Sabato 23 febbraio Great Hanish
Alcuni di noi preferirono, dopo la cena sulla spiaggia, rimanere a dormire a terra. Quindi l’ondata maggiore di sabbia doveva ancora arrivare. Aspettavo fiducioso…
Svolgemmo alcune operazioni di riassetto della cucina, riordinammo il pozzetto, cercammo di ripulire dalla sabbia i locali sottocoperta, insomma volevamo rendere vivibile e decorosa la barca che ultimamente era stata un po’ maltrattata.
A metà mattinata tornò il gommone, così potemmo andare a pescare. Scegliemmo una punta riparata a trecento metri da dove ci trovavamo, ma non ci piacque, quindi tornammo nel punto in cui eravamo stati il giorno prima. Fuori il mare era sempre molto mosso, lì invece, era calmo e senza corrente.
Mi buttai e ricominciai a fare la posta, nella speranza di ritrovare i red snappers. Ce n’erano più numerosi e più grandi. Anche alcuni branchi di carangidi, non enormi, nuotavano avanti e indietro.
I soliti squali, facevano la loro fugace apparizione, per poi tornare dietro le quinte, in attesa di qualche evento per loro interessante. Trovammo e prendemmo tre aragoste, ci avrebbero fatto comodo per la cena. Subito dopo fu la volta di due snappers, sparati da me e da Bob all’aspetto. Bei bestioni di una decina di chili. Un gigantesco barracuda mi passò appena fuori tiro e risultò lontano anche per Bob, che aveva tentato di intercettarlo. Arrivò uno squalo curioso, che si fece un giretto e se ne andò elegantemente, senza fretta. Io avevo fatto diversi aspetti ed ero un po’ stanco, così mi avvicinai alla costa dell’isolotto, su un fondale di non più di cinque metri.
Notai con la coda dell’occhio qualcosa alla mia destra. Mi voltai e rimasi a bocca aperta al passaggio di una quindicina di cefaloni di proporzioni enormi.
Io seguito a chiamarli “cefaloni”, ma è corretto dar loro il nome vero, che è milk fish o, per gli amanti della precisione scientifica, Chanos chanos.
Comunque li vogliamo chiamare, passavano sempre come treni, a distanza di super sicurezza, senza degnarti della minima attenzione. Mi dissi di stare più attento, perché se fossi stato più concentrato, chissà…E mentre così pensavo, venni superato, questa volta sulla sinistra, da un altro branco di questi pesci. Non ebbi neanche il tempo di spostare il fucile, che erano fuori vista. Mi rammaricai, perché non li aveva visti nessuno. Che rabbia!
Passammo tre ore tra un avvistamento e l’altro. L’ultimo riguardò dei barracuda, mai visti così grandi, ma non ci fu verso di portarli a tiro. Poteva sembrare che stessimo perdendo tempo, ma in realtà le emozioni si succedevano incessantemente. Quella ricchezza di fauna era dovuta alla vicinanza dello stretto di Bab el Mandeb, che immetteva nel Mar Rosso le acque dell’Oceano Indiano. E, secondo le mie aspettative, il massimo delle libidini subacquee, lo avremmo trovato nell’arcipelago dei Sette Fratelli: le acque più ricche di creature marine di tutto il mondo!
Quando dovemmo uscire dall’acqua per tornare a bordo, lo facemmo con un certo rammarico, perché lasciammo una situazione entusiasmante, per trovarne una deprimente. Evidentemente gli strascichi fumantini della serata precedente, ancora non si erano sopiti. In più dovevamo risparmiare carburante, che tradotto in termini pratici, significava limitare a due ore al giorno l’uso del gruppo elettrogeno, con la conseguenza di non poter cucinare, non avere ghiaccio, di avere poca pressione dell’acqua per lavarci e così via.
