Origini delle Religioni

Posts written by barionu

CAT_IMG Posted: 9/5/2024, 12:09 IL CASO MORO LE BORSE IN VIA FRACCHIA - ZIO OT DICE LA SUA








-------------------





GRASSI

IL FALSO DI VIA FRACCHIA


https://gerograssi.it/luigi-grasso-genova-...18-luglio-2016/

https://web.archive.org/web/20170828015239...inchiesta.shtml





-----------------------------





E’ sorprendente che, nel recensire questo libro di Sergio Luzzatto, pregevole autore di una biografia di Padre Pio, non compaia alcun riferimento al libro di Andrea Casazza, “Gli imprendibili. Storia della colonna simbolo delle Brigate rosse” (2013), senza il quale la ricerca dello stesso Luzzatto si sarebbe svolta nel vuoto.


Allora, due osservazioni: la prima è che certe interpretazioni dei conflitti sociali in chiave complottistica sono soltanto aria fritta, come è dimostrato da un ‘caso di studio’ quale quello rappresentato proprio dal saggio di Casazza, dove, sulla scorta di una vasta, minuziosa ed articolata documentazione, viene ricostruita la lunga e complessa storia delle Brigate Rosse genovesi.


Genova è infatti la città in cui, all’inizio degli anni Settanta, con la formazione della “banda XXII Ottobre”, collegata con i Gap fondati dall’editore Giangiacomo Feltrinelli, ebbe inizio la storia della lotta armata in Italia. Il clamoroso sequestro di Mario Sossi nel 1974 e l’omicidio del giudice Francesco Coco e dei due uomini della sua scorta nel 1975 furono le azioni compiute dalla colonna genovese delle Br: il primo era stato il pubblico ministero nel processo alla “XXII Ottobre”, il secondo si era opposto alla scarcerazione dei militanti della «banda» richiesta dalle Br in cambio della liberazione del magistrato sequestrato.


Da quel momento e fino al 28 marzo 1980, data dell’eccidio, compiuto dai carabinieri, di quattro brigatisti sorpresi nel sonno nella base di via Fracchia grazie alle rivelazioni del ‘pentito’ Patrizio Peci, la colonna visse, per l’appunto, il mito dell’imprendibilità.


La seconda osservazione concerne l’utilità di riflettere sull’esperienza della lotta armata condotta dalle Br e ricavarne, anche ‘ex negativo’, alcuni insegnamenti, il primo dei quali è l’individuazione del nemico, definito nei documenti delle Br come “Stato imperialista delle multinazionali” (Sim), nemico che trova oggi nella realtà dei rapporti internazionali e dei blocchi imperialistici il suo pieno ed organico dispiegamento.


Da tale individuazione derivano tutta una serie di conseguenze, come la sostanziale complementarità tra ‘pensiero politico’ e ‘pensiero militare’ (Lenin + von Clausewitz), le trasformazioni che investono lo Stato dentro il conflitto e l’integrazione, per dirla con la terminologia gramsciana, tra “guerra di posizione” e “guerra di movimento”. In questo senso, il profilo teorico ed analitico che ha caratterizzato l’esperienza politica e militare delle Br merita un’attenzione maggiore di quella che viene ascritta al contesto interno e internazionale in cui tale esperienza inserì, con tutte le inevitabili interferenze e sovrapposizioni che ciò comportava, la loro azione.


Da questo punto di vista, la riflessione su quel profilo permette di definire un ordine discorsivo che, essendo centrato sulla coppia opposizionale ‘amico/nemico’, si distingue nettamente, per la sua natura dialettica, da coppie opposizionali, tipiche dell’ordine discorsivo imperialistico, al cui interno nessuna dialettica storica sembra in grado di agire, come ‘società/economia’, ‘democrazia/dittatura’, ‘inclusione/esclusione’, ‘geopolitica/economia’, ‘culture/società’, laddove il presupposto che accomuna siffatte coppie opposizionali è sempre lo stesso: la rimozione della lotta di classe come motore del divenire storico e la riduzione del proletariato a strato marginale incapace di assurgere a classe per sé e perciò confinato nella mera dimensione economica di capitale variabile.





CAT_IMG Posted: 9/5/2024, 11:49 IL CASO MORO LE BORSE IN VIA FRACCHIA - ZIO OT DICE LA SUA





-----------------------------



https://insorgenze.net/tag/luigi-grasso/

https://it.wikipedia.org/wiki/Riccardo_Dura






RICCARDO DURA

ARCHIVI LUIGI GRASSO





Genova ’79, i sovversivi, i brigatisti, i testimoni
Posted on 19 ottobre 2023


Agli occhi del generale Dalla Chiesa la città di Genova appariva la capitale del brigatismo italiano. Lì era avvenuto, nel 1974, il primo rapimento politico di caratura nazionale col sequestro del pm Mario Sossi e poi, nel 1976, il primo omicidio politico brigatista, l’uccisione del procuratore generale Francesco Coco, infine il primo grande sequestro per autofinanziamento nei confronti dell’armatore Pietro Costa nel 1977.


Per Dalla Chiesa le bierre genovesi erano diventate una ossessione. L’arresto nel 1976 dell’operaio dell’Ansaldo Giuliano Naria, nella lontana Valle D’Aosta, e poi quello in Italsider di Francesco Berardi, denunciato dal sindacalista della Cgil Guido Rossa, non avevano scalfito i cinque lunghi anni di impenetrabilità della organizzazione. Dalla Chiesa non poteva ancora sapere che Sossi era stato rapito da un gruppo composto da brigatisti milanesi e torinesi venuti da fuori e che sotto la lanterna le Br erano arrivate dopo, in pieno 1975. 
A Milano, Torino e in Veneto i carabinieri avevano realizzato brillanti operazioni, scoperto basi, arresto militanti. A Genova nulla. Tutto ciò aveva alimentato una leggenda che deformava la percezione reale dei fatti.



Era necessario portare a termine una brillante operazione anche qui. L’occasione si presentò nel maggio del 1979 quando venne realizzata una retata con l’arresto di 15 persone accusate di appartenere alle bierre genovesi. Oggi sappiamo che di quel gruppo solo un paio aveva reali contatti con le Brigate rosse del posto. Gli altri non c’entravano nulla.


In questo articolo Pino Narducci col piglio del giurista ma anche dello storico ricostruisce la storia di questa clamorosa e vergognosa montatura costruita a tavolino da alcuni funzionari dei Servizi che si servirono di due testimoni d’accusa, soggetti labili e manipolabili, attraverso un intermediario, tale Mezzani il cui nome era già apparso nei comunicati resi pubblici dalle Br durante il sequestro Sossi, materiale poi consegnato a Dalla Chiesa che per ragioni politiche e d’immagine diede seguito all’operazione.
 Emergono così i metodi opachi e privi di scrupoli impiegati dal generale e dai suoi nuclei, in particolare quello genovese i cui componenti, dal capitano Riccio al maresciallo Segatel, ritroveremo coinvolti negli anni successivi in storie torbide (narcotraffico, raffinerie e depistaggi nella strage di Bologna). Metodi che si confermeranno l’anno successivo in via Fracchia, con l’esecuzione dei quattro brigatisti catturati vivi e poi fucilati.




di Pino Narducci, 17 ottobre 2023
presidente della sezione riesame del Tribunale di Perugia
apparso su www.questionegiustizia.it


Alla fine degli anni ’70, la colonna genovese delle Brigate Rosse è all’apice del suo radicamento nel capoluogo ligure e della sua indiscutibile capacità militare. Ma soprattutto, se nelle grandi aree industriali del Nord, Piemonte e Lombardia, in molte circostanze, sin dai primi anni del decennio, l’organizzazione clandestina ha subito colpi anche duri, con l’arresto di dirigenti e militanti e la scoperta di basi, a Genova non ha patito e continua a non patire azioni repressive e gli inquirenti, di fatto, non conoscono praticamente nulla del gruppo che opera nel capoluogo ligure.
Nella valutazione di un ex dirigente nazionale della organizzazione, in quel momento storico la colonna genovese è la più prestigiosa, forse anche più della “storica” colonna torinese.


Il 25 ottobre ’78, Francesco Berardi, operaio Italsider e militante brigatista, viene individuato subito dopo aver collocato volantini BR all’interno dello stabilimento in cui lavora. Nel corso del processo per direttissima, che si celebra il 31 ottobre, testimonia contro di lui anche l’operaio Guido Rossa, militante del PCI e della CGIL, membro del Consiglio di fabbrica, l’uomo che l’ha denunciato e che ha permesso il suo arresto.
Condannato ad oltre quattro anni di reclusione, Berardi, avvicinato da alcuni ufficiali dell’Arma dei Carabinieri, si lascia andare a confidenze sulla persona che l’ha reclutato e dalla quale ha ricevuto incarico di distribuire il materiale propagandistico. Gli mostrano, informalmente, una foto e la riconosce.
È Enrico Fenzi, professore di letteratura italiana nell’Università di Genova. Questa è l’unica informazione che Berardi, sia pure senza aver mai firmato un verbale, fornisce ai due ufficiali che lo incontrano. Non molto, ancora, per provare a scompaginare la colonna genovese.

Ma i carabinieri del generale Dalla Chiesa hanno altri assi nella manica, di portata superiore all’operaio dell’Italsider il cui patrimonio di conoscenze, probabilmente, è davvero limitato e che non ha nemmeno intenzione di fornire quelle scarne informazioni attraverso un vero e proprio interrogatorio.
L’omicidio di Guido Rossa ad opera dei brigatisti, il 24 gennaio 1979, impone agli investigatori di imprimere uno slancio ulteriore all’indagine.


Due ragazze genovesi, Susanna Chiarantano e Patrizia Clemente, studentesse della facoltà di Lettere, permettono così ai carabinieri, finalmente, di squarciare il velo di impenetrabilità che avvolge l’organizzazione che ha ucciso Rossa e di individuare molti suoi componenti, alcuni anche di spicco.

Susanna Chiarantano ha frequentato Lotta Continua ed altri ambienti della sinistra extraparlamentare, se ne è allontanata e poi è tornata sui suoi passi, registrando però una forte diffidenza nei suoi confronti perché ha un rapporto di lavoro con Enrico Mezzani, conosciuto come ex fascista e confidente delle forze di polizia. Per questa ragione la ragazza, così lei sostiene, viene sottoposta a una sorta di “processo politico” per valutare la sua richiesta di rientrare nel gruppo della sinistra estrema. Le persone che la processano si qualificano come membri delle Brigate Rosse e la ragazza, a questo punto, li accusa e rivela i loro nomi.

Patrizia Clemente ha militato in Lotta Continua e poi in Autonomia Operaia e può raccontare episodi vissuti in prima persona che dimostrano come nell’area dell’autonomia si è verificata una frattura ed alcuni esponenti, come Giorgio Moroni, hanno già scelto la strada della lotta armata e, di fatto, già agiscono nella colonna BR(1).

L’Ufficio per il Coordinamento e la Cooperazione nella lotta al terrorismo, organo alla cui guida è stato posto il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, elabora il rapporto giudiziario che arriva sul tavolo della procura genovese il 9 maggio ‘79. Dopo appena dieci giorni, i carabinieri eseguono, il 17 maggio, i mandati di cattura emessi dal giudice istruttore contro quindici persone accusate di far parte della banda armata Brigate Rosse.


Entrano in carcere, tra gli altri, Enrico Fenzi, la sua compagna, Isabella Ravazzi, Giorgio Moroni, uno degli esponenti più noti dell’Autonomia operaia genovese, e gli insegnanti Luigi Grasso e Mauro Guatelli. Nei giorni successivi, altri mandati di cattura permettono di arrestare altri due insegnanti, un operaio ed un giovane laureato in sociologia.
Il quotidiano “L’Unità”, organo del PCI, all’indomani della operazione giudiziaria, titola: «Operazione anti BR a Genova. Sette arresti, una decina di fermi».
Tutti gli organi di informazioni esaltano la prima azione repressiva contro la colonna, quella di Genova, che, sino a quel momento, si è rivelata una sorta di fortino inespugnabile.

Alcuni mesi dopo, il generale Dalla Chiesa, in una relazione riservata al Ministro dell’Interno Virginio Rognoni, così descrive l’operazione portata a termine alcune settimane prima: «…militari dei reparti speciali dei carabinieri per la lotta al terrorismo, al termine di un’indagine difficile e complessa, protrattasi per oltre otto mesi, diretta a individuare, localizzare e disarticolare la colonna eversiva clandestina delle BR operante in Liguria, acquisiscono elementi di prova inconfutabili a carico di molti dei suoi componenti».

Nei mandati di cattura non compaiono i nomi di Francesco Berardi e delle due studentesse perché il rigido segreto istruttorio del codice processuale del ’30 tutela il lavoro degli inquirenti e gli indiziati, durante l’istruttoria, non sono messi nella condizione di conoscere l’identità delle persone da cui proviene la pesante accusa di essere membri delle BR.


In assenza di informazioni ufficiali, si rincorrono le voci più disparate, puntualmente riprese dagli organi di informazione: gli inquirenti hanno a disposizione un «infiltrato alla Girotto» oppure l’omicidio di Guido Rossa ha prodotto «crisi di coscienza» che hanno aperto varchi nella organizzazione clandestina.
Il 24 ottobre ’79, Francesco Berardi si toglie la vita nel carcere di Cuneo.
Nel novembre ’79, il giudice istruttore rinvia a giudizio quattordici persone per i reati di banda armata ed associazione sovversiva. Quattro imputati sono prosciolti.

Il disvelamento dei nomi di Susanna Chiarantano e Patrizia Clemente lascia sgomento il multiforme ambiente politico (autonomi, anarchici, lottacontinuisti, comunisti marxisti-leninisti ecc.) dal quale provengono gli arrestati.
Se il nome della Clemente è conosciuto soprattutto come quello di persona che vive una sofferta esperienza di dipendenza dall’eroina, quello della Chiarantano si rivela, da subito, particolarmente inquietante.


La sinistra estrema genovese conosce i legami della donna con Enrico Mezzani, pregiudicato per reati comuni e notoriamente considerato un confidente delle forze di polizia, ma soprattutto è ritenuta a tal punto inaffidabile da essere accusata, alternativamente, di essere lei stessa una spia al servizio di servizi segreti greci sin dai primi anni ’70 o un fiduciario dei servizi segreti italiani con il nome di copertura “Camilla”.

Tuttavia, l’operazione giudiziaria del maggio ’79 non sembra aver scalfito più di tanto la solidità e le capacità della organizzazione clandestina radicata nel capoluogo ligure.





Il 21 novembre 1979, i brigatisti genovesi uccidono il maresciallo Vittorio Battaglini e il carabiniere Mario Tosa, sorpresi all’interno di un bar a Sampierdarena(2).




Poi addirittura, a dicembre, scelgono Genova per svolgervi una riunione della Direzione Strategica, riunione convocata con urgenza perché il nucleo storico della organizzazione che si trova recluso a Palmi (Curcio, Franceschini ed altri) chiede le dimissioni del Comitato Esecutivo.
All’incontro, che si tiene nell’appartamento di proprietà di Annamaria Ludmann in via Fracchia 12, nel quartiere Oregina, partecipano quindici persone, delle quali ben dodici arrivano a Genova da varie città italiane.
Nella imminenza del processo di primo grado contro Enrico Fenzi e gli altri imputati, le Brigate Rosse non sembrano particolarmente preoccupate per l’attività di indagine iniziata nel mese di maggio. Evidentemente considerano Genova una roccaforte e non esitano a farvi convergere tutto il gruppo dirigente nazionale della organizzazione.

Nella notte tra il 27 e il 28 marzo ’80, sulle base delle rivelazioni fatte da Patrizio Peci nel carcere di Cuneo, i carabinieri fanno irruzione nell’appartamento di via Fracchia(3). Il maresciallo Rinaldo Benà resta ferito gravemente ad un occhio mentre perdono la vita il capo della colonna genovese, Riccardo Dura, gli operai torinesi Lorenzo Betassa e Piero Panciarelli e la militante irregolare Annamaria Ludmann.
Tuttavia, la scoperta della base più importante della colonna genovese ed il sequestro di una ingentissima documentazione non permettono ai carabinieri di acquisire altre prove a carico delle persone detenute ormai già da dieci mesi(4).



Il processo inizia lunedì 14 aprile 1980, davanti la Corte di Assise di Genova.



Il giorno successivo, il giornalista Gad Lerner pubblica un articolo che contiene una lunghissima intervista a Susanna Chiarantano(5). La donna rivela i retroscena della sua collaborazione con i carabinieri.


È stata intimidita/irretita/plagiata da Enrico Mezzani, confidente della Guardia di Finanza e collaboratore del capo dell’ufficio politico della Questura, Umberto Catalano(6). È stato Mezzani ad istigarla ed a suggerirle di rivelare al capitano dei carabinieri Gustavo Pignero, da lei incontrato tre volte prima degli arresti, informazioni non vere su Grasso e altri, informazioni false, sostiene la donna, perché a lei non risulta che queste persone facciano parte delle BR. Racconta ancora che, il 17 maggio ’79, mentre venivano eseguiti i mandati di cattura, prelevata da casa, era stata condotta nella caserma di Via Moresco dove aveva incontrato il capitano Riccio e il maresciallo Mumolo che avevano con lei riletto tutti i fatti esposti nei rapporti giudiziari.


Dopo una estenuante attesa di molte ore, già prostrata, era stata interrogata dal magistrato avendo già deciso che avrebbe confermato qualsiasi circostanza, anche quelle false, pur di allontanarsi da quel luogo. Dopo gli arresti, il capitano Pignero le aveva detto che, per lei, erano pronti il passaporto ed una somma di denaro sino a 100 milioni di lire. Aveva però rifiutato l’offerta ed aveva redatto un memoriale sulla vicenda depositato in una cassetta di sicurezza di una banca. Sapeva che le persone da lei accusate non facevano parte della colonna genovese BR, ma, in quel momento, più che ritorsioni da parte degli ex compagni di militanza aveva paura dei carabinieri. Commentando la storia raccontata dalla donna, Lerner ritiene che è stata messa in piedi “una montatura” decisa nella convinzione secondo la quale nell’ambiente della sinistra estrema c’è del marcio ed un blitz può farlo venire fuori.

Quattro giorni dopo, avviene un episodio drammatico che si ripercuote immediatamente sugli imputati che hanno scelto di affidare la propria difesa al noto penalista genovese Edoardo Arnaldi.


La magistratura torinese, dopo aver raccolto le dichiarazioni di Patrizio Peci, emette mandati di cattura contro alcuni avvocati penalisti membri della associazione “Soccorso Rosso” ed impegnati nella difesa di militanti delle Brigate Rosse. Sono accusati di aver travalicato il proprio mandato di difensori e di essere, in realtà, il tramite che permette il costante collegamento tra militanti arrestati/detenuti ed organizzazione(7).


