimo sul fondale sabbioso.
La mia prima capovolta coincise con un dolore lancinante ai seni frontali, fastidio che da due anni mi stava rovinando il piacere delle immersioni in apnea. Era talmente forte, che mi toccò compensare anche in superficie. Comunque, una volta in gommone, mi ritrovai in buona compagnia: Dick aveva il raffreddore, George non compensava con un orecchio e Tony aveva il mal di schiena! Era senz’altro meglio tornare sull’Osprey. Lì trovammo il resto della compagnia che si stava preparando a un’uscita in grande stile: bombole, fucili, telecamera, macchine fotografiche e, insomma tutto l’occorrente per importanti imprese. Quasi tutto: dopo 5 minuti dalla concitata partenza, dovettero rientrare perché avevano dimenticato gli erogatori. Un dettaglio! Dopo un’oretta ci richiamarono, preoccupatissimi, perché non trovavano più Jim. Per fortuna lo recuperarono prima che la nostra squadra di soccorso li raggiungesse. A parte tutte le diapositive che avevano scattato e i chilometri di pellicola che avevano girato, quando rientrarono avevano sul gommone 29 aragoste, una cerniotta e una sogliola.
Le giornate cominciavano la mattina presto. Alle sei e mezza eravamo tutti in movimento: c’era chi preparava la colazione, chi metteva in ordine i fucili e i relativi sagoloni e chi faceva rifornimento di carburante per i gommoni. Qualcun altro riempiva le bombole d’aria compressa e c’era chi si occupava delle macchine fotografiche. Eravamo otto subacquei e di attrezzatura ne avevamo tanta. Oltre a occupare molto spazio, c’era il problema che si mischiavano pinne, maschere, erogatori, cinte di zavorra, coltelli, mute, insomma chi pratica questo sport conosce il problema derivante dalla promiscuità in barca. Perciò la mattina c’era sempre un mucchio di cose da fare.
Nonostante la buona volontà a muoverci con una certa organizzazione, riuscivamo sempre a incappare in inconvenienti di diversa natura. Forse questo era dovuto alla frenesia di andare a scoprire quel mondo sommerso e all’impazienza, una volta terminata l’immersione, di vedere i filmati o di fotografare o pesare i pesci catturati.
Capitò più volte che un gommone partisse a tutta birra, senza che si fosse controllato che tutti gli occupanti fossero risaliti a bordo. Una volta io e Jack risalimmo da un’immersione con l’ARA e non trovammo nessuno ad aspettarci. Questo causò al mio compagno un attacco di panico che non riuscii in nessun modo a mitigare. Jack vedeva squali dappertutto, pensava di annegare a ogni pinneggiata e temeva che la corrente (che non c’era !) se lo sarebbe portato in Cile. Impiegammo più di un’ora a raggiungere gli altri e fu una bella faticata, perché avevamo gli autorespiratori (vuoti) che ci limitavano nei movimenti, più le macchine fotografiche. Ancora sento le urla di Jack che cercava di attirare l’attenzione di qualcuno senza esito. Dovemmo coprire la distanza che ci separava dal gommone più vicino, per intero. Una volta a bordo, Jack si abbandonò a un’ imbarazzante crisi di pianto. Socorro dovette assistere anche a questo. Mah!!
Volevamo vedere, scoprire il più possibile, perciò se non trovavamo subito qualcosa di notevole, rimontavamo sui canotti e via, di corsa, verso un altro posto. La presenza più continua era costituita dalle mantas: ne trovavamo ovunque, alcune veramente enormi. E quasi tutti provammo l’ebbrezza della “cavalcata” sul dorso del “diavolo di mare”. Mai nome fu più infelice, per un animale di una mansuetudine impareggiabile. Pensare che nel libro di Gianni Roghi, “Dahlak: l’avventura della felicità”, c’è un capitolo dedicato alla cattura di uno di questi selaci da parte di Raimondo Bucher: stendiamo un telone pietoso e non fatemi parlare.
Tra una corsa e l’altra in gommone, quasi ci inseguisse un diavolo vero, doppiammo Cape Rule e arrivammo in vista di Braithwaite Bay, dove era situata la base militare con annessa stazione meteorologica.
Si trattava di poche case di legno, qualche serbatoio di carburante, alcune antenne radio, una banchina di attracco, una strada che si inerpicava e si perdeva dietro una collina…mamma mia! Non doveva essere divertente la vita da quelle parti.
Ci ributtammo in acqua, ma anche lì niente di eclatante: il mostro non voleva farsi vedere.
Rimontammo sui canotti e ingaggiammo una corsa per raggiungere l’Osprey, che nel frattempo ci aveva superato ed era ormeggiato in una cala riparata. Facemmo il punto della situazione, che non era incoraggiante, considerando che pesci grandi non ce n’erano. Decidemmo di dedicarci alla fotografia con ARA ai pesci di barriera e loro habitat. Sai che palle! Ma dovevamo accontentarci, per forza, di quello che c’era. Passammo quaranta minuti a riprendere pesciotti colorati, con l’unica variante di un incontro con qualche decina di aragoste intanate e l’incavolatura per il mio flash che non…flashava! Ma fu un’esperienza per provare la telecamera Sony Betamax. Quando tornammo a bordo, non ci levammo neanche le mute, per andare a vedere la cassetta registrata sul televisore: ci sorbimmo 40 minuti di pallosissima immersione, che naturalmente a noi sembrò di una vivacità e di un pathos incredibili!
La sera avemmo qualche problema con la cucina ( elettrica ), che non funzionava a causa di un’avaria di un generatore, cosa che ci costrinse a cenare piuttosto tardi e a farci andare a dormire un po’ incazzati.
Il 12 dicembre tornammo allo scoglio dove avevamo incontrato i delfini, ma un mare proibitivo ci costrinse a prendere foto solo da fuori. Poi andammo in un punto dove le onde erano più permissive e chi trovammo? Una manta, un vero gigante: aveva due remore sulla schiena che avranno pesato 5 chili l’una. L’apertura… pinnale era, senza esagerare di almeno 4 metri.
Ci furono terribili minacce da parte di Jim, che voleva filmare la scena e temeva che potessimo spaventare quella placida creatura: chi si fosse buttato in acqua prima di lui, sarebbe tornato in Messico a nuoto; chi avesse fatto fuggire la manta, non avrebbe avuto la cena o, nel caso di Jay, il gelato. Si seguitava a scherzare, per camuffare l’emozione. Poi ci immergemmo. Al solito l’animale si avvicinò curiosa: era imponente, con un nuoto tranquillo e armonioso muoveva le sue smisurate ali come un gabbiano sottomarino. Jim riprendeva metri e metri di pellicola. Io scesi sui 20 metri e incontrai un branco di Jureles che volteggiavano intorno a un panettone di roccia liscia che si ergeva dal fondo. Mi giravano intorno, probabilmente domandandosi perplessi, chi fosse questo “animale”, avvolto in mille bolle rumorose.