In più ogni dieci minuti si rompeva qualcosa: una volta il desalinizzatore, un’altra il pilota automatico, poi toccava al timone o a qualche verricello, seguivano le avarie di un gabinetto o del navigatore satellitare, per non parlare di radio e sonar. Tutto ciò non serviva a rasserenare gli animi, specialmente quelli di chi era abituato a comodità indiscusse e che non accettava il fatto di trovarsi in posti dimenticati da Dio, dove si doveva confrontare con la natura, che non concede molto alla poca sostanza artificiale di apparecchi che funzionano solo con l’elettricità.
Era un peccato non apprezzare quei posti, unici e meravigliosi, proprio perché erano lontani dalla cosiddetta civiltà. Per questa ragione avevo legato con qualcuno e meno con altri. Quando Ahmed se n’era andato, avevo perso un grande compagno di scorribande subacquee. Con il suo “good” “no good” ci intendevamo perfettamente, non avevamo bisogno di altro.
A quel punto, purtroppo, si era rotto qualcosa. Probabilmente la convivenza “forzata” di tanti individui in uno spazio ristretto come una barca, aveva causato degli attriti che io alleviavo rifugiandomi in mare. L’unico guaio era che non ci potevo restare ventiquattro ore, perciò i periodi a secco, cercando di evitare questo o quello, erano abbastanza spiacevoli.
Tra un’avaria e l’altra, riuscimmo a tornare in acqua, per giocare con squalotti pinna bianca che si erano mostrati un tantino sfacciati, avvicinandosi troppo a noi. Li tenevamo lontani, pungendoli sui fianchi con la punta dell’arpione. A uno tirai perfino la coda: mai vidi fuggire un pesce così velocemente in vita mia! Anche se non sparammo un colpo, quell’immersione andò ad aggiungersi a tutti gli entusiasmanti ricordi vissuti fino allora. Non sapevo, in quel momento, che sarebbe stata l’ultima avventura in acqua di tutto il viaggio.
Mentre eravamo in acqua, altre barche erano arrivate per ripararsi dal mare mosso: una francese, una tedesca, una neozelandese e un’altra americana. Dovendo partire, non fraternizzammo. Il tempo di aggiustare un fanale di via che si era rotto e alle nove salpammo. Fuori il mare era ancora ostico, agitato da un vento che soffiava e fischiava a quaranta nodi.
Dopo il mio turno di guardia al timone, raggiunsi la mia cuccetta. Era tutta bagnata, un vero piacere!. Mi spostai sotto quella di Peter, che era solo piena di sabbia…
Quando mi svegliai, Jim e Nancy stavano terminando il loro turno. Feci colazione e presi io il timone. Mi sciroppai quasi quattro ore alla guida dell’Osprey. Incrociammo molte navi russe, provenienti dall’isola di Perim o dai porti dello Yemen del sud. Mi si accesero le speranze di trovare un passaggio verso Suez su uno di quei cargo, dato che presto sarei dovuto sbarcare.
Con un mare sempre gagliardo, ci avvicinavamo alle isole dei Sette Fratelli, che rappresentavano un po’ la ragione di tutto quel viaggio. Di posti superlativi, ne avevamo visti tanti, però per arrivare ai Seven Brothers avevamo rinunciato ad andare a vedere il relitto dell’Umbria, non ci eravamo immersi alle Dahlak e non ci eravamo fermati alle Farasan né a Suakin, tutti posti celebratissimi i cui nomi erano rimbombati per anni nelle nostre orecchie e nel nostro immaginario attraverso i racconti mirabolanti, raccolti in libri e documentari, dai pionieri della subacquea mondiale, quali Hans Hass e il comandante Cousteau.
Ora finalmente ci avvicinavamo al clou di tutta la crociera, le isole che pochissimi conoscevano e delle quali si conosceva quasi nulla. Sapevamo solo che una fauna marina senza paragoni nei sette mari, vi nuotava, favorita dalla combinazione dell’incontro delle acque ricche di nutrimento del Mar Rosso e dell’Oceano Indiano. Mentre ero assorto in questi pensieri, alimentati per mesi dalle fantasie di chi stava per realizzare il suo sogno, arrivò Jim che mi disse che non avevamo tempo per fare quella fermata. Patatrac!!!Mi cadde l’universo sulla testa. Quella assurda decisione mi tolse qualsiasi voglia di reagire. Ero annichilito, non si poteva essere così ottusi.