Quando i carabinieri, il 19 aprile ’80, si presentano nella abitazione di Arnaldi per eseguire il suo arresto, il legale si toglie la vita con una pistola che possiede legalmente.
I giudici della Corte di Assise di Genova non hanno la possibilità di interrogare direttamente le due principali testimoni di accusa che non si presentano per deporre. Anzi, Patrizia Clemente ha fatto perdere le sue tracce ed è diventata irreperibile.
L’istruttoria si chiude rapidamente ed il 3 giugno 1980 il Presidente del Collegio legge il clamoroso ed inaspettato dispositivo della sentenza: tutti gli imputati sono assolti con formula piena.

I giudizi contenuti nella sentenza che demolisce l’indagine sono impietosi e lapidari: «…sarebbe illogico ed arbitrario affidarsi alle dichiarazioni di Pignero e Paniconi…», cioè gli ufficiali dei carabinieri ai quali Berardi fece confidenze su Fenzi che non vennero verbalizzate(8); le dichiarazioni della Chiarantano – rese informalmente al capitano Pignero, da questo riferite al colonello Bozzo e, infine, solo parzialmente confermate dalla donna nell’unico interrogatorio reso al Giudice istruttore del 17 maggio 1979, cioè lo stesso giorno in cui vennero eseguiti gli arresti – sono «indegne di fede» in quanto «tutti i riferimenti alle BR attribuiti agli imputati dalla Chiarantano sono soltanto il parto della sua mente, probabilmente influenzata e ed esaltata dallo stesso compito assegnatole inopinatamente dalla polizia giudiziaria»; le accuse rivolte da Patrizia Clemente a Giorgio Moroni «sono infondate», la donna non si è resa disponibile a comparire personalmente davanti alla Corte per spiegare le molte contraddizioni del suo racconto ed i giudici ritengono, alla fine del processo, che «le sue accuse non siano altro che il frutto di ingiustificate supposizioni».

Nel giro di 48 ore dalla lettura del dispositivo, il 5 giugno ’80, da Milano, arriva la risposta del generale Dalla Chiesa. Alla commemorazione del 166° anniversario dell’Arma, attacca frontalmente i magistrati genovesi: «…non passerà la prepotenza, non passerà la follia, non passerà il terrorismo né l’ingiustizia che lo assolve».
La pubblica accusa impugna la sentenza di assoluzione e, mentre la città è in attesa che si celebri il processo di secondo grado, un altro giudice inizia ad occuparsi della vicenda.

È il Pretore di Genova al quale prima Vincenzo Masini (prosciolto in istruttoria dal giudice istruttore) e poi Giorgio Moroni si rivolgono presentando una denuncia contro Patrizia Clemente per il reato di falsa testimonianza.
Il Pretore, che ascolta anche Enrico Mezzani, il 19 ottobre 1981, condanna l’imputata per aver reso falsa testimonianza nei confronti di Masini. Quanto alla denuncia di Moroni, assolve la donna per insufficienza di prove, ma ritiene, comunque, provato che Patrizia Clemente, che ha seri problemi di tossicodipendenza, ha reso la sua deposizione in circostanze anomale (nella sua abitazione, e non in una caserma o in un ufficio giudiziario, il giorno dopo aver affrontato un aborto), che Mezzani aveva esercitato una influenza sulla donna per farle rendere dichiarazioni «non assolutamente limpide» e che la donna, emigrata in Australia, era stata fatta rientrare in Italia per sostenere un interrogatorio davanti al giudice istruttore con un viaggio quasi certamente pagato dai carabinieri.

Nell’autunno 1980, decine di arresti colpiscono duramente la colonna genovese delle BR e molti militanti fuggono da Genova. Alcuni, esponenti di rilievo della colonna, come Livio Baistrocchi e Lorenzo Carpi, non saranno mai più trovati.


La strada tracciata da Patrizio Peci a Torino viene seguita anche da molti militanti genovesi che, arrestati, decidono di dissociarsi o di collaborare con la magistratura.
Il 4 aprile 1981, a Milano, i poliziotti arrestano Mario Moretti ed Enrico Fenzi(9). A questo punto, le univoche circostanze della cattura “inchiodano” il professore genovese all’accusa di essere un militante brigatista.

Nel processo di secondo grado, che inizia nel novembre ‘81, i giudici della Corte di Assise di Appello ascoltano anche i militanti dissociati/collaboratori di giustizia. Ma se la mole delle dichiarazioni degli ex brigatisti disvela alla magistratura genovese la vera struttura della organizzazione e l’identità dei suoi componenti, nessun dissociato/collaboratore fornisce informazioni sugli arrestati, salvo quelle che riguardano Enrico Fenzi ed altri due imputati.



La Corte di Assise di Appello, ritiene attendibili le accuse di Susanna Chiarantano e Patrizia Clemente, rovescia la sentenza di assoluzione di primo grado e, nel febbraio ‘82, condanna otto imputati (tra cui Fenzi, Ravazzi, Moroni, Grasso e Guatelli) per il reato di associazione sovversiva. Gli altri sei imputati vengono assolti.
Nel frattempo, nel novembre ‘81, è stata arrestata la latitante Fulvia Miglietta, nome di battaglia “Nora”, compagna di Riccardo Dura, sino alla vicenda di via Fracchia membro della direzione della colonna genovese con la responsabilità del fronte della controrivoluzione. Miglietta sceglie di collaborare con la magistratura, ma anche da lei non arriva alcuna accusa nei confronti degli imputati.

Dopo la condanna nel giudizio di appello, si avvia un tortuoso iter giudiziario che, a seguito di una pronunzia di annullamento della Corte di Cassazione, determina lo spostamento del processo da Genova alla Corte di Assise di Appello di Torino chiamata, tuttavia, solo a valutare alcune questioni di diritto. Susanna Chiarantano invia ai giudici torinesi una lettera nella quale conferma la ritrattazione delle accuse fatta nel corso dell’intervista resa a Gad Lerner. Quanto ad Enrico Fenzi – che sin dal settembre ’82 ha scelto di dissociarsi dalla lotta armata e rende dichiarazioni accusando ex compagni di militanza – sostiene, nel corso del processo, che, ad eccezione di Lorenzo La Paglia, nessuno degli altri imputati è mai stato membro delle BR.
La Corte di Assise di Appello di Torino condanna sette imputati (Isabella Ravazzi viene assolta) per il più grave reato di partecipazione a banda armata.

Trascorsi oltre cinque anni dall’arresto di 19 persone nel maggio ’79, i proscioglimenti e le assoluzioni di ben dodici imputati hanno profondamente ridimensionato la portata della prima operazione contro i brigatisti genovesi.
La condanna per il reato di partecipazione a banda armata diventa definitiva solo per sette imputati
Scontata la pena definitiva, Giorgio Moroni dedica ogni propria energia alla scoperta della verità e conduce una investigazione personale alla ricerca delle due testimoni le cui accuse costituiscono il fondamento della sentenza di condanna.
Rintraccia Patrizia Clemente in Australia e la convince a raccontare la verità.

Il 14 febbraio 1991, la testimone sottoscrive una dichiarazione davanti ai funzionari del Consolato italiano a Sydney. Riconosce di aver mosso accuse false contro Giorgio Moroni e Luigi Grasso a causa delle pressioni esercitate contro di lei da Enrico Mezzani che l’aveva messa in contatto con il Capitano Riccio(10). Mezzani, che sosteneva di essere il collaboratore di un Ministro, le aveva offerto denaro se lei avesse reso dichiarazioni a carico di persone che, secondo lo stesso Mezzani, facevano parte delle BR. Pressata continuamente da Mezzani e Riccio, aveva infine ceduto alla richiesta ed aveva accusato Moroni e Grasso, imputati che lei neppure conosceva. Le dichiarazioni erano state concordate con Mezzani che, tempo dopo, era andato addirittura a scovarla in Australia perché la donna doveva assolutamente tornare a Genova per rendere una deposizione al magistrato. Lei aveva accettato a condizione che le fosse pagato il viaggio di andata e ritorno. In Italia, la donna aveva manifestato la preoccupazione di non essere in grado di individuare Moroni se fosse stata chiamata ad effettuare un riconoscimento fotografico. A quel punto, il capitano Riccio aveva consegnato alla donna una foto segnaletica di Moroni, foto che era ancora in possesso della testimone.

Giorgio Moroni, Luigi Grasso e Mauro Guatelli attivano la procedura per ottenere la revisione della sentenza definitiva di condanna.



Il 24 gennaio ‘92, nel corso di una udienza del processo di revisione, Giorgio Moroni consegna ai giudici una lettera, ancora sigillata, inviata da Sydney. Il plico contiene la foto segnaletica di Moroni che Patrizia Clemente ha gelosamente custodito per anni ed ha ritrovato tra le carte personali.
I giudici ascoltano Susanna Chiarantano. La testimone sostiene di non conoscere Guatelli e, quanto all’amico Luigi Grasso, esclude di aver mai chiesto o ricevuto informazioni sulle BR. Enrico Mezzani l’ha messa in contatto con il capitano Gustavo Pignero ed il giorno del blitz giudiziario, il 17 maggio ‘79, i carabinieri si sono presentati a casa sua, l’hanno “arrestata” e condotta in caserma. Un ufficiale in borghese la minaccia dicendo che, se non avesse firmato un verbale di accusa, non sarebbe più uscita di lì. Così, molte ore dopo, quando è arrivato il magistrato, le è stato letto un verbale che lei ha firmato perché, a quel punto, avrebbe firmato qualsiasi cosa pur di essere rilasciata. La verità, prosegue la testimone, l’ha raccontata, già molti anni prima, al giornalista Gad Lerner.
I giudici della Corte di Appello di Genova accolgono le richieste di revisione, revocano la sentenza irrevocabile di condanna ed assolvono con formula piena Giorgio Moroni, Luigi Grasso e Mauro Guatelli(11).
La vicenda giunge al suo epilogo. La verità processuale torna a coincidere con la verità storica: gli arrestati del maggio ’79, ad eccezione di quattro di essi, non sono mai stati militanti delle Brigate Rosse.

Tuttavia, le sentenze del ‘92/’93 non segnano, per intero, la fine della tormentata vicenda che, a questo punto, inizia a svilupparsi in luoghi diversi dagli uffici giudiziari.
Nel 2015/17, l’attività della Commissione parlamentare di indagine sul caso Moro arricchisce di elementi inediti la vecchia storia genovese, elementi che contribuiscono, in larga parte, a renderla ancor più intricata ed inquietante.
Ascoltando Elio Cioppa e Maurizio Navarra(12), funzionari in servizio, nel 1978/’79, presso il Centro Roma 2 del SISDE, i parlamentari apprendono che Navarra (che aveva lavorato a Genova quale ufficiale della Guardia di Finanza), appena arrivato al SISDE nell’agosto ’78, incontra un suo vecchio confidente utilizzato per indagini sul contrabbando. Il confidente si propone di aiutare Navarra poiché ha rapporti con una donna che può fornire informazioni importanti sulla colonna genovese delle BR. La fonte, raccolte queste notizie dalla donna, le fornisce subito a Navarra che, sua volta, le condivide con il capitano Riccio dei Carabinieri di Genova. Il confidente di Navarra, per l’opera prestata, riceve 2/3milioni di lire e “l’Operazione Canepa” (così era stata denominata dall’agenzia di sicurezza) è appunto quella che conduce agli arresti del 17 maggio ‘79, in particolare a quello di Enrico Fenzi, ritenuto dal servizio segreto civile capo della colonna brigatista.

Secondo Elio Cioppa, il confidente di Navarra, in cambio dell’apporto che fornisce al servizio, chiede che la Questura di Genova gli rilasci una licenza per un esercizio commerciale. Cioppa incontra più volte la donna sul lungomare Canepa di Genova (questo è il motivo del nome dato alla operazione) e raccoglie notizie su Fenzi e sulle BR genovesi. La donna (“messa nelle mani” dei carabinieri dal pregiudicato che funge da confidente di Navarra) riceve sei milioni ed annuncia che fuggirà all’estero. Cioppa redige una corposa relazione di trenta pagine (seguita da altre due relazioni) consegnata a Domenico Sica e, da quest’ ultimo, al generale Dalla Chiesa.
I due ex funzionari del SISDE rifiutano di rivelare ai parlamentari i nomi del confidente e della misteriosa donna che sa tutto delle BR genovesi, ma è evidente che si riferiscono ad Enrico Mezzani, il confidente di Navarra, ed altrettanto chiaramente ad una delle due testimoni della indagine.

Se le cose sono andate nel modo descritto da Cioppa e Navarra(13), occorre riscrivere la storia della genesi della indagine genovese, genesi sensibilmente diversa da quella raccontata nella versione ufficiale descritta in questo modo nella sentenza del 3 giugno 1980: «Con i rapporti giudiziari in atti, i Carabinieri del Nucleo operativo di Genova comunicarono che dalle indagini in corso intese all’identificazione degli assassini del Rossa erano emersi indizi i quali consentivano di ipotizzare come la persona che aveva contattato il Berardi quale postino delle BR fosse Enrico Fenzi e come variamente collegati con le BR ed altri similari organizzazioni eversive fossero Isabella Ravazzi, Luigi Grasso, Mauro Guatelli…».

In origine, quindi, già dall’agosto ’78, i contatti con Mezzani ed una delle testimoni sarebbero stati avviati e coltivati dal SISDE e non immediatamente dai carabinieri dei reparti speciali di Dalla Chiesa che, solo in un secondo momento, avrebbero “ricevuto in consegna” l’uomo e la donna dal servizio segreto interno. Se fosse vero che la testimone ricevette sei milioni dal SISDE, questo starebbe a significare che, quando rendeva dichiarazioni ai carabinieri e ai magistrati, la donna, in realtà, onorava un impegno assunto con il servizio segreto, impegno per il quale aveva chiesto ed ottenuto una ricompensa.
Non sappiamo ancora se la storia raccontata dai due funzionari dei servizi sia vera. Per certo sappiamo che, durante l’istruttoria e poi nel corso dei processi, anche quelli di revisione delle sentenze, non è mai emerso il ruolo del SISDE nella vicenda giudiziaria, ancor oggi presentata solo come il risultato del lavoro dei reparti speciali antiterrorismo diretti dal generale Dalla Chiesa.

Emerge poi un’altra circostanza inedita.

La Commissione parlamentare sul caso Moro esegue accertamenti su una audiocassetta che, ufficialmente, risulta essere stata sequestrata, il 29 maggio ’79, nell’appartamento di Giuliana Conforto, in via Giulio Cesare 47 a Roma, luogo in cui i poliziotti arrestano i latitanti Valerio Morucci e Adriana Faranda che hanno abbandonato le Brigate Rosse già da diversi mesi(14). La cassetta contiene la registrazione di un colloquio tra un uomo e una donna, avvenuto, per quello che afferma il soggetto maschile, il 2 novembre ’78.
La donna (nel colloquio chiamata con il nome in codice “Camillo”) risponde a domande su Gianfranco Faina, Luigi Grasso, Giorgio Moroni, Giuliano Naria, Sergio Adamoli ed altri. L’uomo l’avverte che sta registrando il colloquio e che il nastro sarà ascoltato da persone legate al Ministero dell’Interno. Un preciso riferimento nel dialogo ad un comunicato scritto nel ‘74 mentre è in corso il sequestro Sossi (si tratta proprio di una delle accuse rivolte inizialmente da Chiarantano a Luigi Grasso), permette al generale Paolo Scriccia, consulente della Commissione parlamentare Moro, di concludere che, molto verosimilmente, la fonte “Camillo” è, in realtà, Susanna Chiarantano(15).

La Commissione non ha scoperto l’identità dell’uomo che dialoga con “Camillo”. E’ Enrico Mezzani? Si tratta di un funzionario del SISDE? Forse è un ufficiale dei carabinieri?
Il colloquio avviene il 2 novembre ‘78, a pochissimi giorni di distanza dall’arresto e dalla condanna di Francesco Berardi e ben due mesi prima dell’omicidio di Guido Rossa. La data della registrazione e l’assenza nel colloquio di qualsiasi riferimento alle figure di Francesco Berardi ed Enrico Fenzi dimostrano che le fondamenta dell’operazione genovese del maggio ’79 vennero gettate prima delle confidenze di Berardi e ben prima dell’indagine sull’omicidio Rossa del gennaio ‘79, come sostiene invece la versione ufficiale.

Trascorsi oltre 40 anni, la ricerca della verità sulla “Operazione Canepa” è compito degli studiosi e degli storici a cui spetta ricercare nuove fonti e nuovi documenti, anzitutto quelli compilati dal SISDE che occorre, finalmente, declassificare.
Ai giuristi compete la comprensione delle vicende giudiziarie e la riflessione critica sulle indagini e sui processi che, negli anni ’70 e ’80, si celebrarono nei confronti di imputati accusati di fatti di terrorismo/eversione o che militarono nelle organizzazioni che praticarono la lotta armata.
I giudici Giuseppe Quaglia e Andrea Giordano, della Corte di Assise di Genova, esposero, nella sentenza assolutoria del 3 maggio ’80, la propria visione della giurisdizione e dei compiti del processo penale, visione non solo non datata, ma ancora straordinariamente aderente ai principi costituzionali.
Queste le loro parole: «…Compito del giudice è però quello – e soltanto quello – di accertare la sussistenza dei fatti posti a base della pretesa punitiva dedotta in giudizio e non già di seguire la cd. “logica del sospetto” nei riguardi di persone atteggiantesi, nel loro foro interno, come favorevoli all’eversione e che comunque non risulta abbiano commesso alcun fatto penalmente rilevante».

Note

(1) Una minuziosa ricostruzione della vicenda narrata in questo articolo è contenuta nel libro del giornalista Andrea Casazza sulla colonna genovese delle Brigate Rosse Gli imprendibili. Storia della colonna simbolo delle Brigate Rosse, DeriveApprodi, 2013.

(2) Rivendicando il duplice omicidio di Sampierdarena, la colonna genovese annunciava di aver assunto il nome di “Colonna Francesco Berardi”.

(3) Nel libro-intervista a Rossana Rossanda e Carla Mosca (Brigate Rosse. Una storia italiana, Mondadori, 2007), Mario Moretti riconoscerà il grave errore commesso al momento della scelta dell’appartamento della Ludmann per la riunione della Direzione Strategica. La violazione di una regola essenziale della “compartimentazione” e della segretezza delle basi della organizzazione aveva prodotto effetti catastrofici perché Peci aveva indicato ai carabinieri una abitazione/base che non avrebbe in alcun modo dovuto conoscere.

(4) Un elemento più di ogni altro dimostrativo del fatto che la colonna genovese fosse un mondo sconosciuto agli inquirenti è la storia personale di Riccardo Dura “Roberto”, membro della direzione di colonna e poi capo della stessa, componente della Direzione strategica e del Comitato esecutivo BR. Clandestino da diversi anni, al momento della sua morte non era mai stato colpito da un provvedimento giudiziario e non era ricercato dalle forze di polizia. Addirittura, i carabinieri non riuscirono ad identificarlo per diversi giorni dopo la sua morte, tanto che, il 3 aprile ‘80, un brigatista fece una telefonata all’ANSA per rivelare che il compagno “Roberto” caduto a via Fracchia era Riccardo Dura.