 
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view post Posted on 11/11/2011, 10:38
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Spigolaro

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CITAZIONE (Seriol Killer 645 @ 10/11/2011, 17:42) 
CITAZIONE (Corallaro @ 10/11/2011, 11:59) 
Certo, che é impossibile solo pensare di ripercorrere questi itinerari ai giorni d'oggi .

Si avrebbe la quasi certezza di essere sequestrati dai pirati .


:bye1.gif: :bye1.gif:

niente pirati e, volendo, non sarebbe neanche difficile arrivarci, perchè da San Diego organizzano charter, per pescasub e per bombolari. Credo che oggi le Revillagigedo siano un parco marino: sono considerate le Galapagos messicane.
Ci sono tantissimi posti inimmaginabili sul Pacifico, a largo della costa della Baja California. Ma ci vuole un'ottima organizzazione, perchè si sta lontano da tutto e anche un semplice mal di denti può diventare una tragedia. Poi ci sono gli squali, quelli veri, quelli che nuotano dietro ai tonni, anche quelli veri, animaloni dal quintale in su. Se tanto mi da tanto, pensate a quanto sono grossi i vari squali bianchi, gli smerigli e i tigre. Questi ultimi rari... :fisch.gif:

Mi riferivo ad escursioni narrate precedentemente (Sudan, ecc.)