Pensate a un turista che arriva in Vaticano e non può visitare i Musei, perché non c’è tempo! Da non credere. L’apoteosi di tutte le possibili fregature in un viaggio, che difficilmente ci sarà dato ripetere.
Eravamo a non più di un miglio dall’Ile Grande, quando si ruppe definitivamente il timone. Sembrava una punizione per non aver dato la dovuta considerazione a quel paradiso.
Quell’ultima, in ordine di tempo, avaria, venne presa con favore da qualcuno a bordo, qualcuno orfano di Prada e di altre irrinunciabili meraviglie del vero saper vivere. Ero così avvilito, che mi rifugiai nella mia cuccetta e non parlai con nessuno fino al giorno seguente.
La mia crociera in Mar Rosso era terminata.
Per me restava la formalità di tornare in Italia. In un primo momento avevo pensato di trovare un passaggio su qualche mercantile in rotta verso Port Said. Poi decisi di seguire Bob e George, che avevano rimediato un aereo per Il Cairo.
Anche quel viaggio fu un’avventura.
Gibuti era un protettorato francese, con tanto di flotta militare in porto. Noi vi eravamo entrati alla…deriva.
Senza motore a causa della mancanza di gasolio, con il timone azionato da quattro persone, tirando due cime, una a destra e l’altra a sinistra; con la vela appena ammainata, per non speronare a tutta velocità un incrociatore francese ormeggiato di fianco al molo. Riuscimmo solo ad “appoggiarci” all’unità da guerra e fu una fortuna se non provocammo danni. A parte quelli morali, a noi, perché facemmo una figura…!
Nell’attesa dell’aereo, passammo un paio di giorni ad osservare le varie attività portuali. Piccoli pescherecci, qualche mercantile, le navi da guerra, ma quello che non potrò dimenticare, era una nave yemenita, che caricava bovini con una tecnologia molto particolare.
C’erano dei portuali, mi si passi il termine eufemistico, che riunivano quattro vacche alla volta, le legavano con un cappio intorno alle corna e le facevano issare a bordo con una gru. Potete immaginare il terrore di quelle povere bestie, che, una volta a mezz’aria, reagivano nell’unico modo che rimaneva loro, sciogliendosi, cioè, in una diarrea liberatoria di puro panico sulla testa di chi le aveva legate pochi attimi prima.
Questa operazione andò avanti per tutta la mattina, dato che ci saranno stati duecento capi da issare a bordo. La puzza si sprecava e alla fine non si sapeva se fossero più infelici i bovini o chi li stava caricando.
L’aeroporto era una gabbia di matti: tutti coloro che dovevano partire, sembrava fossero in fuga da qualche guerra. C’erano due pastori con una trentina di capre…in sala d’attesa! Salirono sul nostro aereo, si sistemarono in uno spazio senza sedili, loro riservato in cabina. Scesero a Jedda, dove facemmo scalo.
Ho incontrato tre miei connazionali, uno dei quali mi fece vedere il visto che avevano appena apposto sul suo passaporto: valido fino al 31 febbraio!!
Come avete potuto leggere, ho riportato moltissimi ricordi, che penso di poter condividere con pochi altri fortunati sulla faccia della Terra. Sarei un ingrato, se dessi un giudizio negativo delle persone che mi hanno permesso di vivere quelle esperienze, basandomi solo su qualche episodio che non ha avuto l’esito che pensavo.. Guardando il tutto a distanza di quasi trent’anni, mi sembra di aver vissuto un miracolo, che sarei felicissimo di poter ripetere, senza cambiare una virgola. Alcuni luoghi descritti, di quelli egiziani per lo meno,ho paura siano stati irreparabilmente rovinati da scelte commerciali per me molto discutibili. Ho delle speranze per tutto il resto e questo deve incoraggiare chi mi segue su queste pagine, a darsi da fare per poter andare a verificare di persona quanto ho narrato.
Ma quando avrete deciso, preparatevi bene, perché certe emozioni tolgono il fiato!