(5) L’articolo di Gad Lerner che contiene le rivelazioni di Susanna Chiarantano viene pubblicato in contemporanea, il 15 aprile 1980, sul giornale Lotta Continua e sul quotidiano genovese Il Lavoro.

(6) Il nome di Mezzani aveva già incrociato la storia delle Brigate Rosse molti anni prima della vicenda raccontata in questo articolo. Durante il sequestro del magistrato Mario Sossi (18 aprile-23 maggio 1974), le BR, diffondendo il comunicato n. 4, annunciarono che Sossi, collaborando con i sequestratori, aveva ammesso la macchinazione giudiziaria contro i componenti del gruppo XXII Ottobre rivelando che l’indagine era stata costruita anche grazie ad alcuni provocatori, tra i quali Mezzani. Inoltre, le BR, nel famoso comunicato n. 5 dal titolo Non trattiamo con i delinquenti, annunciarono che le informazioni fornite dal magistrato prigioniero dimostravano che l’allora capo dell’ufficio politico della Questura di Genova, Umberto Catalano, era alla testa di una organizzazione che organizzava il traffico clandestino di armi in Liguria e che il funzionario di polizia godeva della copertura del Ministro dell’Interno, il genovese Paolo Emilio Taviani.

(7) Insieme ad Arnaldi, i magistrati torinesi ordinarono l’arresto anche dell’avvocato milanese Sergio Spazzali, anche questo aderente a Soccorso Rosso Militante.

(8) I due ufficiali dell’Arma dei Carabinieri erano il Capitano Fausto Paniconi e il Capitano Gustavo Pignero. Pignero è l’ufficiale che, utilizzando l’infiltrato Silvano Girotto, aveva arrestato Renato Curcio e Alberto Franceschini, a Pinerolo, l’8 settembre 1974.

(9) L’arresto di Moretti e Fenzi fu possibile grazie alla soffiata di un pregiudicato per reati comuni, Renato Longo, che fornì informazioni alla polizia sull’appartamento di Via Cavalcanti, 4 a Milano che veniva utilizzato da Moretti.

(10) Il capitano Michele Riccio, nel 1980 comandante la 1° Sezione del Nucleo Operativo Gruppo Carabinieri Genova, fu l’ufficiale che, alla testa di un gruppo di sei uomini, fece irruzione, il 28 marzo 1980, nella base BR di via Fracchia, 12. Proprio una delle persone arrestate da Riccio nel maggio ’79, Luigi Grasso, nel 2017, sulla scorta del materiale fotografico inedito pubblicato dal giornale Il Corriere Mercantile nel 2004, chiese alla Procura di Genova di riaprire l’indagine sui fatti di via Fracchia sostenendo che Riccardo Dura non era stato ucciso nel corso del conflitto a fuoco con i carabinieri, ma era stato deliberatamente ammazzato. Il procedimento nato dall’esposto di Grasso è stato archiviato.

(11) Le sentenze di revisione sono state emesse dalla Corte di Appello di Genova, Presidente Benedetto Schiavo, rispettivamente, l’8 aprile 1992 per Moroni e il 7 aprile 1993 per Grasso e Guatelli.

(12) Elio Cioppa venne ascoltato dai membri della Commissione Moro nel corso della audizione del 2 maggio 2017. Maurizio Navarra, invece, sottoscrisse un verbale di sommarie informazioni, il 22 maggio 2017, fornendo dichiarazioni al consulente Paolo Scriccia ed all’ufficiale di collegamento Laura Tintisona. Nel corso della audizione di Elio Cioppa del maggio ’17 emerse anche che il generale Giulio Grassini, direttore del SISDE, aveva consegnato a Cioppa, con la richiesta di svolgere accertamenti, un appunto scritto a mano che conteneva i nomi di alcuni avvocati e giornalisti possibili fiancheggiatori delle BR o di altre organizzazioni. Nell’appunto (conservato agli atti della Commissione parlamentare d’inchiesta sulla loggia massonica P2), Grassini aveva annotato i nomi degli avvocati Guiso, Spazzali e Di Giovanni, di Franco Piperno e Toni Negri, di tale «Sivieri 4° anno di fisica» (quasi certamente si tratta del brigatista Paolo Sivieri arrestato, nell’ottobre ’78, nella base di Via Montenevoso a Milano, con Bonisoli, Azzolini ed altri, poi morto suicida nel gennaio 1989) e dei giornalisti Scialoja, Tessandori, Isman e Battistini

(13) Le dichiarazioni di Navarra e Cioppa divergono, almeno in apparenza, su una circostanza importante. Mentre Cioppa sostiene di aver conversato con la testimone genovese sul lungomare Canepa, Navarra afferma di non aver mai conosciuto questa donna e di aver raccolto notizie sulle BR solo attraverso il suo confidente. Tuttavia, il nome in codice scelto dal servizio segreto civile, “Operazione Canepa”, come pacificamente riferito anche da Navarra, sembra confermare la versione di Cioppa e dimostrare che, effettivamente, la testimone incontrò il funzionario SISDE sul lungomare Canepa di Genova.

(14) Il generale Paolo Scriccia, nella relazione del 2 novembre 2025 alla Commissione parlamentare sul caso Moro, sostiene di aver accertato che, nell’elenco dei materiali sequestrati dalla Digos nella abitazione di Via Giulio Cesare 47, non compariva una audiocassetta e che, anche a causa della confusione esistente tra i reperti custoditi nei locali della Procura Generale romana, è verosimile che quella che contiene il dialogo sulle vicende genovesi, collocata in un reperto con rubrica «1980» (l’irruzione a Via Giulio Cesare risale invece al 1979), sia stata sequestrata in altro luogo e provenga da un procedimento penale diverso da quello che riguarda l’arresto di Morucci, Faranda e Conforto.

(15) La relazione del consulente generale Paolo Scriccia alla Commissione Parlamentare Moro è del 26 ottobre 2015. Appare importante aggiungere che, nell’aprile ’74, subito dopo il sequestro di Mario Sossi, i GAP (Gruppi Azione Partigiana) genovesi diffusero un comunicato nel quale si rivolgevano alle Brigate Rosse a cui chiedevano di liberare il magistrato solo se, in cambio, lo stato avesse rilasciato i detenuti del gruppo XXII Ottobre. Il comunicato si concludeva con il famoso slogan «Fuori Rossi o morte a Sossi». Susanna Chiarantano dichiarava di essere stata coinvolta nella compilazione e divulgazione di questo comunicato da Luigi Grasso.




-----------------

Pubblicato in Anni 70, Cronache giudiziarie, Emergenza e stato di eccezione, Lotta armata | Contrassegnato Autonomia operaia, Capitano Riccio, Elio Cioppa, Enrico Fenzi, Enrico Mezzani, Francesco Berardi, Gad Lerner, generale Dalla Chiesa, Gianfranco Faina, Giorgio Moroni, Giuliano Naria, Gustavo Pignero, Isabella Ravazzi, Lotta continua, Luigi Grasso, Maurizio Navarra, Mauro Guatelli, Patrizia Clemente, Sergio Adamoli, Susanna Chiarantano, Umberto Catalano, via Fracchia |













------------------





CAT_IMG Posted: 8/5/2024, 08:42 IL CASO MORO LE BORSE IN VIA FRACCHIA - ZIO OT DICE LA SUA








-------------------



Abitazione di via Fracchia, il caso delle carte di Moro




Nel covo genovese delle Br a cui si arrivò con le rivelazioni di Peci
3 minuti e 33 secondi di lettura
lunedì 19 giugno 2017
Movimentata audizione dell'ex magistrato genovese Luigi Carli in Commissione Moro: avrebbe sentito colleghi torinesi e romani che avevano deciso l'irruzione nel covo Br di via Fracchia a Genova, parlare riservatamente di "carte di Moro o riguardanti Moro trovate nel covo dove ci fu l'irruzione" frutto delle prime rivelazioni del pentito Patrizio Peci.


Carli ha spiegato di non aver mai sentito notizie su scavi nel giardino della casa di via Fracchia appartenuta ad Anna Maria Ludman e di sacchi di plastica sotterrati che riportavano la dizione "da interrare". L'ex magistrato ha spiegato di aver invece sentito direttamente della questione incontrando i magistrati Caselli, Maddalena, Laudi e Priore nel corso di un incontro di lavoro successivo all'episodio in via Fracchia in cui i principali esponenti della colonna genovese delle Br furono uccisi durante l'irruzione degli uomini del generale Dalla Chiesa.

"Io questo ho sentito, andate a chiedere a loro. Allora era un giovane magistrato e ascoltavo. Loro hanno deciso l'irruzione in via Fracchia. Nulla chiesi al Procuratore capo di Genova, Squadrito, che mi incaricò di stendere la requisitoria tecnica del Pm sulla sola irruzione. I colleghi sapevano tutto. C'erano carte di Moro in via Fracchia. La cosa mi fu direttamente confermata anche dalla fidanzata di Peci Giovanna Maria Massa".

Carli ha anche confermato di aver avuto dichiarazioni dei pentiti in cui si parla di soldi alle Br dalla Bulgaria e dal Mossad, il servizio segreto israeliano. Una traccia che potrebbe ricondurre a carte di Moro legate alla vicenda Peci in sede giudiziaria c'è.

A pagina 350 della prima sentenza Moro, dopo aver descritto tutta la carriera di Peci nelle Br, la sua attività e le modalità del pentimento si scrive: "al termine della intera 'operazione' in possesso dei brigatisti di Torino erano rimasti alcuni documenti scritti nel periodo del sequestro dall' on. Moro, nonché materiale rinvenuto nelle borse trafugate in Via Fani, tra cui un programma sull' ordine pubblico e sul coordinamento tra polizia e carabinieri, custodito in copia probabilmente da Di Carlo Salvatore nell' appartamento di Via Sansovino 255, dove lo stesso Peci aveva trovato ospitalità allorché era stato costretto ad abbandonare l' alloggio di Corso Lecce e quello di Nichelino".

Nel volume autobiografico "Io, l' infame", Peci afferma di aver avuto delle carte di Moro ma sostiene di averle bruciate trattenendo un solo documento:"A noi della colonna di Torino furono dati da conservare alcuni documenti di Moro, perche' avevamo una base sicura a Biella. C' era un programma sull' ordine pubblico e sul coordinamento carabinieri-pubblica sicurezza che conservammo. Bruciammo invece alcune pagine autografe scritte da Moro durante la prigionia, perché non avevano alcuna importanza politica; una specie di testamento nel quale regalava alcuni piccoli oggetti: una penna alla nipotina, ecc. Ripensandoci fu brutto bruciarli. Avremmo potuto essere meno brutali e mandarli alla famiglia". Vista l'ambiguità della formulazione è possibile che si possa trattare proprio delle carte di via Fracchia recuperate al termine della intera operazione Peci che ha contemplato anche l'irruzione in via Fracchia con modalità che all'epoca furono criticate.

Ma sulla questione delle presunte carte di Moro risponde a quanto affermato oggi in commissione Moro dall'ex magistrato Luigi Carli. "Non mi risulta niente di niente di quel che viene attribuito al dott. Luigi Carli a seguito di dichiarazioni che egli avrebbe reso alla Commissione parlamentare Moro. Del resto, è fuori di ogni logica che la magistratura torinese possa aver 'deciso l'irruzione nel covo Br di via Fracchia' o possa essersene in qualche altro modo occupata. E ciò per la semplice ragione che la collaborazione di Patrizio Peci coi magistrati di Torino ebbe inizio soltanto il 1° aprile 1980. Prima di allora egli (in veste di semplice 'confidente' dei CC e non ancora di 'collaboratore di giustizia'), nel pieno rispetto della legge aveva avuto rapporti esclusivamente con il Nucleo speciale Antiterrorismo diretto dal Generale Carlo Alberto Dalla Chiesa. Sono autorizzato dal collega Marcello Maddalena a precisare (confermandolo a mia volta) che di Patrizio Peci in pratica egli non ebbe mai ad occuparsi. Mi è invece impossibile aggiungere anche la smentita di Maurizio Laudi (altro magistrato torinese che Carli avrebbe menzionato), essendo Laudi, com'è noto, deceduto da tempo".



















CAT_IMG Posted: 6/5/2024, 08:49 CASO MORO 6 IL MEMORIALE - ZIO OT DICE LA SUA















-----------------------

GRADOLI

MISTERIOSO INTERMEDIARIO



https://digilander.libero.it/quondam2000/gladiomoro.html








Estratto dal libro "Il misterioso intermediario" di Giovanni Fasanella e Giuseppe Rocca


Capitolo sedicesimo - Il Signore di Gladio


Markevic, il serpente che cambia continuamente pelle, l'attore che può recitare più ruoli, sembra, dunque, l'arbitro più adatto per dirigere la complessa partita internazionale, aperta dal sequestro del presidente democristiano. Una partita almeno a cinque, per ora: angloamericani, sovietici, israeliani, Vaticano e Brigate rosse. Accanto a lui, si è intravista anche l'ombra di Hubert Howard. Ma in che ruolo ha agito?



Per capirlo, bisogna prima vedere qual è stata la partita. Quali dinamiche, cioè, ha scatenato il caso Moro.
Una ricostruzione del 1985 ne aveva dato una lettura molto verosimile. L'aveva tentata, in uno strano libro, I giorni del diluvio, un autore che era ricorso all'anonimato e a una chiave fantapolitica per mascherare nomi e notizie, apprese da un punto di osservazione evidentemente privilegiato. E, infatti, si seppe poi che a scriverlo era stato Franco Mazzola, sottosegretario alla Difesa durante il caso Moro e, nel 1981, sottosegretario alla presidenza del Consiglio con delega ai servizi segreti. La tesi del libro è che a organizzare il sequestro fosse stato il Kgb, che controllava il cervello politico delle Br. Ai sovietici, la politica morotea di apertura ai comunisti sembrava comportare come conseguenza il definitivo distacco del Pci da Mosca. E, d'altra parte, l'ingresso dei comunisti nel governo italiano pareva anche agli Usa un rischio da evitare. Pur avendo, dunque, intercettato il piano attraverso loro infiltrati nelle Br, i servizi americani lasciarono fare.



Ad avallare ulteriormente questa tesi, interviene a quasi vent'anni di distanza Ferdinando Imposimato, il giudice che per primo indagò sul sequestro Moro e che, come si è visto, era giunto a un passo da Palazzo Caetani. Nonostante gli abbiano ucciso il fratello per intimidirlo, Imposimato ha continuato a ricercare le prove di occulte regie, dell'Ovest e dell'Est nella strategia delle Brigate rosse. Setacciando archivi e lavorando anche sulle carte Mitrokhin, il magistrato ha acquisito notizie che consentono di definire il ruolo di uno strano allievo di Moro all'Università di Roma, Fëdor Sergeij Sokolov, come ha raccontato in un'intervista. Gli assistenti del professore, già subito dopo il rapimento, sospettandolo come basista, lo avevano segnalato al sottosegretario agli Interni, Nicola Lettieri. Sokolov, però, era già volato a Mosca, dove intanto si era recato anche il brigatista Alessio Casimirri, che aveva partecipato all'agguato di via Fani. Il falso studente, che tra l'altro abitava poco lontano da Palazzo Caetani, era in realtà un ufficiale della quinta divisione del Kgb, specializzata in operazioni con omicidi, attentati e sequestri. Oltre ad avere fornito assistenza ai brigatisti, era stato lo stratega di un piano di disinformazione, denominato Shporà (sperone), mirante a dirottare tutte le responsabilità sulla Cia.



Nella loro condiscendenza alla spregiudicata operazione dei servizi nemici, però, gli Usa probabilmente non avevano messo nel conto la possibilità che, sottoposto a interrogatorio, Moro potesse parlare. Per la mentalità americana, infatti, era inconcepibile che un leader della sua statura, più volte ministro e presidente del Consiglio e per di piú tra i fondatori di Gladio, la rete clandestina in funzione anticomunista, si mettesse a rivelare segreti di Stato a dei terroristi che agivano per il Kgb.


E, invece, Moro parlò. E non rivelò solo il malgoverno della Dc, ma anche molti retroscena della strategia della tensione, come il coinvolgimento dei servizi segreti occidentali nella strage di Piazza Fontana e nelle altre trame nere. E soprattutto svelò ai suoi carcerieri i punti nevralgici del sistema difensivo atlantico. I servizi americani, probabilmente, si resero conto ancora di più della gravità del loro errore, quando scoprirono che l'ostaggio aveva attivato un canale di comunicazione tra le Br e l'esterno. Attraverso persone di fiducia, l'onorevole aveva fatto prelevare dal suo studio alcuni dossier riservati. E, cosa ancora più grave, da una delle due supercasseforti del Sismi, quella installata nello studio del ministro della Difesa (l'altra è nascosta a Londra) era scomparso un documento che conteneva le informazioni piú sensibili sulla rete Nato Stay-behind (di cui faceva parte anche Gladio). La convinzione che quelle carte esplosive fossero finite in mani sovietiche mandò in gran fibrillazione le cancellerie occidentali, tanto che i responsabili della sicurezza atlantica si affrettarono a cambiare i piani di difesa. Ma, neutralizzati in qualche modo i rischi sul piano strategico, restava l'incubo delle conseguenze sul piano politico. Se i terroristi o i sovietici avessero deciso di utilizzare le informazioni sulla corruzione del sistema italiano e sulle complicità internazionali nello stragismo neofascista, avrebbero provocato un cataclisma con effetti a catena sull'intero scacchiere europeo.



Un rischio di destabilizzazione che evidentemente neppure a Mosca avevano valutato con la debita attenzione, visto che da quel momento in poi anche in campo sovietico ci si cominciò a chiedere se non fosse stato un errore la sponsorizzazione del sequestro Moro. Qualcuno temeva, infatti, un effetto boomerang: un collasso dell'Italia, ganglio vitale dei patti di Yalta, avrebbe avuto imprevedibili ripercussioni anche ad Est.
La situazione aveva finito per complicarsi perché erano in troppi a cercare una via d'uscita, ma spesso in modo autonomo e confuso. C'era, inoltre, il rischio che dei governi tentassero di comprare dalle Br quei segreti per utilizzarli poi a proprio vantaggio. La paura che la situazione sfuggisse di mano era, inoltre, aggravata dalla minaccia di azioni incontrollabili da parte delle Br.


In quelle condizioni non poteva esserci altra possibilità che cercare una soluzione governata. La natura del problema e le sue implicazioni, però, escludevano che questo tentativo potesse essere compiuto nelle sedi politiche istituzionali, attraverso un pubblico dibattito; e neppure tra gli Stati, attraverso i tradizionali e più appartati canali diplomatici. Nessun paese, infatti, avrebbe potuto ammettere di essere implicato in un così grave reato di terrorismo. E nessun governo avrebbe potuto legittimare la lotta armata, accettando di dialogare con le Br, sulla testa, oltretutto, dell'Italia.