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Seriol Killer 645
view post Posted on 16/11/2011, 09:43




Socorro

Risalito a una quota di una dozzina di metri, vidi una coppia di grandi testuggini che mi veniva incontro. Probabilmente non mi avevano visto, perché giunte a pochi metri, schizzarono via sorprese e spaventate dalla mia ingombrante presenza.
In pratica le varie escursioni sottomarine che facemmo a Socorro, non ci diedero mai quella emozione superlativa che ci aspettavamo. Chi era stato lì prima di noi ci aveva parlato di incontri da sogno, o da incubo secondo i punti di vista. Ma per esperienza diretta, devo dire che oltre e più di quello che ho raccontato non abbiamo visto. Con i chiari di luna dei nostri giorni, sfido chiunque a non mettere una firma per rivivere anche la metà di quelle esperienze.
Ma noi aspiranti avventurosi, anche un po’ incoscienti, non ci accontentiamo facilmente.
Erano più di dieci giorni che non mettevamo un piede a terra, così se il mare ci era sembrato un po’ avaro di esaltanti sorprese, intraprendemmo lo sbarco sull’isola di Socorro in cerca, sulla terra ferma, di chissà quale scossa emotiva da poter raccontare, filmare e, forse, mangiare!
Venimmo accolti da una tribù di grossi granchi, che fuggivano sì, terrorizzati, ma lo facevano galoppando irriguardosamente sui nostri piedi scalzi. Ed, essendo letteralmente centinaia, lo zampettìo sulle nostre indifese estremità, era alquanto inquietante. Lasciammo la sabbia e i suoi abitanti e cominciammo ad arrampicarci. Come dicevo, l’isola era tutta verde, a causa di una fitta ragnatela di bassa vegetazione, che allignava ovunque a quattro centimetri dal suolo lavico. La cosa rendeva difficoltoso camminarci sopra, perché la lava spesso cedeva sotto il peso dei nostri passi, come fosse pane secco. A perdita d’occhio davanti a noi era tutto così: terreno collinoso verde, che si interrompeva in prossimità del blu dell’oceano. Scendemmo dove c’erano delle mangrovie e vi incontrammo dei bellicosi e aggressivi granchi rossi, che ci sfidavano con le chele minacciosamente sollevate verso di noi. Ci trovavamo a una trentina di metri sul livello del mare: tutto intorno a quelle piante, c’era solo lava e non capivamo da dove arrivasse l’acqua che le alimentava.
Come sempre facemmo un sacco di foto, tutte di natura botanica. Poi tornammo alla spiaggia dove ci aspettava Steve. Tony, Jim e George preferirono evitare la scarpinata e i granchi rossi e si buttarono in acqua dall’alto delle rocce, come se si trovassero in un film di Spielberg.
Una volta a bordo eravamo tutti pervasi da una curiosa allegria, il che mi incoraggiò a mettermi ai fornelli per cucinare dei rigatoni all’amatriciana. A Socorro!!
Mangiammo anche il gelato e, a proposito di Spielberg, vedemmo “ I predatori dell’arca perduta”.
Andammo a nanna presto, perché il giorno dopo ci dovevamo alzare di buon’ora per andare a San Benedicto.
L’indomani, salpata l’ancora alle prime luci del giorno, navigammo con un frizzante mare di prua, per raggiungere dopo un paio d’ore l’isola. Questa con la sua mole ci proteggeva dal vento e dalle onde. Navigavamo a un centinaio di metri dalla costa, quando sentimmo partire un mulinello di una delle lenze a traina. Poi subito un altro e un altro ancora. Ci fu un caotico e affannoso correre a impadronirsi delle canne, prima che volassero in mare. Dick fu il primo a mettere a bordo un bel tonno di una quindicina di chili. Ne arrivarono altri, insieme a dei wahoos, che evidentemente nuotavano insieme per spartirsi una prima colazione, che avevano pazientemente radunato nelle ore precedenti . In cielo i gabbiani si alternavano nei tuffi, su una invisibile mangianza che, nuotando disperatamente per fuggire a quelle fauci implacabili, increspava la superficie del mare. Per tutti venne il turno di lottare e di mettere a paiolo un pesce. Tranne che per me: era ancora vivo il ricordo di una volta precedente, in cui in una situazione analoga, al volo, mi venne fatta indossare una cintura da combattimento, per cercare di tirare in coperta un marlin recalcitrante. La cintura mi stava larga, la canna mi pesava sui “paesi bassi”,che venivano per di più brutalizzati dagli strattoni del pesce. Morale della favola, dopo pochi minuti di tortura, lasciai la gloria di quella cattura a qualcun altro con più panza ed evitai di sottopormi in seguito a tale rischio di evirazione.
Fu quello un raro caso di rinuncia a un pesce grosso, per salvarne uno molto più piccolo..!
Ma, facezie a parte, qualcuno si ricordò che eravamo subacquei e che la lenza non era il nostro attrezzo di elezione, per cui venne calato in mare un gommone e in fretta e furia tutti i sub, tranne io, ci si imbarcarono, per andare a cercare gloria sott’acqua. Gloria, appunto.
La ragione per cui mi defilavo, era il sospetto che in cima a quella catena alimentare non fossero tonni e wahoos, ma qualche personaggio poco gradito e raccomandabile. La conferma di questa mia sensazione, arrivò dieci minuti dopo che i cacciatori si erano buttati in acqua. Qualcuno gridò “shark !” e questo non si era mai sentito prima. E sì che di squali, durante le nostre immersioni, ne avevamo visti letteralmente a centinaia, anche tutti insieme! :o:





 
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view post Posted on 16/11/2011, 17:32
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Big Denticiaro

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M E N C H I A ..... :woot: :woot: :woot:
 
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mazzooo
view post Posted on 17/11/2011, 09:03




che spettacolo!!!!!
 
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maria766
view post Posted on 17/11/2011, 12:40




Magnifico come sempre!!!!!! Altro che banale......
Grande Ferdi!!
 
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KiraLaGuerriera
view post Posted on 17/11/2011, 13:41




CITAZIONE (BONGI77 @ 16/11/2011, 17:32) 
M E N C H I A ..... :woot: :woot: :woot:

E aggiung :woot: :woot: :clapping.gif: :clapping.gif: :clapping.gif: iamo pure sti cazzz. ..

Spettac :wub: olo come sempre
 
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Seriol Killer 645
view post Posted on 21/11/2011, 14:11




San Benedicto


Steve, al timone dell’Avon, partì a razzo verso Jim che aveva urlato. Si trattava di un centinaio di metri, da coprire nel più breve tempo possibile. Anche con l’Osprey ci dirigevamo verso di lui. Gli altri in acqua non capivano bene cosa stesse succedendo. Il nostro amico aveva sparato, lo capivamo avendo visto il fucile galleggiare vicino alla sua spalla. Era quindi disarmato. Steve intanto era arrivato e, intelligentemente, fece un giro stretto intorno a Jim, per far capire a chiunque avesse avuto cattive intenzioni, che c’era uno più grosso, molto minaccioso, a giudicare dal rumore, con cui avrebbe dovuto fare i conti. Questa, più o meno, era l’intenzione del messaggio inviato allo squalo, che evidentemente funzionò, perché il nostro amico venne recuperato tutto intero, qualche secondo dopo. Nel giro di pochi attimi, anche gli altri vennero tirati in barca e ricondotti sullo yacht.
Non vi dico le facce! Erano quelle di chi aveva avuto un incontro ravvicinatissimo con uno squalo bianco, come in effetti era successo.
Jim raccontò che era sceso a sparare un wahoo e, una volta premuto il grilletto e lasciato il pesce che fuggiva trafitto dall’asta attaccata al pallone, mentre stava risalendo si vide venire incontro un mostro grande come una limousine, che aveva cominciato a girargli intorno. Lui, con il fucile scarico, lo aveva fronteggiato con la forza della disperazione, dandogli pure due colpi con la testata dell’arma su un fianco. Poi il rumore del motore che si avvicinava, aveva momentaneamente dissuaso la belva dal definire l’attacco. Steve ci disse che, una volta Jim a bordo, il carcarino era tornato e di fianco al gommone non aveva per niente sfigurato in quanto a dimensioni. E parliamo di un canotto di più di cinque metri! Gli amici che erano in acqua, avevano visto il “bianco”solo da lontano, ma tanto era bastato loro.
Pensare di fare qualche altra immersione con quel cliente dal muso a punta, era cosa da dimenticare. Jim era stato fortunato, perché lo squalo era rimasto perplesso dalla sua presenza, che probabilmente non aveva riconosciuto come creatura marina e voleva sincerarsi di cosa fosse, nuotandogli intorno lentamente. Essendo gli squali bianchi una specie che quando si tratta di mangiare non vanno tanto per il sottile, evidentemente quello già doveva aver fatto il pieno di tonni e wahoos per concedere una chance di salvezza al nostro amico.
L’idea che ci venne fu di montare la gabbia anti squalo e di appenderla fuori bordo, per poter riprendere il bestione, da una posizione di sicurezza.
Detto, fatto. O meglio: impiegammo più di mezz’ora per venire a capo del montaggio di quell’attrezzo. Nel frattempo buttavamo in mare pezzi di pesce sanguinolenti, per tenere l’amico nei dintorni.