Era, allora, indispensabile trovare un luogo estremamente discreto e protetto, dove agissero trasversalmente solo interessi e logiche sovranazionali. E dove a condurre il gioco fossero persone altrettanto discrete e quasi invisibili, nel senso, cioè, di una loro assoluta insospettabilità in quella funzione.


Da quel momento l'affare Moro entrò in un'altra dimensione, fu come inghiottito in una dolina carsica e seguì un suo percorso sotterraneo, tanto nascosto da essere negato perfino dai brigatisti, che pure avevano dichiarato a grandi lettere: "nessuna trattativa segreta, niente deve essere nascosto al popolo".


Ecco: seguendo appunto questo fiume occulto, si arriverà all'ultimo grande mistero della prigionia e della morte del presidente democristiano e si entrerà in un territorio ancora piú oscuro di quello in cui operano i servizi di informazione. Una dimensione esoterica, blindata, assolutamente inaccessibile ai profani.
E, ripercorrendo la vita di Markevic, si è visto quanto fossero intrisi di esoterismo gli ambienti che ha attraversato e i personaggi che ha frequentato.



Anche nella vicenda del sequestro Moro ci sono alcuni episodi venati di esoterismo che appaiono ora sconcertanti ora grotteschi, ma che forse possono acquistare un senso se riletti in questo nuovo contesto. Uno, in particolare, potrebbe addirittura consentire di individuare il momento in cui il caso Moro sprofondò in quella dolina.
Era il 2 aprile. In pieno allarme internazionale per le rivelazioni del presidente democristiano, in Italia pareva che non si potesse far altro che affidarsi a fluidi paranormali. E così, mentre attorno a Roma un sensitivo, chiamato dal governo, cercava Moro con tecniche da rabdomante, una risposta arrivò dall'Appennino emiliano. Qui, in una casa di villeggiatura, un pacioso gruppo di amici, dopo aver mangiato, insieme alle rispettive famiglie, con la dovizia e la prelibatezza di quelle zone, non sapeva cosa fare: il tempo si era guastato e avevano dovuto rinunciare alla prevista passeggiata. Cosí, tra le chiacchiere delle mogli e il chiasso dei bambini, avevano deciso di fare una seduta spiritica. Avevano messo un piattino da caffè al centro di un grande foglio, ai cui bordi erano state scritte le lettere dell'alfabeto, vi avevano puntato tutti un dito sopra e avevano cominciato a porgli domande sull'onorevole Moro e sulla sua sorte.



La cosa strana è che quegli amici erano quasi tutti serissimi docenti universitari e che fra loro c'erano un futuro presidente del Consiglio, Romano Prodi, e un futuro ministro, Alberto Clò.


Il piattino aveva cominciato a correre con grande decisione da una all'altra delle lettere e aveva composto un nome:

G-R-A-D-O-L-I.



Davanti alla Commissione stragi, il professor Clò, l'anfitrione di quell'incontro, sostenne in seguito che quel piatto si muoveva da solo. Un senatore gli fece osservare che l'affermazione contraddiceva ai principî della dinamica, ma l'illuminato economista ribadì la sua convinzione: nessuno dei presenti spingeva quel piattino.


Cinismo a parte, è possibile che in un frangente così tragico dei luminari scherzassero con un piattino attorno alla vita di Moro? E se facevano sul serio, pensavano davvero che gli spiriti (sia pure autorevoli) di Alcide De Gasperi e Giorgio La Pira, evocati in quella seduta, potessero rivelare il luogo in cui Moro era tenuto prigioniero?


Secondo Leonardo Sciascia, che fu membro della Commissione d'inchiesta sul caso Moro, la spiegazione piú ragionevole è che si sia utilizzato quel fantasioso espediente per inviare un messaggio alle forze dell'ordine su un probabile luogo di detenzione del presidente democristiano, senza essere costretti a rivelarne la fonte (un qualche militante dell'Autonomia bolognese, magari parente di uno di quei professori). Tanto è vero che sedici giorni dopo la seduta spiritica, proprio in via Gradoli, a Roma, venne effettivamente scoperta la base del capo brigatista Mario Moretti. L'interpretazione di Sciascia appare plausibile, ma non del tutto convincente.


Se lo scopo fosse stato veramente quello di fare arrivare un'informazione coprendone la fonte, non sarebbe stato piú semplice ricorrere a una lettera o a una telefonata anonime? Non si sarebbe potuto far correre una voce attivando il passaparola degli amici di amici?


Viene da chiedersi, allora, se sia possibile leggere in qualche altro modo quel messaggio. Lo si potrebbe, per esempio, prendere alla lettera, per quello che è: un messaggio esoterico, appunto, cioè in codice. La seduta spiritica avrebbe segnalato, allora, a chi era in grado di capirlo, che quell'indicazione poteva essere decifrata solo da chi, interno o esterno al gruppo, fosse iniziato a quel particolare linguaggio cifrato. Se il codice fosse stato, per esempio, quello rosacrociano, le lettere indicate dal piattino avrebbero potuto non formare il nome del paesino sul lago di Bolsena, ma essere lette come GRADO-LI (grado 51).


Si sarebbe rinviato, cioè, a un livello ancora più occulto del trentatreesimo, il gradino più alto della gerarchia massonica conosciuta. Quale poteva essere questo misterioso Grado LI? Un rarissimo testo pubblicato in Francia intorno al 1870 da Ély Star (pseudonimo di un seguace di Péladan e di Flammarion), Les Mystères de l'horoscope, svela che nel Cercle de la Rose+Croix il Grado LI corrisponde al Maître du Glaive, il Signore del Gladio. E l'autore precisa che non si parla di épée, ma di glaive: non spada, cioè, ma proprio gladio.


E l'ipotesi può acquistare una sua perturbante suggestione se si pensa appunto alla rete segreta Gladio e alla circostanza che al n. 68 di via Gradoli abita il pittore Ivan Mosca della loggia Monte di Sion, gran maestro, con il nome esoterico Hermetico, dell'Ordine dei Cavalieri Massoni eletti Cohen dell'Universo, confraternita in rapporto di fratellanza con i Rosacroce.


Letto così e riferito alla situazione internazionale, quel messaggio poteva essere interpretato in due modi: o come una richiesta di intervento rivolta al fantomatico Signore di quella organizzazione; oppure come l'annuncio che il Grado LI stava per muoversi.


Questa lettura, del resto, potrebbe essere ulteriormente confermata anche da certe frequentazioni di alcuni dei partecipanti a quella seduta. È noto, ad esempio, quanto il professor Prodi sia vicino, per formazione e rapporti, ad ambienti finanziari angloamericani, in particolare alla London School of Economics. Il prestigioso istituto di formazione finanziaria era nato nell'alveo di un'altra organizzazione, la Fabian Society, insieme alla Round Table.
Alla stessa area di influenza, può essere riportato anche un gruppo assai vicino a Prodi, quello del Mulino. L'associazione bolognese di cultura, infatti, nel 1965 era stata tra i fondatori, con il centro studi Nord-Sud e la Fondazione Olivetti, dell'Istituto affari internazionali (Iai), promosso da Altiero Spinelli come filiazione italiana del Royal Institute of International Affaires. L'idea del Riia, come si è visto, era nata a Parigi nel 1919, durante la Conferenza della Pace, quando il colonnello House, plenipotenziario del presidente Wilson, aveva riunito all'Hotel Majestic un gruppo di delegati dei paesi anglofoni, suoi confratelli della Round Table. Tra di loro, con ogni probabilità, oltre a Bernhard Berenson, gran protettore di Markevic, c'era anche Lord Esme Howard, padre di Hubert, il dominus rector di quel palazzo attorno al quale ruotano tutti gli enigmi del caso Moro.
Era Hubert Howard, il Grado-LI, fonte o destinatario del messaggio del piattino? Era lui, il Signore del Gladio indicato con la seduta spiritica? Già Pecorelli, del resto, aveva intravisto ombre di gladiatori attorno a Palazzo Caetani. E forse non è un caso che tra i più intimi amici di Howard, uno dei pochissimi ammessi a pescar trote nel fiume di Ninfa fosse proprio Enrico Mattei, con Taviani e Moro responsabile di Gladio.
Comunque, proprio a ridosso di quell'episodio, Hubert Howard ebbe un contatto con il governo italiano.
Non si sa se sia stato chiamato o se sia stato lui a proporsi, magari per comunicare che da quel momento la cosa era in mano a poteri piú forti e che non erano gradite interferenze. In qualunque modo siano andati i fatti, è molto probabile che sia stato appunto quell'incontro a segnare l'entrata in azione di Howard e delle due istanze che egli rappresentava. Istanze che lo legavano entrambe a Igor´ Markevi(tm) molto più strettamente di quanto non facesse un matrimonio con due cugine. È probabile, infatti, che l'immagine di Howard come principe consorte di Lelia Caetani celasse altri due livelli di operatività.Per comprendere il primo, basta ricordare che Igor lo conobbe in veste di ufficiale del Pwb quando instaurò con i servizi angloamericani la trattativa per "Firenze città aperta".Dopo la guerra, il Pwb apparentemente si sciolse; in realtà si trasformò. La biografia ufficiale di Howard dice che, una volta congedato, lavorò in Germania e poi venne a Roma a vivere con il fratello diplomatico. Ma se, invece, non avesse mai smesso di lavorare per il nuovo Pwb? Se quegli spostamenti fossero stati delle missioni? Se, insomma, il vero compito di Howard a Roma fosse stato quello di tramite fra la Gladio italiana e la rete Stay-behind e insieme l'Authority di quel sistema di protezione?
Questo ruolo si saldava, forse, all'altro livello che si potrebbe ricostruire frugando nelle zone ancora oscure e ignote della biografia di Hubert. Andrebbe meglio indagato, per esempio, il lungo rapporto che lo legò a Kermit, il figlio del presidente americano Theodor Roosevelt. Kermit, che svolse un'intensa attività di intelligence nella Cia, era anche uno dei piú convinti sostenitori della sinarchia, cioè dell'idea di un Governo Mondiale, prefigurato nell'ultimo Ottocento da uomini come Saint-Yves d'Alveydre, Ruskin, Rhodes, Rothschild e cioè da finanzieri, sociologi e massoni. Istanze illuministe e perfino socialiste venivano, cosí, coperte da un linguaggio iniziatico e oscuro che portava a filiazioni aberranti come la satanica Golden Dawn o la Thule che fu il terreno di incubazione del nazismo. Di questo pensiero si trovò una sistematica esposizione in un documento segreto venuto alla luce nel 1935: si intitolava Pacte Synarchique ed enunciava i principî e la strategia per diffondere, in tappe successive, l'Ordine Nuovo in tutto il mondo. La gradualità come elemento decisivo per il compimento di un progetto cosí ambizioso e globale era stata messa a punto dalla Fabian Society, che prese il nome proprio da Quinto Fabio Massimo il Temporeggiatore e puntò molto sulla formazione: The London School of Economics fu una sua creazione e divenne modello per molte università, tra le quali Harvard. La pianificazione dell'unità planetaria prevedeva nelle sue varie tappe il superamento dell'idea stessa di stato nazionale, la ricomposizione in unità di tutte le opposizioni ideologiche, la riconciliazione della Chiesa non solo con le altre religioni, ma anche con la Massoneria, in vista di una sola fede universale, la cui anima era l'esoterismo.
Come emblema di questa Unione Spirituale delle Nazioni, Kermit Roosevelt progettò un tempio a Washington per "i cittadini del mondo allo scopo di sviluppare l'intelligenza universale al posto delle sue limitazioni nazionaliste". Tutta la concezione simbolica del Monumento era ispirata alla magia nera dell'antico Egitto.
Hubert Howard aveva seguito Kermit in molte imprese e, come si è visto, nel 1940 si era anche arruolato in una squadra di volontari sotto il suo comando per combattere i sovietici in Finlandia. La gradualità del progetto sinarchico si avvaleva anche delle tecniche di induzione di stati di coscienza e di persuasione occulta delle masse. E non è un caso che tutta la carriera militare di Hubert si sia compiuta all'interno del Psychological Warfare Branch.
Nel 1978, Howard appariva solo come un gentiluomo di campagna, dedito al riordino e all'amministrazione dell'ingente patrimonio della moglie Lelia (morta l'anno prima), con la quale da molto tempo si era ritirato nel feudo di Sermoneta. Qui i due avevano dedicato tutte le loro cure allo splendido giardino di Ninfa, fatto nascere da Marguerite Chapin tra le rovine di una città morta, che Gregorovius definí "la Pompei del Medioevo". I ruderi, secondo molte voci, ospitavano spesso sedute spiritiche e questo contribuiva ad aumentare la suggestione di quel luogo remoto e protetto. In quest'oasi, Hubert Howard è vissuto appartato, ma niente affatto isolato. Tra i numerosi visitatori del giardino e tra le personalità in vario modo legate all'ambiente filoamericano di Palazzo Caetani, accanto a teste coronate, ad ambasciatori di vari paesi, a presidenti come Sandro Pertini e Giuseppe Saragat, troviamo Giulio Andreotti; il parlamentare socialista Paolo Battino Vittorelli; il repubblicano Francesco Compagna della rivista "Nord-Sud"; Umberto Colombo, dirigente Montedison; Aurelio Peccei, uomo molto legato a Gianni Agnelli; l'avvocato Giuliano Vassalli, legale della famiglia Moro; il segretario generale del ministero degli Esteri Franco Malfatti di Montetretto; il giornalista e parlamentare Luigi Barzini.... Basterebbe raggruppare questi nomi, al di là dell'appartenenza di partito, per capire quali fossero gli ambienti (anzi, l'ambiente) con i quali Howard continuava a intrattenere rapporti. Molti di loro erano dello Iai, altri della Trilateral, delle Conferenze Bilderberg, l'Istituto Atlantico, il Club di Roma (fondato e presieduto dallo stesso Peccei).
Tutte sigle che in vario modo discendono dal mondialismo della Fabian Society, attraverso la Round Table e il Royal Institute of International Affaires e costituiscono in Italia una sorta di Partito trasversale angloamericano.
Ecco, allora: dopo che si era avuta la certezza che le rivelazioni di Moro toccavano punti vitali per la sicurezza del Patto Atlantico, questo schieramento angloamericano si era mosso e aveva attivato il Signore di Gladio. Che si ricordò di un'altra situazione difficile, nella Firenze occupata dai tedeschi, e di un giovane artista che lo aveva aiutato a uscirne, Igor´ Markevi(tm).
Hubert e Igor´, dunque, di nuovo insieme, come 34 anni prima, a trattare ancora una volta sulla sorte di un ostaggio eccellente: durante la guerra, i tesori di Firenze in mano ai nazisti; nella primavera del 1978, Moro in mano ai brigatisti rossi.
I loro percorsi di vita si sovrapponevano in qualche tratto, ma nell'insieme apparivano piuttosto complementari. E questa reciproca integrazione non pretendeva di risolversi in amicizia: bastava che fosse di reciproco interesse. Nonostante la lunga storia comune, infatti, fra i due non si può dire che ci fosse cordialità; solo una formale cortesia come quella che possono manifestare i pretendenti a qualche titolo dinastico. L'ultimo principe di Bassiano e duca di Sermoneta era stato Roffredo e con la sua scomparsa nel 1961 (essendo morto anche suo figlio Camillo) la linea maschile si era estinta. Per i diritti acquisiti con il matrimonio, si poteva dire che gli ultimi Caetani erano loro due, Howard e Markevi(tm). Igor´ e Topazia, però, si erano separati (benché non ancora divorziati) e Howard, comunque, aveva sposato la figlia di un fratello maggiore: era lui, dunque, il dominus. La ruggine che c'era tra loro poteva anche avere ragioni ideologiche. I due ultimi Caetani erano due stranieri: uno dell'Ovest, l'altro dell'Est. Hubert sapeva che dopo la trattativa per Firenze, Igor´ aveva mantenuto rapporti con ambienti americani e inglesi; che era intimo amico di Moshe Feldenkrais, il guaritore di Ben Gurion; che aveva intrecciato in Svizzera le relazioni più cosmopolite; e che aveva eccellenti rapporti con il governo francese, da cui negli anni Sessanta aveva ricevuto la più alta onorificenza, la Legion d'Onore. Ma Hubert conosceva soprattutto i suoi legami viscerali con la Grande Madre Russia, confermati anche dalle dichiarazioni filosovietiche al momento di assumere l'incarico a Santa Cecilia.
Di Igor´, inoltre, Hubert apprezzava l'abilissimo direttore d'orchestra e la sua idea di una prospettiva sonora che armonizzasse in gerarchia le contrastanti sezioni strumentali: una capacità professionale da lui portata a vero virtuosismo, anche perché in quel modo sublimava la sua profonda pulsione a conciliare ogni contrasto.
Soprattutto, però, Hubert sapeva quali fossero i fini del misterioso Priorato di Sion, di cui Jean Cocteau, intimo amico e sodale di Igor´, era stato nautonier. Ordine dalla fisionomia sfuggente e mutevole, durante la guerra era stato contattato anche dai servizi inglesi per organizzare la Resistenza in Francia. De Gaulle se n'era servito per la sua ascesa al potere. E gli americani avevano fatto proprie due idee fondamentali del Priorato: agire nel campo della psicologia di massa e realizzare il grande disegno di una federazione di Stati europei.
Michael Baigent, Richard Leigh e Henry Lincoln, gli storici che hanno studiato questo ordine, ce lo descrivono come immerso da qualche tempo in una "sfera piuttosto tenebrosa", dove politica, Massoneria, Cavalieri di Malta, Cia, Vaticano, alta finanza "si incontrano, si uniscono temporaneamente per uno scopo o per l'altro, poi riprendono la propria strada".
Anche tutti questi fili del Priorato di Sion, negli anni Settanta, finivano con l'intrecciarsi dentro e attorno a Palazzo Caetani, in una ragnatela di discrete relazioni e di contatti insospettabili fra persone e istituzioni. E in più, è probabile, come si è detto, che con questa occulta frateria si identificassero molti altri ordini cavallereschi che, con nomi diversi, si rifacevano alla stessa origine, miravano agli stessi fini e adottavano la stessa mitologia e lo stesso linguaggio simbolico: Ordine di San Giovanni, Compagnia del Santo Sacramento.... Tra queste compagnie iniziatiche c'erano anche i Cavalieri del Santo Sepolcro di Gerusalemme, che annoverava tra i suoi adepti, secondo quanto riporta uno dei consulenti della Commissione stragi, Gianni Cipriani, nel libro I mandanti, molti rampolli delle famiglie aristocratiche romane, quali Sforza-Ruspoli, Boncompagni-Ludovisi e Torlonia, Antonio Fazio, futuro governatore della Banca d'Italia, e il presidente del Consiglio all'epoca del sequestro Moro, Giulio Andreotti, uno degli ospiti eccellenti, ammessi da Hubert Howard a frequentare l'oasi di Ninfa
Stando a quanto scrive nel suo Complotti vecchi e nuovi Maurizio Blondet, editorialista del quotidiano cattolico "Avvenire", Andreotti faceva parte anche di una fondazione culturale chiamata Inter Action Council of World Leaders, insieme al tedesco Helmut Schmidt e al francese Valéry Giscard d'Estaing. Questa associazione, da cui tra l'altro sarebbe nato anche il Club di Roma di Peccei, propugnava "la frantumazione degli Stati nazionali in più piccole entità regionali e autonome". Anche se apparentemente in contrasto, quest'idea finiva con l'allinearsi al progetto globalizzatore della sinarchia. La strategia fabiana, infatti, procedeva per conquiste successive e lo smantellamento della concezione monolitica dello Stato poteva utilizzare anche questa via. L'Inter Action Council si ispirava a uno dei principali teorici del federalismo europeo, lo svizzero Denis de Rougemont, amico di Igor Markevic, che ne condivise sempre le convizioni. Nei suoi scritti, infatti, il Maestro ha espresso più volte il suo sogno di un'Europa unita che non annullasse, ma si arricchisse, invece, delle multiformi particolarità culturali delle piccole patrie regionali.
Nella primavera del 1978, dunque, non poteva che essere convocata lì, a Palazzo Caetani e dintorni, la riunione sinarchica per risolvere i problemi aperti dal sequestro Moro. E anche in quell'occasione, accordo non era connubio stabile, ma solo reciproco interesse. La chiave, ancora una volta, è in un passo di René Guénon, che sembra prendere le distanze dalla politica, ma solo per rifondarla a un altro, piú profondo livello: "L'esoterismo autentico deve porsi al di là delle opposizioni che si affermano nei movimenti esteriori che agitano il mondo profano, e, se tali movimenti sono a volta suscitati o diretti in modo invisibile da potenti organizzazioni iniziatiche, si può dire che queste ultime li governano senza mescolarvisi, cosí da esercitare in egual modo la loro influenza su ciascuna delle parti avverse".
Su questo piano sovranazionale, Hubert Howard e Igor Markevic avrebbero governato l'intricata matassa di interessi e di posizioni che si aggrovigliavano nel caso Moro. In un'ipotetica divisione dei ruoli, è possibile che Igor´ agisse sul campo, per così dire, tornando a fare la spoletta tra le parti, magari anche con il cervello politico delle Br, e Howard tenesse il controllo nella cabina di regia di Palazzo Caetani.
La posta in gioco del negoziato era duplice: da una parte la salvezza del presidente democristiano, dall'altra il recupero dei dossier, dei verbali degli interrogatori, delle bobine con le registrazioni.
Quale strategia abbiano eventualmente concertato Howard e Markevi(tm) lo si può ipotizzare leggendo tra le righe di quello che accadde in quei cinquantacinque giorni.
La situazione italiana era ufficialmente caratterizzata dalla posizione di fermezza assunta dal governo e dai due maggiori partiti, Dc e Pci. Si riteneva che accettare o anche solo discutere una qualunque richiesta delle Br, implicasse il riconoscimento dello status di belligeranti al partito armato.
Paolo VI aveva mostrato di comprendere le ragioni politiche di questa intransigenza del governo italiano e si era impegnato a tentare, in sua vece, ogni possibilità di dialogo: aveva offerto un riscatto ai rapitori, proponendo il campo neutro del Vaticano come luogo della liberazione; aveva chiesto ai cappellani delle carceri di parlare con i brigatisti detenuti; aveva tenuto costanti contatti con i familiari di Moro e con il loro legale, il socialista Giuliano Vassalli.
E in questo gioco, a un certo punto, si era inserito il Psi, allettato forse dal credito politico che avrebbe potuto lucrare dopo la liberazione dell'onorevole.
In realtà, l'intransigenza morale e giuridica dietro la quale il governo si trincerava potrebbe essere solo la copertura di un'impotenza politica.
Se davvero è scattata una strategia sinarchica, la sua attuazione richiedeva piena libertà e l'intero controllo della situazione. Si era impedita, dunque, ogni iniziativa autonoma al governo, circondandolo con cordoni sanitari. Probabilmente era proprio questo lo scopo dei misteriosi comitati di crisi che si riunivano al Viminale durante i cinquantacinque giorni del sequestro. Apparentemente la loro funzione era quella di monitorare la situazione, fornire pareri tecnici ed elaborare piani operativi. Servivano, invece, a mettere sotto tutela lo stesso ministro degli Interni. In quei comitati, del resto, l'unico vero esperto nel settore della sicurezza era l'inviato americano Steve Pieczenik. Gli altri erano senza dubbio illustri personalità, alcuni con ampie relazioni internazionali, ma quasi tutti (almeno ufficialmente) con competenze poco rispondenti alle necessità del momento. Tanto che il loro ruolo potrebbe anche essere stato - come pare a Pellegrino - quello di "sorvegliare e riferire altrove". Dove? Difficile dirlo. Di sicuro molti membri di quei Comitati in un modo o nell'altro portavano a Palazzo Caetani.
Legato a quell'ambiente filoamericano, per citare un esempio, era il professor Vincenzo Cappelletti, direttore dell'Enciclopedia Italiana, la cui sede, tra l'altro, occupa un lato dell'insula di Palazzo Caetani. Di quei comitati faceva parte anche l'esperto di strategie internazionali Stefano Silvestri, direttore dell'Iai, l'istituto che abbiamo visto collegato anche ai professori della seduta spiritica (Silvestri e Prodi, tra l'altro, erano entrambi alla Conferenza Bilderberg di Aquisgrana, nell'aprile del 1980, due anni dopo la morte di Moro.
Attuata questa sorta di commissariamento del governo italiano, si doveva specularmente ripetere un'analoga manovra sul fronte brigatista. Anche qui andava imbrigliata ogni iniziativa autonoma e tacitato ogni contraddittorio.
E in questo contesto, forse oggi è possibile decifrare due oscuri episodi, strettamente legati fra di loro, avvenuti quasi contestualmente il 18 aprile 1978, 16 giorni dopo la seduta spiritica del professor Prodi. La scoperta del covo di via Gradoli, base romana di Moretti, a causa di un provvidenziale allagamento provocato da una doccia lasciata aperta. E la diffusione di un falso comunicato delle Br, in cui si dava l'annuncio che il cadavere di Moro si trovava in fondo al lago della Duchessa, sui monti del Reatino.
A lasciare aperta la doccia, potrebbe essere stato lo stesso Moretti. E usando la logica capovolta, che spiega molti episodi di queste trame occulte, se ne può comprendere anche il perché. Il capo brigatista si era impossessato della gestione del sequestro, esautorando di fatto i suoi compagni. Forse voleva che ai militanti giungesse il messaggio che a Roma non c'era più nessun nascondiglio sicuro, visto che era stata scoperta perfino la base del capo; e che, di conseguenza, bisognava affrettarsi a portare Moro fuori città.
E quale poteva essere, invece, il messaggio nascosto nel falso comunicato, visto che le forze dell'ordine, accorse al lago della Duchessa, lo trovarono coperto da uno spesso strato di ghiaccio formatosi parecchi mesi prima?
C'era un riferimento a un lago, come farebbe pensare il testo del comunicato. Ci si riferiva forse al lago di Bracciano dominato dal castello del principe Odescalchi e di sua moglie, duchessa Amelia Lante della Rovere? Come si è potuto dedurre dalle analisi dei periti sui suoi indumenti, il presidente democristiano sarebbe stato portato proprio sul lago di Bracciano, forse a Trevignano, dove la coppia Di Nola-De Cosa aveva un'abitazione. Il comunicato, allora, sarebbe anche potuto servire a indicare quella direttiva.
Il trasferimento di Moro dalla base romana (forse in via Montalcini, come hanno sempre detto le Br, forse altrove) sul lago di Bracciano, potrebbe coincidere, come aveva lasciato intendere Craxi, con un passaggio di mano dell'ostaggio: dai brigatisti autori del sequestro sarebbe stato consegnato a un altro gruppo di terroristi, anomalo rispetto al primo perché sospettato dal maggiore Giraudo di essere legato piuttosto al Mossad che al Kgb.
Il doppio evento del 18 aprile, dunque, dimostrerebbe che la situazione si era sbloccata e che si era arrivati a un accordo sia sull'ostaggio sia sui documenti. E pareva che anche Cosssiga ne avesse avuto sentore, tant'è che si stava già ponendo il problema di come neutralizzare eventuali dichiarazioni o atteggiamenti compromettenti di Moro, una volta liberato: stava, infatti, elaborando un piano per metterlo in quarantena, chiamato in codice Victor.
Markevic e Howard, i due probabili mediatori, sarebbero poi passati a gestire il rilascio del prigioniero e, contemporaneamente, la consegna dei documenti, sincronizzando le tappe delle due operazioni. Moro, dunque, era stato probabilmente portato a Palo Laziale e da lì al Ghetto, dove sarebbe stato nascosto in un deposito di tessuti: forse in quello di piazza Paganica.
È probabile che, come le singole stazioni, anche gli spostamenti siano avvenuti all'interno di zone protette: da Roma al lago di Bracciano, per esempio, ci sono vaste distese di territorio vaticano, in cui sono installate antenne radiotelevisive. E anche tra il lago e la costa in direzione di Palo, ci sono i latifondi di antichi casati nobiliari legati al Vaticano. Ci si può anche concedere la suggestione di un viaggio su un qualche mezzo fluviale risalendo il Tevere da Focene fino all'Isola Tiberina: luogo simbolicamente diviso tra l'Ospedale Israelitico e il cattolico Fatebenefratelli e, comunque, a due passi da Palazzo Caetani.
La mattina del 9 aprile, con ogni probabilità, l'ostaggio avrebbe dovuto passare di nuovo di mano, ma per l'ultima volta. Moro, infatti, era sereno e aspettava fiducioso la fine di quell'incubo. Nell'ultima lettera parlava della sua prigionia come di una terribile esperienza ormai conclusa; riconosceva che solo alla generosità delle Br doveva "per grazia, la salvezza della vita e la restituzione della libertà"; constatava di essere ormai in "completa incompatibilità con il partito della Dc". E si preparava a riabbracciare i suoi cari, pulito e sbarbato.
Quale doveva essere l'ultima tappa di questa via crucis?
Il piano per la salvezza dell'ostaggio sembra ripetere un modello già sperimentato, che parrebbe nascosto proprio nella storia di due personaggi, che ebbero un ruolo nell'ultima fase di questa vicenda: Giuliano Vassalli e Franco Malfatti di Montetretto, entrambi legati a Bettino Craxi. Vassalli, amico personale di Aldo Moro e avvocato della famiglia, aveva da lungo tempo anche rapporti con il Vaticano. Di Malfatti, a quell'epoca segretario generale del ministero degli Esteri, l'ex ambasciatore Sergio Romano traccia un ritratto molto crudo nel suo libro Memorie di un conservatore. Lo definisce, infatti, "uno dei piú singolari e misteriosi personaggi della diplomazia italiana" e gli attribuisce l'"inclinazione insopprimibile per l'intelligence, la massoneria, le società segrete". Secondo Romano, il segretario della Farnesina coltivava con spregiudicatezza le amicizie piú eterogenee e spesso "inafferrabili": frequentava Gianni Agnelli, per esempio, ma anche il colonnello Renzo Rocca, il reclutatore di gladiatori.
Vassalli e Malfatti erano entrambi nel giro di Howard, ma il loro rapporto con Palazzo Caetani era molto più antico e risaliva al tempo della guerra. Nell'ultimo conflitto, infatti, erano tutti e due in contatto con Raimondo Craveri. E lavoravano con Peter Tompkins, che aveva la sua base segreta proprio in quell'edificio: Malfatti come capo di un piccolo apparato d'intelligence, da lui creato, e Vassalli come capo partigiano, incaricato di organizzare la liberazione dal carcere nazista di prigionieri politici, tra i quali due futuri presidenti della Repubblica, Giuseppe Saragat e Sandro Pertini. Giuliano e Franco sono, infatti, i principali protagonisti di Una spia a Roma di Tompkins.In quel libro di memorie, tra l'altro, è raccontato un episodio del 1943, che può fornire qualche suggestione a questa ricostruzione: "Cervo mi fece salire i gradini che portavano alla terrazza; da qui, per un corridoio tortuoso, mi condusse in una piccola camera da letto ove, spostato un comodino, apparvero i contorni di un pannello segreto largo circa quaranta centimetri e alto atrettanto. Lo aprì e si cacciò dentro carponi... Varcato il pannello mi trovai in una piccola camera da letto dove tutte le porte erano state murate e coperte di carta da parati e l'unica finestra era celata da pesanti tendaggi... Quella stanza così ben nascosta all'ultimo piano di Palazzo Antici-Mattei doveva servire come rifugio temporaneo per i prigionieri liberati dalle carceri tedesche in attesa di poterli instradare verso la salvezza". Vassalli, arrestato anche lui dai nazisti e condannato alla fucilazione, fu salvato solo grazie all'intervento di Pio XII. È significativo che Moro in ben due lettere dalla prigionia, una alla moglie, una a Paolo VI, avesse ricordato due volte quell'episodio, come a suggerire di utilizzare le stesse modalità per la propria salvezza. Anche il padrino di Tompkins era ministro britannico presso Sua Santità, e lo zio di Malfatti era rappresentante presso la Santa Sede dei Cavalieri di Malta. Di lui e delle sue larghe amicizie nella nobiltà romana si serviva il nipote per il piccolo servizio di informazioni, collegato al Partito socialista, da lui costituito dopo l'8 settembre 1943.
Forse, a Palazzo Caetani, c'era una stanza segreta che avrebbe dovuto accogliere anche Moro, ormai "instradato verso la salvezza".
Da lì, sarebbero finalmente venuti a prelevarlo con un'automobile a cortine chiuse e targa diplomatica, magari dei Cavalieri di Malta, e sarebbero corsi a portare a Paolo VI l'"uomo buono e giusto", l'agnello che per questa volta non sarebbe stato sacrificato.
E, invece, Moro fu fatto entrare nel bagagliaio di un'altra vettura: la Renault rossa.
Qualcuno aveva tradito i patti.
Una voce era uscita dal coro.

Per gentile concessione dell'editore Einaudi


la recensione pubblicata il 29 gennaio 2003 su "La Repubblica"