La gabbia montata sembrava leggerina per fungere da protezione da quella specie di sottomarino cannibale. Francamente io non ci sarei entrato nemmeno pagato e dagli sguardi scambiati con gli altri, non traspariva quell’entusiasmo di essere tra i prescelti per fare una tale esperienza.
La fortuna volle che il grande “morte bianca”,così come era arrivato, altrettanto improvvisamente era evaporato. Per me tutta quella storia poteva finire lì.
Scesi sottocoperta, tirai fuori dei bicchieri, preparai alcune salse, tagliai del pane a fette e filettai il più piccolo dei tonni catturati a traina. Notata questa mia iniziativa, arrivò anche Jay a darmi una mano e in pochi minuti un sontuoso carpaccio venne portato in coperta, per essere distribuito e apprezzato da tutti. Jim tirò fuori dal frigo qualche bottiglia di Dom Perignon, così, forse per grazia ricevuta!
Avevamo scandagliato gran parte dei fondali delle due isole principali di quell’arcipelago sperduto e sconosciuto e, anche se le aspettative erano state disattese, vuoi per ragioni meteorologiche, vuoi per scarsa conoscenza dei posti più interessanti, avevamo vissuto emozioni fantastiche.
Mai avremmo dimenticato la “cavalcata” della manta o l’incontro con il grande squalo bianco. Per non parlare dei tonni e dei carangidi e, perché no? anche dei granchi rossi che volevano difendere il loro territorio.
Riprendemmo la navigazione verso nord: era venuto il momento di rientrare. La destinazione era Cabo San Lucas, da dove saremmo tornati a San Diego con l’aereo di Jim che portava altri ospiti che avrebbero preso il nostro posto a bordo dell’Osprey, per una gita mondano-squallido-scic.
Passai qualche giorno in quella splendida città e, tra l’altro, ebbi il tempo di far sviluppare le diapositive di quella crociera, che già sembrava lontanissima.
In aereo guardavo e riguardavo le foto e stentavo a credere che fossi stato proprio io l’attore di un simile viaggio, io Ferdi Giorgetti da Sacrofano!!
Fino a qualche anno prima era stato solo un grande sogno, ma mi ero così dedicato a immaginarmi un modo per poterlo realizzare, che alla fine Qualcuno lassù deve aver pensato che fosse meglio accontentarmi, per non sentire più sbattere le mie ali a vuoto! ;)




 
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azzeccagarbugli
view post Posted on 22/11/2011, 09:11




bellissimo racconto, complimenti!!
 
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mazzooo
view post Posted on 22/11/2011, 09:40




bellissimo!
 
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KiraLaGuerriera
view post Posted on 22/11/2011, 09:47




Chi l'ha dura prima o poi la vince. ....Parola di donna testarda combattiva e orgogliosa!
e tu arriverai a far tutto. ..Ora il prox passo é pubblicar il libro. ..Autografato per i tuoi fan! ;)

baci
 
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maria766
view post Posted on 25/11/2011, 20:31




Ferdi sono qua, continuo a leggerti.....
Un saluto di cuore!!!!


@Per la guerriera!! Un abbraccio grande Saretta!!!!
 
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Seriol Killer 645
view post Posted on 25/11/2011, 23:39




CITAZIONE (maria766 @ 25/11/2011, 20:31) 
Un Ferdi sono qua, continuo a leggerti.....
saluto di cuore!!!!


@Per la guerriera!! Un abbraccio grande Saretta!!!!

Grazie x la tenacia.
A giorni dovrebbero darmi un dvd con le diapositive del Mar Rosso.
Spero di farvi vedere qualcosa. Anche queste dovrebbero andare nel famoso libro.
Tieni duro!... ;)
 
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524 replies since 15/5/2010, 23:16   17601 views
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