29 gennaio 2003 - "La Repubblica"
la carriera di igor markevic
la favola del grande vecchio
Come legare un celebre direttore d' orchestra al caso Moro in un' inchiesta tutt' altro che rigorosa
Il banchiere umanista Raffaele Mattioli sarebbe stato introdotto ai culti di oscuri profeti
L' atmosfera è quella che di solito si ritrova nei romanzi moderni che parlano del Graal
Era stato un protetto di Sergej Diaghilev il genialissimo creatore dei Balletti Russi
STEFANO MALATESTA
Tra gli innumerevoli garbugli dell' affare Moro, una vicenda di cui non sapremo mai la verità completa, come su quasi tutti i passaggi decisivi della nostra storia recente, ha sempre spiccato per eccentricità, irriducibile fantasia dei vari coautori, tocco cosmopolita e totale anomalia dei principali protagonisti rispetto allo standard basso-ministeriale di tutto il resto, brigatisti rossi compresi (con l' esclusione dell' uomo politico democristiano) la storia di Igor Markevic, il musicista e direttore d' orchestra di origine russa, additato all' inizio dell' estate 1999 (a babbo morto, come dicono in Toscana, essendo defunto da 16 anni) come probabile "Grande Vecchio" e regista occulto del rapimento nell' ipotesi più spavalda o come anfitrione degli uomini che avevano compiuto il sequestro nell' ipotesi più cauta. Per la verità la vicenda, avallata dalle dichiarazioni di un signore con carica istituzionale, Giovanni Pellegrino, allora presidente della Commissione stragi, che a domanda rispose: "Trattasi di cosa seria", condivisa da Ferdinando Imposimato, un magistrato con l' ossessione dei complotti, dei servizi e delle trame di tutti i generi (un' ossessione non completamente campata in aria, ma portata a estreme conseguenze) durò una o due settimane e poi scomparve nel buco nero dove sono finite tutte le altre ipotesi, alle quali nessuno ha saputo o potuto dare una risposta certa. Ma per quel poco che rimase sulle pagine dei quotidiani e dei settimanali, per i giornalisti e cronisti fu come una festa. Dovendo riparlare ancora una volta dell' affare Moro, con quei brigatisti dalle espressioni un po' così, che non si sapeva mai se c' erano o ci facevano, con quelle autarchiche polemiche su che cosa dovesse fare lo Stato, fingendo che uno Stato ci fosse, cosa augurarsi di meglio di questo eccezionale gagà e dandy, che portava nei resoconti dei velinari montecitoriani gli echi di un mondo affascinante conosciuto solo nei libri. Partito come giovane musicista prodigio, Markevic era stato sessanta e più anni prima l' ultimo amante e protegé di Sergej Diaghilev, l' incommensurabile, genialissimo, crudelissimo creatore dei Balletti Russi, diventando poi un poliglotta di casa a Montecarlo come a Mosca, al Covent Garden come a Santa Cecilia, che andava a cena al "21" a New York con Lenny Bernstein, che si diceva fosse amicissimo di niente di meno che Bernhard Berenson, il saggio (e affarista) dei Tatti, su per Settignano, che aveva sposato in prime nozze la figlia di Nijnskij, il più grande ballerino del secolo e in seconde una Caetani, che a Roma viveva non in una casa ma sempre all' Excelsior e che in tempi lontani aveva convissuto con Cocteau, parlava dei Noailles o di Picasso come di suoi intimi, eccetera, eccetera. Fosse veramente lui il Grande Vecchio, fatto altamente improbabile, perché non è mai esistito quest' uomo dai poteri indicibili, se non nelle fantasie di chi aveva letto troppi libri su Hasan-i Sabat e sulla setta islamica chiamata degli "Assassini" arroccata in secoli lontani ad Alamut, nelle montagne del nord della Persia, in fondo aveva poca importanza. Era la manna che veniva da un mondo internazionale e come tale fu accolta dai giornali, riempiendo le prime pagine... Ricordo anche lo stupore e l' indignazione dei parenti e di quasi tutti i personaggi del mondo musicale, concordi nel definire i sospetti sul Markevic con un termine romanesco, di non grande finezza, ma efficace: "Una bufala". Era tuttavia prevedibile che la storia venisse trasformata in un libro, anche perché il fatto che Markevic fosse morto da molti anni era rassicurante e avrebbe funzionato da rete di sicurezza, stesa sotto gli autori in veste di volteggiatori, nel caso che il triplice salto mortale, con avvitamento a destra, non fosse riuscito. Non era prevedibile, invece, che venisse pubblicato da Einaudi, in una collana come gli Struzzi, che ha in catalogo nomi di amatissimi, famosi scrittori, un libro come Il misterioso intermediario - Igor Markevic e il caso Moro (pagg. 264, euro 14) di Giovanni Fasanella, giornalista di Panorama e Giuseppe Rocca, docente di storia dello spettacolo all' Accademia Nazionale d' Arte Drammatica. In Italia siamo abbastanza abituati a inchieste che dovrebbero essere rigorosissime per la delicatezza dei temi trattati e dove invece gli autori si esercitano al tiro del cappello, sperando d' imbroccare il piolo. Ma qui siamo a un' analisi della realtà, che partendo da alcuni (pochi) dati di fatto, da legittime opinioni personali fatte passare per verità acclarate, si trasforma rapidamente in una visione così deformante, da far pensare a una sorta di slittamento onirico, per arrivare a conclusioni che stanno solo nei sogni. Uno degli aspetti più sconcertanti di questo libro è il suo essere immerso in un' atmosfera che di solito si ritrova nei romanzi moderni che trattano temi medievali, come il Santo Graal e dintorni, per un pubblico di lettori abituato a dosi massicce di esoterismo caricaturale, in cui i personaggi famosi citati - sono un' infinità e la maggior parte è citata a cavolo, per dare l' impressione che nulla sfugge agli autori e che siamo al massimo livello - non agiscono come individui, ma come membri o componenti di gruppi, sette, cabale, massonerie, circoli iniziatici, come cavalieri di tavole rotonde e quadrate, di formazioni paramilitari, associazioni verticali o trasversali. Per fare subito qualche esempio, Raffaele Mattioli, il notissimo banchiere-umanista, presidente della Comit, sarebbe stato introdotto da Toeplizt, il fondatore della stessa banca, ai culti di Sabbatai Zevi e di Jakob Frank, "oscuri profeti di un messianismo crudele, imperniato intorno a figure femminili". Grace Kelly sarebbe stata affiliata all' Ordine Sovrano del Tempio Solare al quale avrebbe regalato somme di denaro incredibili e via demenziando. A parte la veridicità di queste presunte rivelazioni, francamente non sono riuscito a capire cosa c' entrino con il rapimento di Moro. Il misterioso intermediario, con tutte le sue interpretazioni misteriosofiche e cabalistiche, è un libro che sarebbe piaciuto moltissimo a Madame Blavatsky (Elena Petrova), l' ineffabile ciarlatana della fine dell' Ottocento che diceva di aver ricevuto il dono della saggezza da una confraternita di Maestri da qualche parte sull' Himalaya (probabilmente la stessa area di Shangri-Là) o a Georgei Gurdjieff, il guru che era riuscito a incantare la Mansfield e parecchi altri (e infatti l' uomo che insegnava a costruire l' anima viene chiamato in causa come uno dei suoi insegnanti prediletti). Ma all' affare Moro vero e proprio i due autori arrivano solo verso la fine, dopo oltre centocinquanta pagine di biografia markeviciana, in cui viene ricostruita la vita del musicista, un tipo poco simpatico e duro, intellettualmente molto dotato, che con gli anni abbandonerà la composizione per dedicarsi quasi esclusivamente alla direzione. La ricostruzione segue un metodo narrativo che potrebbe chiamarsi "a ognuno il suo" nel senso che ogni personaggio incontrato da Markevic ha diritto almeno a una ventina di righe, cosicché si va avanti con la biografia maggiore che in realtà trascina dietro di sé decine di altre, tutte peraltro ben note. Poi, di colpo, arriva la tesi sul rapimento, nemmeno tanto originale, perché segue molto da vicino un' altra e precedente analisi, scritta da un anonimo che tutti all' epoca avevano individuato senza grandi difficoltà: Franco Mazzola, sottosegretario alla Difesa. Secondo Mazzola ad organizzare il sequestro dell' uomo politico democristiano sarebbe stato il Kgb, che controllava strettamente il vertice politico delle Brigate rosse, per evitare il distacco definitivo del Pci dall' Unione Sovietica. Gli americani sapevano, ma avevano lasciato fare, perché anche a loro tutti questi comunisti in libera uscita davano un certo fastidio. Ma quando Moro aveva cominciato a parlare e soprattutto a raccontare i segreti interni della Nato - gli americani si erano allarmati e avevano messo in piedi alla svelta un' operazione o una soluzione che nel libro viene definita "governata". Ed ecco apparire "out of the blue" Markevic, che in quegli anni viveva a Roma e frequentava palazzo Caetani, in via delle Botteghe Oscure (dove venne ritrovato il corpo di Moro), avendo sposato una cugina della proprietaria del palazzo, descritto come un covo di interessi anglo-americani, in coppia con Hubert Howard, il marito della proprietaria, un signore mitissimo, conosciuto da tutti per la sua passione per il giardinaggio e qui visto come uno spione di prima e definito con un soprannome minaccioso come "Il signore del gladio", con il compito di portare in salvo il leader democristiano, trattando lui direttamente con i brigatisti la liberazione. Quindi il suo ruolo sarebbe stato non più quello apocalittico di grande vecchio, ma di mediatore per conto Usa. Come ho detto all' inizio, credo che non sapremo mai come andarono effettivamente le cose e se i servizi delle massime potenze mondiali, che senza alcun dubbio misero più del naso nell' affare (altrimenti che ci stavano a fare?) abbiano effettivamente eterodiretto i brigatisti, che si sono rivelate non proprio delle aquile. Vorrei solo far notare che se gli americani avevano effettivamente paura delle rivelazioni di Moro, dal loro punto di vista sarebbe stato preferibile un Moro morto che un Moro vivo. Inoltre, come possono confermare tutti i più stretti amici di Markevic, già qualche anno prima del rapimento il musicista soffriva di malattie che non gli permettevano di prendersi cura di se stesso, per usare un eufemismo, figurarsi di organizzare i contatti con le Brigate rosse, di preparare nascondigli per l' uomo politico dentro o nelle vicinanze di palazzo Caetani e altre incombenze del genere. Ma questi errori concettuali e fattuali sono poca cosa rispetto all' esilarante affresco esoterico del libro, di cui vorrei dare un esempio, in particolare del nuovo metodo cabalistico di condurre le indagini di Fasanella e Rocca, servendosi del codice rosacrociano, applicato alla parola "Gradoli", evocata durante una scherzosa seduta spiritica tra professori universitari, tra i quali c' era Romano Prodi, che era anche il nome della via del rifugio delle Br: "Le lettere indicate dal piattino potevano essere lette come Grado-Li, grado 51. Si sarebbe rinviato, così, ad un livello ancora più occulto del trentatreesimo, il gradino più alto della loggia massonica conosciuta. Quale poteva essere questo misterioso Grado-Li? Un rarissimo testo pubblicato in Francia intorno al 1870 da Ely Star, pseudonimo di un seguace di Péladan e di Flammarion, intitolato Les misteres de l' Horoscope, svela che nel Cercle de la Rose Croix il grado LI corrisponde al Maître di Glaive, il Signore del Gladio. E l' autore precisa che non si parlava di épée ma di glaive: non spada, ma proprio "gladio"".





Vedi la scheda su gladio



Avvenimenti Italiani

La memoria non si archivia

Imposta HastaSiempre! come pagina iniziale










Edited by barionu - 6/5/2024, 10:05
CAT_IMG Posted: 1/5/2024, 19:33 TRADIZIONE CATTOLICA et igiene del corpo .... - Cristianesimo










--------------------



Donne, bambini, e persone impressionabili si astengano,
l'argomento che stò per trattare è terrificante :




trattasi de :

IL CATTOLICESIMO E LA CURA DEL CORPO.



Le notizie sono rade e trapelano a fatica.

La Chiesa Ufficiale ha tutto l' interesse nel tenere nascosto questo parente
neanche troppo lontano :

pochi lo sanno, ma l' usanza greco/romana della massima cura del corpo
e del lavarsi quotidianamente,

è tornata , lentamente, in auge solo a partire
dagli anni 20/30 del 900.

Dal IV Secolo fino a 1500 , astinenza totale,
dal 1700 , il lavarsi, tuttalpiù, era considerato, " un esotismo ",

importato dall'Oriente.

Infatti, atttorno, al 1550, i Gesuiti Portoghesi arrivarono in Giappone,
ma per i primi 100 anni circa, venivano, con mirabile logica pratica,

crocifissi immediatamente dai Samurai,
fu solo attorno al 1640 che i Gesuiti, avendo in mano il commercio della seta,

riuscirono a diventare indispensabili agli occhi dello Shogun,
e insieme ad altri occidentali iniziarono il commercio
della seta con il Giappone,

per contro, i Giapponesi chiamavano gli occidentali barbari,
per distinguerli dai Gesuiti, che venivano chiamati semplicemente, puzzoni.

Consiglio il bel libro di J. Clavell " Shogun ", per i dettagli.
www.libreriauniversitaria.it/shogun...o/9788845250965

Ma cos'era successo nei primi secoli del millennio ?

Dopo i Fasti Greci e Romani,
cui la storia ci evince nei racconti dei saggi, e nelle vestigia magnifiche
delle antiche terme,

i Padri della Chiesa,

Ambrogio, Girolamo, Agostino, Benedetto etc..,
svilupparono le allucinazioni antropiche di Paolo di tarso,

assimilando la cura del corpo
all'idea del peccato.

L'acqua era vista come
uno strumento lascivo del Diavolo.

Vi propongo una breve sintesi storica.

( SAN ) GIROLAMO

LETTERA XIY AL MONACO ELIODORO

XIV , 10 , 8

La tua pelle è ruvida e squamosa perché non fai più il bagno?

Colui che una volta è stato lavato in Cristo non ha bisogno di lavarsi di nuovo.


E questo è il PILASTRO, che ha dato il via a intere generazioni di Cattolici puzzoni .



Apre le danze, harp



SANTO BENEDETTO DA NORCIA ANNO DOMINI 480/547

il quale , nella sua famosa " Regola ", dispose
che si permettesse raramente il bagno ai Monaci.


Raccoglie l'invito

SANTA LANDRADA BADESSA DI BILSEN. IN BRABANTE. ( L ' attuale Belgio ) VII/VIII SECOLO

la quale, MAI si lavò in tutta la sua vita.

Le cronache narrano che " li malvagi briganti
vuolevansi husarle violenza, ma lo Signore li faceva cadere " .... stecchiti già a 100 metri di distanza.

Rincara la dose

SANTO FRANCESCO DA ASSISI PATRONO D' ITALIA 1182/1226

per il quale " li pidocchi erano da considerarsi Cristianamente come Fratelli,"
compiacendosi di averne grande abbondanza per tutto il corpo.

Ciò spiega perchè allora gli Angeli et i Profeti non apparissero " Biblicamente "
in carne e ossa, ma optassero prudentemente per una forma " in visione ".


Si adegua

SANTA CATERINA DA SIENA 1347/1380

la quale, nelle sue epistole insegna
" che i lavamenti non sono propri della Sposa di Cristo. "

Fulminata a 33 anni da un ' infezione virale.

E proseguiamo fino agli orrori dell'età barocca,
con il Re Sole e i Principi del seguito che accedevano al bagno ogni 4/5 anni.

( una curiosità, sembra che gli avvistamenti di UFO in quel periodo
siano partIcolarmente scarsi ). spacecraft


Ma non manca qualche voce eroica di contrasto


BARONE PAUL HEHRI DIETRICH 1723/1789 ( Un ateo ! )

" Io mi lavo ALMENO due volte l'anno
che ne abbia bisogno o no ! mf_gentleman



Fanalino di coda


SAN GIUSEPPE LABRE 1748/1783

Il quale, celebre " viandante " si compiaceva di emulare San Francesco nella Santa Fratellanza
con li pidocchi.



Consiglio, per approfondimenti, previa una scorta di MOM, il seguente link.

www.tecalibri.info/S/SORCINELLI-P_acqua.htm

scritti di Paolo Sorcinelli

www.google.it/webhp?sourceid=chrom...+cura+del+corpo

anche

www.perinijournal.it/Items/it-IT/Ar...dente-medievale




In sintesi, tutti i personaggli di cui sopra, niente da di dire,
per carità, tutte brave persone,

ma su questo dettaglio,

Eminenza,

ci sia consentito dissentire ( et inorridire ).



zio bert

gif



-----------------------------




L’AMORE E L’IGIENE NEL 1600 1700 😱
Visitando il palazzo di Versailles a Parigi, si nota che il sontuoso palazzo non ha bagni.
In quel periodo non c'erano spazzolini da denti, profumi, deodoranti, figuriamoci la carta igienica. Gli escrementi umani venivano lanciati dalle finestre del palazzo.
In un giorno di festa, la cucina del palazzo poteva preparare un banchetto per 1500 persone, senza la minima igiene.
Nei film attuali vediamo le persone di quell'epoca sventolarsi con il ventaglio...
La spiegazione non è per il caldo, ma per il cattivo odore che emettevano sotto le gonne (che tra l’altro sono state fatte apposta per contenere l'odore delle parti intime, visto che non c'era igiene).
Non era abitudine fare la doccia a causa del freddo e della quasi mancanza di acqua corrente.
Solo i nobili avevano dei lacchè per ventagli, per dissipare il cattivo odore che emettevano il corpo e la bocca, oltre a scacciare gli insetti.
Coloro che sono stati a Versailles hanno ammirato gli enormi e bellissimi giardini che all'epoca non solo erano contemplati, ma erano usati come gabinetti nelle famose ballate promosse dalla monarchia, perché appunto non c'erano bagni.
In quel periodo la maggior parte dei matrimoni si svolgevano in giugno (per loro l'inizio dell'estate). Il motivo è semplice: il primo bagno dell'anno si faceva a maggio; quindi a giugno l'odore della gente era ancora tollerabile.
Tuttavia, poiché alcuni odori iniziavano già a disturbare, le spose portavano mazzi di fiori vicino al loro corpo per coprire la puzza. Da qui la spiegazione dell'origine del bouquet da sposa.
I bagni erano fatti in una sola vasca enorme piena di acqua calda. Il capo della famiglia aveva il privilegio del primo bagno in acqua pulita. Poi, senza cambiare l'acqua, arrivavano gli altri in casa, in ordine di età, donne, anche per età e infine bambini.
I bambini erano gli ultimi a fare il bagno. Quando arrivava il suo turno, l'acqua nella vasca era così sporca che era possibile uccidere un bambino all'interno.
Le persone più ricche avevano i piatti di lattina. Alcuni tipi di cibo arrugginivano il materiale, causando la morte a molte persone per avvelenamento.
Ricordiamoci che le abitudini igieniche dell'epoca erano terribili.
I pomodori, essendo acidi, sono stati considerati velenosi per molto tempo, le tazze di latta venivano usate per bere birra o whisky; questa combinazione, a volte, lasciava l'individuo "a terra" (in una sorta di narcolessia indotta dalla miscela di bevanda alcolica con ossido di stagno).
Qualcuno che passava per strada avrebbe pensato che fosse morto, quindi raccoglievano il corpo per prepararlo per il funerale.
Poi il corpo veniva messo sul tavolo della cucina per alcuni giorni e la famiglia continuava a guardare, mangiare, bere e aspettare di vedere se il morto si svegliava o no. Da qui nasce la veglia ai morti che sarebbe la veglia accanto alla bara.
Non c'era sempre posto per seppellire tutti i morti. Poi si aprivano le bare, si rimuovevano le ossa, si mettevano in ossari e la tomba veniva usata per un altro cadavere.
A volte, aprendo le bare, si notava che c'erano dei graffi sui coperchi all'interno, il che indicava che l'uomo morto in realtà era stato sepolto vivo.
Così, chiudendo la bara, è nata l'idea di legare una striscia del polso del defunto, passarla attraverso un buco fatto nella bara e legarla a una campana.
Dopo il funerale, qualcuno era rimasto in servizio vicino alla tomba per alcuni giorni. Se l'individuo si fosse svegliato, il movimento del suo braccio avrebbe suonato la campana. E sarebbe "salvato dalla campana", che è popolare espressione usata da noi fino ad oggi.
Quello che facciamo oggi per tradizione, lo facciamo senza sapere.
E seguiamo le tradizioni solo per sentito dire.
Come carnevale, Halloween, etc…
A volte il miglior alleato per uscire dall'ignoranza è la lettura.




Preso da Juan Jaime Montoya ( correzioni , traduzione,sistemazioni da Monya)
🌿Pietre: Bosco e Magia










CAT_IMG Posted: 29/4/2024, 13:59 CASO MORO 6 IL MEMORIALE - ZIO OT DICE LA SUA












Capitolo V

Il memoriale di Aldo Moro.





A trentacinque anni dal rapimento e dall’assassinio di Aldo Moro restano
duecentoquarantacinque fotocopie del suo memoriale, una riproduzione degli autografi
dell’interrogatorio al quale venne sottoposto il leader democristiano durante la sua
prigionia. Il documento venne ritrovato in tre diversi momenti, nell’arco di dodici anni.
Otto pagine vennero allegate al comunicato numero cinque delle Brigate rosse, datato
10 aprile 1978, mentre quarantanove fogli furono ritrovati durante il sequestro dei
Carabinieri nel covo brigatista in via Monte Nevoso, il 1 ottobre dello stesso anno.
Durante dei lavori di ristrutturazione nello stesso appartamento, tenuto per anni sotto
sequestro, il 9 ottobre 1990 venne recuperata la terza parte. Un documento manoscritto,
poi battuto a macchina e fotocopiato dai carcerieri, che fu occultato, censurato e
disperso. Carmine Pecorelli, attraverso gli articoli di «Osservatore politico», lasciò
intendere d’aver visionato già dal 1978 la versione ritrovata ufficialmente nel 1990.


Le tre parti del memoriale

Il procedimento di stesura del memoriale dal carcere del popolo risultò complesso ed
articolato. Aldo Moro rispondeva in forma scritta ai quesiti delle Brigate rosse, le sue
risposte venivano battute a macchina e consegnate ad un comitato Br che valutava ed
eventualmente correggeva il testo. Successivamente la correzione veniva riconsegnata al
leader Dc, che riscriveva il testo a mano. Questi testi furono oggetto di studio da parte
dei massimi vertici politici italiani e dalla Stampa che, cercando d’interpretarne il
significato, si domandarono quanto vi fosse realmente di Moro in quelle parole. Lo
scritto contro Taviani, ad esempio, presentò alcune anomalie ed errori che suscitarono
perplessità nel gruppo democristiano. Il prigioniero attaccò lo «smemorato» Taviani, reo
d’aver smentito un’affermazione di Moro contenuta nella lettera a Zaccagnini del 4
aprile 1978. In questa nota il leader democristiano sostenne d’esser stato favorevole, nel
1974, alla trattativa per la liberazione del magistrato Mario Sossi255.




L’accusa destò
255 L’operazione «Girasole» avvenne a Genova il 18 aprile 1974. Mario Sossi, sostituto procuratore della
Repubblica presso la Corte di Genova e Pubblico Ministero nel processo al Gruppo XXII Ottobre nel
99
perplessità non solo per l’inesattezza della dichiarazione, in quanto Moro durante il
sequestro Sossi fu realmente per la non trattativa, ma in virtù del fatto che Emilio
Taviani fu uno dei pochi membri del partito a dichiararsi assolutamente disposto a
trattare con le Br per Moro. Taviani ed il gruppo democristiano si domandarono se
questo attacco ingiustificato potesse racchiudere qualche significato nascosto256. Lo
stesso accusato si domandò se Moro, correlando il sequestro del magistrato della Procura
della Repubblica di Genova e l’attacco rivoltogli, volesse far capire d’esser prigioniero
della colonna genovese. A distanza d’anni e con il Memoriale completo delle sue tre
parti, si è in grado di ricostruire e comprendere in maniera più esaustiva i significati ed i
collegamenti scritti dal leader democristiano durante la sua prigionia. I segnali di Moro a
Taviani furono diversi. In un brano dell’interrogatorio, Moro raccontò una conversazione
avuta con il deputato Franco Salvi, capo della sua segreteria politica fino al 1963,
riguardante la strage di piazza della Loggia257 a Brescia nel 1974




. Secondo Salvi, in
ambienti giudiziari bresciani si diffuse la convinzione che la Democrazia cristiana fosse
stata troppo indulgente sull’accaduto258. Aldo Moro ricordò nei dettagli la risposta data a
Salvi: «l’accusa, nata dall’effervescenza dell’emozione e vociferazione, era priva di ogni
consistenza. Ma auspicava che il deputato bresciano, non fosse come altri uno
“smemorato259”». In quell’attentato morì anche una parente di Salvi, che Moro non
mancò di citare nei suoi scritti. Una disperata strategia per comunicare con l’esterno
senza che i suoi carcerieri se ne rendessero conto. Una meticolosità nel descrivere
particolari dettagli, quasi a voler smentire i giornali che durante il sequestro parlarono di
un Moro «stoccolmizzato» o peggio, drogato dai suoi carcerieri. In un altro passo del
Memoriale ritornò sulla vicenda Salvi, raccontando ulteriori precisi dettagli e
1973, venne rapito sotto casa verso le otto di sera. Le Brigate rosse chiesero la liberazione dei loro
compagni in cambio della vita del magistrato. Venne rilasciato a Milano il 23 maggio 1974.
256 «Non mancarono quanti sospettarono la presenza di anagrammi e di messaggi in cifra nascosti tra le
righe. In un appunto datato 28 ottobre 1978 il giornalista dell’Ansa Marcello Coppetti annotò che un suo
collega de “Il Popolo” gli aveva rivelato come, durante il sequestro, avesse saputo che proprio nella
lettera su Taviani era presente una frase anagrammata che suonava così: sono sequestrato nei pressi della
Cassia. Coppetti, non poteva esimersi dall’osservare che via Gradioli, si trovava nei pressi della Cassia»,
MIGUEL GOTOR, Il memoriale della Repubblica, Einaudi, Torino 2011, p. 32.
257 La strage di piazza della Loggia avvenne il 28 maggio 1974 a Brescia, nella centrale piazza della
Loggia. Una bomba nascosta in un cestino portarifiuti fu fatta esplodere mentre era in corso una
manifestazione contro il terrorismo neofascista. L'attentato provocò la morte di otto persone e il ferimento
di altre centodue.






258 «In ambienti giudiziari bresciani si era sviluppata la convinzione d’indulgenze e connivenze della Dc e
si faceva il nome dell’On. Fanfani», GOTOR, Il memoriale della Repubblica, p. 25.
259 Ivi, p. 26.
100
commettendo due errori di rilievo. Il primo errore fu cronologico, quando la strage venne
collocata nel 1969; mentre la seconda svista riguardò gli incarichi costituzionali, dove
Moro invertì come ministro degli Interni Rumor al posto di Taviani. Il suo continuo
richiamo negli scritti di Moro e le due sviste narrative portarono a teorie non verificabili.
Probabile che Aldo Moro volesse tirare in ballo Emilio Taviani per alludere a Gladio e
convincere i pochi coinvolti ad utilizzare l’organizzazione per liberarlo dalle Brigate
rosse260.





Con l’operazione «Jumbo» del 1 ottobre 1978 il nucleo speciale del generale Carlo
Alberto Dalla Chiesa colpì tre covi brigatisti situati nel quartiere milanese di Lambrate.
Nell’appartamento in via Monte Nevoso 8 venne scoperto un archivio, catalogato con
maniacale precisione, delle attività Br dal 1970 al 1978, un paio di macchine da scrivere
Olivetti (Lettera 35 e 32), centinaia di appunti fitti di analisi economiche, rassegne
stampa e diari. La scoperta più importante furono le due cartelline di colore azzurro
contenenti settantotto fogli dattiloscritti, di cui quarantanove fogli appartenenti al
Memoriale Moro. La verbalizzazione dei reperti presenti nel covo durò per cinque giorni
al termine dei quali i Carabinieri furono obbligati a lasciare l’appartamento. «La
decisione di ritirare i militari speciali in favore di quelli territoriali sarebbe stata il
prodotto di un compromesso ai vertici dell’Arma per evitare l’esplosione di un conflitto
aperto dalle imprevedibili conseguenze261».





In base alla versione ufficiale l’itinerario a
noi noto dei dattiloscritti di Moro fu il seguente:
nel pomeriggio del Iº ottobre Dalla Chiesa fece un breve sopralluogo nel covo con il
procuratore della Repubblica di Milano Mauro Gresti e il giudice istruttore di Roma
Achille Gallucci, nel frattempo giunto in aereo dalla capitale. Le carte di Moro
verbalizzate furono richieste in copia all’autorità giudiziaria dal ministro dell’Interno
Virginio Rognoni ai sensi del decreto del 21 marzo 1978. Secondo il generale Bozzo
vennero fotocopiate in via Moscova e dunque portate fuori dall’appartamento
quando erano già state verbalizzate per essere consegnate l’indomani dal generale
Dalla Chiesa nelle mani del ministro; secondo Rognoni il ricevimento della
documentazione sarebbe avvenuto dopo qualche giorno. A seguito di un’opportuna
260 VLADIMIRO SATTA, Odissea nel caso Moro. Viaggio controcorrente attraverso la documentazione
della Commissione Stragi, Edup, Roma 2008, p. 331.
261 GOTOR, Il memoriale della Repubblica, p. 58.
101
valutazione politica, il governo per volontà del ministro dell’Interno, decise di
pubblicarle per evitare polemiche, strumentalizzazioni ed eventuali fughe di
notizie262.




Il colonello Umberto Bonaventura, durante un’audizione della Commissione stragi del
23 maggio 2000, dichiarò che i documenti di Moro furono prelevati da Monte Nevoso
prima della verbalizzazione, per essere fotocopiati e consegnati al generale Dalla Chiesa.
Ma il 1 luglio 2000 il colonnello del Sismi, davanti alla magistratura romana, affermò
d’essersi sbagliato e corresse la sua versione ribadendo che le carte furono sottratte dopo
la loro verbalizzazione263. Nel suo libro di memorie, il capitano dei carabinieri Roberto
Arlati, presente durante l’irruzione nel covo brigatista, confermò la prima versione di
Bonaventura. Le carte uscirono alle ore 11 del 1 ottobre, sostarono nella sede dei
carabinieri di Milano in via della Moscova fino alle 17.30 e poi fecero ritorno nel covo,
dopo essere state esaminate dal generale Dalla Chiesa. Solo allora vennero verbalizzate.
Sostenne che Bonaventura prelevò le carte contro la sua volontà perché Dalla Chiesa
le voleva leggere in privato. Arlati avrebbe voluto che l’ufficiale fosse scortato da un
altro carabiniere, ma Bonaventura gli rispose nel modo più insinuante possibile
nell’ambito di un rapporto gerarchico fra militari e non solo: «E che fai, non ti fidi di
me? Tranquillo, giusto il tempo tecnico delle fotocopie. Ti faccio riavere tutto.
Insomma Roberto, te lo già detto. Faccio fare le fotocopie e ti restituisco il tutto»264.
Per Arlati l’incartamento, al ritorno in via Monte Nevoso, sembrò «lievemente più magro
di quello che aveva affidato al mattino a Bonaventura», inoltre sette ore parvero
decisamente troppe per una semplice commissione di fotocopiatura. Considerando che
Bonaventura ritrattò, trentacinque anni dopo i fatti, vi sarebbe dunque solo un testimone
oculare in grado d’affermare che i dattiloscritti uscirono dal covo prima di venire
verbalizzati.





Il dubbio sulla testimonianza di Arlati è legittimo, e restano inspiegabili le
motivazioni per cui il capitano abbia deciso di cambiare versione solo dieci anni fa,
262 Ivi, p. 60.
263 MANLIO CASTRONUOVO, Vuoto a perdere. Le Brigate rosse, il rapimento, il processo e
l'uccisione di Aldo Moro, Besa 2008, p. 414.
264 GOTOR, Il memoriale della Repubblica, p. 62.
102
ricordando la sua indignazione, dopo la scoperta nell’intercapedine dell’appartamento
nel 1990, per coloro che azzardarono un’ipotesi di sparizione di materiale documentale.
Anche la magistratura milanese dichiarò davanti alla Commissione stragi di ritenere che i
carabinieri non potessero aver compiuto tale atto, difendendo la memoria di Dalla
Chiesa265. In un’intervista del Corriere della Sera del 19 aprile 1993, inoltre, Franco
Bonisoli, ex brigatista presente alla strage di via Fani, affermò che tutti gli interrogatori
dell'onorevole Moro furono ritrovati e pubblicati.
Per quanto riguarda le carte ritrovate nel 1990 sono convinto che si sia trattato di un
errore umano. E mi spiego. Quando mi arrestarono, pensai: hanno trovato le carte di
Moro. Erano, infatti, lì nel mio appartamento. Qualche giorno dopo, quando lessi il
verbale della perquisizione, fatto dai carabinieri, e non trovai segnate quelle carte,
oltre a cinquanta milioni che erano sempre conservati in via Monte Nevoso,
cominciai però a dubitare. Vuoi vedere che qualcuno all' interno degli apparati dello
Stato li ha trafugati? Era un chiodo fisso: vogliono eliminare, continuavo a ripetere,
la prova che il contenuto dei dattiloscritti di Moro, già pubblici, è autentico. Nel
1990, all'indomani della seconda scoperta di via Monte Nevoso, fui interrogato dal
sostituto procuratore Ferdinando Pomarici. Mi mostrò le foto del covo scattate dai
carabinieri dopo l'irruzione nel 1978. Riuscimmo a fare una ricostruzione dettagliata
di quanto avvenuto. Capii che i carabinieri dei nuclei speciali, che noi delle Brigate
Rosse consideravamo infallibili, avevano commesso un errore. Nell'appartamento
c'era tanto materiale. Moltissimi documenti. Ovunque. Ebbene, quegli stessi
carabinieri non avevano ritenuto necessario cercare ulteriori piccoli e normalissimi
nascondigli. […





] Era un nascondiglio che ritenevamo una semplice precauzione nel
caso fossero entrati in casa o ladri o persone comunque esterne all'organizzazione.
Mi sembra normale. Le fotocopie integrali degli interrogatori di Moro erano in quel
nascondiglio266.
265 «Non in questo caso, in particolare non con quei carabinieri. Con loro, ho condiviso più notti di quante
non ne trascorressi a casa mia in quel periodo con i miei figli», il pubblico ministero Armando Spataro
alla Commissione Stragi, Ivi, p. 67.
266 Intervista a Franco Bonisoli, «Corriere della Sera», 19 aprile 1993.
103
Nel 28 maggio 1993, l’ex sottosegretario di Stato alla presidenza del Consiglio dei
ministri, Franco Evangelisti raccontò di un incontro notturno avuto con Dalla Chiesa
l’indomani di Monte Nevoso.
Venne a trovarmi verso le due di notte e mi fece leggere un dattiloscritto di circa
cinquanta pagine, nelle quali si parlava anche di me, e mi disse che proveniva da
Moro e che il giorno successivo lo avrebbe consegnato ad Andreotti. Non ho saputo
se effettivamente Dalla Chiesa si sia recato da Andreotti267.
Il 6 ed il 7 ottobre 1978, «Repubblica» pubblicò tre articoli riguardanti presunte
rivelazioni sulle carte di Moro sottratte dal covo brigatista. Si tratta degli articoli di
Giorgio Battistini Altre due lettere inedite e Tutto contro Andreotti il memoriale di Moro.
Sono stati svelati anche segreti di Stato? ed Il generale tace e il giudice ignora di
Giorgio Bocca. Sebbene inizialmente questi articoli causarono un caos politico, la scelta
dei giornalisti di mantenere segreta la loro fonte rese inattendibile e quasi fantasiosa la
denuncia di Repubblica. La fonte segreta venne rivelata nel processo di Palermo contro
Giulio Andreotti del 7 novembre 1995. Battistini confessò d’aver avuto una serie
d’incontri segreti con il generale dei carabinieri Enrico Galvaligi, uomo fidato di Dalla
Chiesa.




Galvaligi mi disse che il generale Dalla Chiesa era entrato nel covo di via Monte
Nevoso alcune ore prima che arrivassero i magistrati e che con il materiale originale
rinvenuto (una settantina di cartelle dattiloscritte con errori di battitura, un nastro
registrato e/o una videocassetta) era stato portato a Roma da due ufficiali dei
carabinieri “a qualcuno molto in alto… a chi di dovere. Galvaligi usò queste
espressioni, ma non volle assolutamente farmi il nome di questa persona, che
comunque non apparteneva né alla magistratura, né all’Arma dei Carabinieri, bensì
al mondo politico istituzionale. Aggiunse che il materiale portato a Roma conteneva
parti in cui Moro parlava in termini molto duri di fatti riguardanti Andreotti. Parlava
di questo materiale e del suo contenuto in termini tali da indurmi a pensare che egli
l’avesse personalmente visionato268.




267 Franco Evangelisti cit. in GOTOR, Il memoriale della Repubblica, p. 105.
268 Giorgio Battistini cit. in GOTOR, Il memoriale della Repubblica, p. 97.
104
A seguito di tale incontro, il giornalista tornò in redazione e raccontò di quanto avvenuto
al direttore del giornale, Eugenio Scalfari. Quest’ultimo suggerì di contattare
telefonicamente Galvanigi per assicurarsi che fosse la stessa persona incontrata da
Battistini. Confermata l’identità dell’uomo decisero di pubblicare la notizia tacendo la
fonte e sdoppiando la responsabilità della pubblicazione, coinvolgendo anche una firma
di prestigio del quotidiano come Giorgio Bocca. La versione dei fatti venne confermata
davanti ai magistrati da Scalfari, Giorgio Bocca e da Giampaolo Pansa, anche lui al
corrente dei fatti. Il militare chiese un ulteriore incontro con Battistini il giorno
successivo, il 7 ottobre 1978.





In quella circostanza precisò che nel memoriale si affrontavano diciassette
argomenti, dall’inizio della militanza politica di Moro nell’azione cattolica, ai
rapporti internazionali, ai servizi segreti e ai misteri di Stato e che, in alcuni di essi,
Moro attaccava pesantemente il presidente del Consiglio Giulio Andreotti269.
Negli anni successivi al rapimento Moro, dunque, una serie di dichiarazioni lasciarono
intendere che più di un testimone oculare avesse letto già dal 1978 la versione che
venne ritrovata ufficialmente solo nel 1990. Altri testimoni affermarono d’aver
visionato un’ulteriore versione di memoriale che non corrispose, per ampiezza, ai
dattiloscritti divulgati dal governo il 17 ottobre 1978 ed alle riproduzioni dei manoscritti
ritrovati nel 1990. Tra questi, Carmine Pecorelli.
«Osservatore politico» contro lo Stato.




Nell’articolo del 10 ottobre 1978 Verità di ieri tragedie di oggi, Carmine Pecorelli
risollevò la questione della trattativa per la liberazione di Moro. Prendendo ad esempio i
segreti accordi dello Stato con i terroristi palestinesi, liberazione di prigionieri politici in
cambio d’immunità terroristica territoriale, colse l’occasione per aggredire le scelte
politiche nei confronti delle Brigate rosse.
269 Ivi, p. 98.
105
Con assoluta lucidità mentale (dove sono andate a finire le menzogne di Zaccagnini
e Cossiga a proposito di Moro drogato, Moro fuori di sé, Moro impazzito?) [nelle
sue lettere] Moro ha tracciato una perfetta analogia tra la sua condizione di
prigioniero minacciato di morte da terroristi politici organizzati e quella di tanti e
tanti innocenti e ignari italiani che negli ultimi anni hanno corso il pericolo di
perdere la vita in attentati e stragi minacciati dai palestinesi. «Dunque non una ma
più volte furono liberati con meccanismi vari palestinesi detenuti ed anche
condannati, allo scopo di stornare gravi rappresaglie che sarebbero state poste in
essere se fosse continuata la detenzione». Moro si riferisce a quell’accordo anomalo
stabilito al di fuori dello Stato ma sotto il controllo dello Stato, grazie al quale l’Italia
non è stata teatro di quei dirottamenti aerei, stragi ed attentati che tante vittime e
danni hanno provocato in Europa a partire dal’72. In quell’anno agenti del Sid
informarono il governo che terroristi palestinesi stavano preparando attentati agli
aeroporti italiani. Rumor e Moro giudicarono che l’unica strada per impedire che
l’Italia diventasse terreno di manovra dei palestinesi era quella di trattare con
Habash270 una sorta di mutuo patto di non aggressione. L’accordo stabilito dal Sid,
con l’unica misteriosa eccezione della strage di Fiumicino271, fu sempre rispettato. A
questo punto non resta che da chiedersi perché quelle trattative anomale impossibili
ed inammissibili in forma ufficiale, ma tuttavia stabilite dal superiore interesse dello
stato con i terroristi palestinesi, sono state prontamente scartate quando si trattava di
salvare la vita di Moro. Perché si è preferito seguire la grottesca via di Cossiga con i
suoi blocchi stradali, le mobilitazioni generali dell’esercito, le perquisizioni a caso su
interi quartieri, una via buona per far saltare i nervi ai custodi di Moro, e avvicinare
l’ora della tragedia finale, quando l’unica strada vincente conosciuta dallo Stato, una
strada che avrebbe consentito alle istituzioni di uscire dalla vicenda Moro con
fermezza e dignità rafforzate, era quella di trattative, anche se lunghe e laboriose?272
«Osservatore politico» ripropose la tesi secondo la quale i brigatisti si sarebbero potuti
accontentare di uno scambio simbolico da parte dello Stato, proprio come con i
270 George Habash fu il fondatore del Movimento nazionalista arabo, dalla cui sezione palestinese nacque
il Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina nel 1967.




271 Il 27 dicembre 1985 un gruppo di uomini armati, dopo aver gettato bombe a mano, aprirono il fuoco
con raffiche di mitra sui passeggeri in coda per il check-in dei bagagli presso gli sportelli della compagnia
aerea nazionale israeliana El Al e della americana TWA, colpendo le loro vittime in modo indiscriminato.
272 Verità di oggi tragedie di oggi, «Osservatore politico», 10 ottobre 1978.
106
palestinesi. Allo stesso tempo mosse il dubbio che la liberazione del prigioniero sarebbe
potuta risultare scomoda per alcune strutture statali.
Ieri, trattare con i palestinesi non provocava alterazioni negli equilibri politici di
Montecitorio, Piazza del Gesù e Palazzo Chigi. Trattare con le Br invece, seguire la
via delle lettere, riportare Moro sano e salvo alla guida della Dc o addirittura al
Quirinale, avrebbe provocato un terremoto: il recupero di quelle strutture dello Stato
colpevolizzate e emarginate grazie ad istruttorie giudiziarie pilotate, e la fine della
cordiale, troppo cordiale intesa, tra il Partito comunista di Berlinguer e la Dc di
Zaccagnini. Per scongiurare pericoli del genere, è piccola cosa anche un sacrificio
umano. Dio solo sa quanto male può venire da questo male273.
Pecorelli incalzò la sua tesi nel successivo articolo del 17 ottobre 1978:
Diciamolo chiaro, in agosto Dalla chiesa sapeva già come e dove colpire le Br.
Probabilmente avrebbe saputo cosa fare anche in epoca precedente. Allora perché si
è ricorsi a lui soltanto a settembre? Perché non si è chiamato Dalla Chiesa subito
dopo la strage di via Fani, quando Moro, ancora vivo, era nelle mani delle Br? Uno
Stato, forte di un Dalla Chiesa, avrebbe potuto avviare trattative con i terroristi con
grosse probabilità di successo, specie disponendo di qualche buona pedina di
scambio. Purtroppo non era gradito alla maggioranza dell’arco quel “partito delle
trattative” che consigliava non già di cedere alla violenza, ma di salvare la vita di
Moro attraverso più duttili e meno pubblicizzati comportamenti dello Stato e delle
forze dell’ordine. Cossiga e Pecchioli, Zaccagnini e Berlinguer, intendevano
sfruttare l’emozione popolare provocata dal sequestro Moro per costruire un partito
unico, “cattocomunista”, e chiamavano a raccolta le piazze “bianche” e “rosse” in
nome di una non meglio precisata emergenza. Prima di rivolgersi all’Arma dei
carabinieri, prima di unificare nelle mani di un vero tecnico il comando
dell’antiterrorismo, hanno preferito attendere che si maturasse l’uva e si compisse il
peggio274.




273 Ibidem.
274 Perché solo adesso?, «Osservatore politico», 17 ottobre 1978.
107
Nel successivo articolo, pubblicato sotto forma di lettera al direttore, un immaginario
abbonato di «Op» pose al giornalista delle domande alla quale Pecorelli rispose
immediato. Si tratta di un testo pieno d’allusioni, virgolette, punti di sospensione, in un
immaginario botta risposta.
Signor Direttore, permetta un piccolo scritto da un suo affezionato lettore, che dopo
l’estate si è posto una domanda: «Cossiga sa tutto su Moro ma non parla?». E si è
risposto da solo: «non parlerà mai, altrimenti…» […]. Dice: ma il ministro non ne
sapeva niente, la Digos non ha scoperto nulla. I servizi poi… Si ribatte: il ministro di
polizia sapeva tutto, sapeva persino dov’era tenuto prigioniero; dalle parti del
ghetto… Dice: il corpo era ancora caldo… perché un generale dei Carabinieri era
andato a riferirglielo di persona nella massima segretezza. Dice: perché non ha fatto
nulla? Risponde: il ministro non poteva decidere nulla su due piedi, doveva sentire
più in alto e qui sorge il rebus: quanto in alto, magari sino alla loggia di Cristo in
Paradiso?275




Secondo questo articolo la prigione di Moro venne individuata senza nessuna difficoltà
dalla polizia che sarebbe stata bloccata da Cossiga. Il ministro, prima d’agire, avrebbe
dovuto consultare quella che Pecorelli definì «entità superiore», probabilmente
alludendo alla Loggia massonica Propaganda Due276.
Fatto sta, si dice, che la risposta il giorno dopo di quando il ministro la sentenziò fu
lapidaria: «Abbiamo paura di farvi intervenire perché se per caso ad un carabiniere
parte un colpo e uccide Moro, oppure i terroristi lo ammazzano, poi chi se la prende
la responsabilità?». Risposta da prete. Non se ne fece nulla e Moro fu liquidato
perché se la cosa si fosse risaputa in giro avrebbe fatto il rumore di una bomba! […]
C’è solo da immaginarsi, caro Direttore, chi sarà l’Anzà277 della situazione: ovvero
275 Caso Moro: il ministro non sapeva?, «Osservatore politico», 17 ottobre 1978.
276 «Un superpotere che il giornalista insinua essere la P2 con le parole “due piedi” e “loggia di Cristo”»,
FLAMIGNI, Le Idi di marzo, p. 370.
277 «Il generale Antonino Anzà venne ritrovato morto nel suo studio il 12 agosto 1977. L’ufficiale era
stato colpito da un colpo di pistola alla testa, nella sua casa di Roma. L’immediata versione dei fatti
attribuisce il decesso al suicidio, ma l’arma era appoggiata alla scrivania, a due metri di distanza dal
corpo. Qualche giorno prima, a Messina, anche il colonnello Giansante venne ritrovato morto. In quel
periodo, si scoprirà successivamente, erano in gioco gli avvicendamenti al vertice degli stati maggiori di
Esercito e Difesa ed all’interno dei Corpi erano sorte faide per aspirare alle due cariche», GUARINO –
108
quale generale dei Cc sarà ritrovato suicida con una classica revolverata che fa tutto
da se, o col solito incidente d’auto radiocomandato, o la sbadataggine dei camionisti
spagnoli, o d’elicottero278. Sotto a chi tocca: chi sfida l’Internazionale fa questa fine
in questa Italia democratica. […] Purtroppo il nome del Generale Cc è noto279:
Amen280.






Tracce del memoriale negli articoli di «Osservatore politico». Pecorelli sapeva?
Nel’articolo del 17 ottobre 1978 intitolato Fase di attesa, il giornalista espresse i suoi
dubbi sulla effettiva quantità di materiale sequestrato nel covo di Monte Nevoso. Con
toni interrogativi espresse la sua convinzione riguardo alla possibilità che determinate
prove scomode potessero essere state insabbiate, tra le quali accennò ad un verbale e ad
alcune bobine degli interrogatori effettuati dalle Br con il prigioniero.
Il fatto politicamente più importante è stato certamente la brillante operazione
condotta dai Carabinieri del generale Dalla Chiesa contro le Brigate rosse a Milano
che ha tuttavia aperto, come è ormai consuetudine, numerose polemiche circa il
numero e l’identità degli arrestati, circa la quantità e la qualità del materiale
sequestrato. Ci sono o non ci sono le bobine con gli interrogatori di Moro, c’è o non
c’è il memoriale-verbale di questi stessi interrogatori? I magistrati sono arrivati
buoni ultimi a prendere visione di tutto ciò, e quali politici ne sono già al corrente
avendo avuto la possibilità di operare qualche prudenziale censura?281
Il primo indizio d’una lettura precoce del memoriale da parte di Pecorelli lo si può
trovare nello stesso numero di «Osservatore politico», nell’articolo Necrologi &
Memoriali. In tale scritto il giornalista commentò la morte, avvenuta a Lugano il 29
settembre 1978, del politico democristiano Giuseppe Arcaini. Deputato alla Costituente e
sottosegretario al Tesoro dal 1954 al 1957, Arcaini venne nominato direttore dell’istituto
RAUGEI, Gli anni del disonore. Dal 1965 il potere occulto di Licio Gelli e della loggia P2 tra affari,
scandali e stragi, Dedalo, Bari 2006, p. 155.
278 Carmine Pecorelli si riferì al generale dell’Arma dei carabinieri Enrico Mino, coinvolto in un incidente
mortale, dalle circostanze misteriose. L’elicottero precipitò su monte Covello, Catanzaro, il 31 ottobre
1977, FLAMIGNI, Le Idi di marzo, p. 370.
279 «Qui Pecorelli allude in modo piuttosto chiaro al generale Dalla Chiesa», Ibidem.
280 Caso Moro: il ministro non sapeva?, «Osservatore politico», 17 ottobre 1978.
281 Fase di attesa, Ivi, 17 ottobre 1978.
109
di Credito delle Casse di Risparmio italiane, chiamato Italcasse. Coinvolto nello
“scandalo Italcasse”, si dimise nel 1977 con l’accusa di peculato, interesse privato verso
alcuni fondi neri e mutui concessi ad amici imprenditori ed al mondo politico. Nel
1977282 «Osservatore politico» pubblicò l’elenco, completo di codici bancari, di una
serie d’assegni incassati dalla Democrazia cristiana, in particolar modo da Andreotti, in
cambio di finanziamenti agevolati e contributi a fondo perduto283. Nel numero del 17
ottobre 1978 Pecorelli scriveva:
Morto il grande elemosiniere, i grandi elemosinati sono usciti dall’incubo. Arcaini
ha comunque lasciato in mani sicure un lungo memoriale per difendere il suo onore e
quello dei figli. Che succederebbe se nei prossimi giorni alle lettere di Moro si
aggiungesse la voce di questo secondo sepolcro?284
Il dato rilevante è l’appellativo con cui Pecorelli definì Arcaini «grande elemosiniere».
In relazione al direttore di Italcasse Aldo Moro usò la stessa denominazione, sebbene il
riferimento sia riscontrabile solamente nella versione del memoriale ritrovata
ufficialmente nel 1990. Pecorelli inoltre si ripeté nell’articolo Intanto Caltagirone si
compra un’altra banca del 24 ottobre 1978, collocando la stessa espressione tra le
virgolette. Tale accorgimento potrebbe apparire come una chiara intenzione, del
direttore Op, di dimostrare la sua pericolosa conoscenza riguardo gli interrogatori Br e
la vicenda Italcasse. Nel 1978 l’unico accenno allo scandalo si trovò negli articoli di
Galvaligi pubblicati da Repubblica, sebbene poco rilevanti poiché riferiti a dattiloscritti
non firmati e dunque non attribuibili ad Aldo Moro. Sebbene non vi sia certezza
riguardo la prematura visione degli scritti morotei da parte di Carmine Pecorelli, né si
conoscono le reali intenzioni del giornalista, «Osservatore politico» continuò ad offrire
indizi che potrebbero avvalorare tale ipotesi. Li riscontriamo nell’articolo Filo rosso del
17 ottobre 1978, nel quale si parlò di quattro polaroid di Moro dei giorni della prigionia
e centocinquanta fogli di carta extrastrong scritti dallo stesso presidente. Circostanze
282 Presidente Andreotti a lei questi assegni chi glieli ha dati?, «Osservatore politico», 14 ottobre 1977.
283 «Contributi a fondo perduto che l’Italcasse aveva elargito, fra gli altri, al gruppo chimico Sir di Nino
Rovelli, ai fratelli Caltagirone e alla società “Nuova Flaminia”, facente capo a Domenico Balducci,
organico alla banda della Magliana e al mafioso Giuseppe Calò», GOTOR, Il memoriale della
Repubblica, p. 225.





284 Necrologi & Memoriali, «Osservatore politico», 17 ottobre 1978.
110
che vennero riscontrate solamente nel 1990. L’articolo Non c’è blitz senza spina,
contenuto nel numero del dossier del 24 ottobre 1978 Caso Moro: memoriali veri
memoriali falsi, gioco al massacro, fece riemergere la questione dei verbali
dell’interrogatorio Br già citati la settimana precedente.
Dalla Chiesa ha trovato ad attenderlo una bomba senza spoletta. Accanto a
documenti strategici di grande importanza e probabilmente sottovalutati dagli
inquirenti, accanto ad alcune mappe di prigioni sicure, all’elenco dei nomi di alcuni
capi colonna per la prima volta dimenticati in un nido terrorista, accanto alle schede
segnaletiche di alcuni nemici del popolo da sparare al più presto, c’erano:




- la ricostruzione del sequestro di Moro, secondo il punto di vista della Direzione
strategica dei brigatisti;
- considerazioni autocritiche sull’operazione militare di via Fani e sulla gestione
degli sviluppi;
- il memoriale scritto da Moro durante i 54 giorni di prigionia;
- gli schemi di alcune lettere che Moro non fece in tempo a scrivere;
- i testi di 6 lettere complete, anch’esse non inviate al destinatario;
- alcuni nastri con la viva voce del memoriale Moro285.
Pecorelli rispose agli interrogativi posti nel precedente articolo fase di attesa del 17
ottobre, lo fece evidenziando la notizia in corsivo quasi a volerne sottolinearne la portata.
Nello stesso articolo, non c’è blitz senza spina, si parla di stralci del memoriale riferiti a
Miceli e De Lorenzo.




[b]Il memoriale Moro è un detonatore. Consegnato subito alla magistratura, il materiale
rinvenuto da Dalla Chiesa era protetto dal più rigoroso segreto istruttorio286.
[/b]


Ciònonostante due settimanali hanno pubblicato alcuni passi a loro avviso tratti dal
memoriale287. Non è la prima volta che in Italia il segreto istruttorio non viene
rispettato. Ma qui si tratta di affermazioni gravissime scagliate contro l’intero attuale
staff del partito di maggioranza, di accuse specifiche e ben determinate che
285 Non c’è blitz senza spina, «Osservatore politico», 24 ottobre 1978.
286 «Il segreto istruttorio è valido per il materiale effettivamente consegnato alla autorità giudiziaria: ma
Pecorelli ha già scritto che i magistrati arrivarono per ultimi, dopo che sul materiale era calata una
prudenziale censura», FLAMIGNI, Le Idi di marzo, p. 374.



287 Probabilmente Carmine Pecorelli si riferiva anche alla vicenda Galvaligi.
111
coinvolgono personaggi di spicco nei più clamorosi casi giudiziari degli ultimi
vent’anni. Chi avrebbe mai azzardato la carriera per favorire un giornalista amico?
La custodia del segreto giovava sia all’esecutivo che ai partiti dell’area di governo,
ma frasi, dettagli, giudizi di Moro, allusioni ai risvolti istituzionali dello scandalo
Lockheed, a Piazza Fontana, all’Italcasse, hanno egualmente raggiunto certa stampa,
polarizzando subito l’attenzione dell’opinione pubblica. Se il detonatore è il
memoriale, la bomba è proprio questa degli scandali e delle rivelazioni. […] C’è chi
sostiene che quegli stralci del memoriale Moro che si riferiscono a Miceli e De
Lorenzo non possono che essere veritieri288.



Il memoriale del 1978, in effetti, riportava ampi brani relativi a De Lorenzo. Mentre né
quello del 1978, né la versione manoscritta del 1990 si soffermava su Vito Miceli, il cui
nome compare solamente in una citazione relativa alla strategia della tensione. Da
sottolineare che in questo unico passaggio relativo a Miceli ed ai servizi segreti, Moro
inserì un doppio rimando289 che ad oggi non ha ancora trovato corrispondenza in nessuna
carta del memoriale. Che cosa volesse dire realmente Pecorelli non è possibile stabilirlo,
ma è un primo indizio per coloro che sostengono la teoria dell’esistenza di un Urmemoriale
di Moro, un testo tutt'oggi censurato e coperto da segreti di Stato. Nei
successivi numeri di «Osservatore politico» si continuò a parlare di un presunto
Memoriale censurato, sollevando dubbi sull’integrità delle carte che vennero rese note
nel 1978. Nel numero del 31 ottobre 1978, Carmine Pecorelli sottolineò due gravi
contraddizioni a riguardo.



La lettura del testo del memoriale Moro diffuso a cura del ministero dell’Interno, che
ha già sollevato dubbi sulla sua integrità e sulla genuinità, presenta due altre gravi
contraddizioni ancora da risolvere:
- nel memoriale, Moro sembra convinto che le sue ammissioni – confessioni
gli possano servire per la libertà. La contraddizione è questa: come poteva
un Moro, tutto sommato lucido, credere che il racconto di fatti già noti,
288 Non c’è blitz senza spina, «Osservatore politico», 24 ottobre 1978.
289 «Ho già detto altrove – ho già detto», GOTOR, Il memoriale della Repubblica, p. 231.
112
senza aggiunta di particolari significativi e nuovi, potesse farlo uscire sano e
salvo dal carcere delle Br?290
A questa contraddizione si rispose sostenendo la tesi di una marcata carenza teorica delle
Brigate rosse, un gruppo dunque efficiente dal punto di vista operativo ma incapace di
comprendere le reali verità che Moro avrebbe potuto rivelargli. Secondo Pecorelli questa
ipotesi è insostenibile.
A Milano, oltre al memoriale in due copie, sono stati trovati ben cinquemila
documenti inventariati, tra i quali alcuni che per una corretta interpretazione
richiedono un buon livello di competenza, tale dunque da rendere i carcerieri –
interroganti (o chi poi doveva ascoltare le bobine o leggere le trascrizioni291) in
grado di capire il valore insignificante delle dichiarazioni del presidente della Dc.
Gli interrogativi a questo punto si sommano spontanei: è vero che le Br hanno
promesso a Moro la libertà in cambio di determinate dichiarazioni? Il testo delle
dichiarazioni è stato, diciamo così, “concordato” tra Moro e i suoi carcerieri in modo
da assumere una intonazione antidemocristiana ma non eccessivamente
destabilizzante? Esiste infine un altro memoriale in cui Moro sveli invece importanti
segreti di Stato?292
Come sappiamo questo interrogativo verrà risolto in via Monte Nevoso nel 1990, quando
vennero ritrovate fotocopie dei manoscritti dove il leader Dc affrontò tematiche che nel
1978 sarebbero state altamente destabilizzanti per il mondo politico. Nello specifico e
principalmente riguardanti la struttura segreta della Nato «Stay Behind» e «Gladio». Nel
paragrafo successivo, Caso Moro. Un memoriale mal confezionato, Pecorelli dimostrò
d’essere a conoscenza delle manipolazioni subite dal memoriale.
La bomba Moro non è scoppiata. Il memoriale, almeno quella parte recuperata nel
covo milanese, non ha provocato gli effetti devastanti tanto a lungo paventati […].
290 Contraddizioni e nuovi interrogativi, «Osservatore politico», 31 ottobre 1978.
291 Pecorelli insiste sull’esistenza di bobine degli interrogatori che tutt’oggi non sono presenti.
292 Ibidem.
113
Giulio Andreotti è un uomo molto fortunato ma a spianare il suo cammino questa
volta hanno contribuito una serie di circostanze, solo in parte fortuite293.
Ne diede prova, ancora, nei successivi numeri. In Brigate senza generali, infatti,
«Osservatore politico» sottolineò nuovamente che il memoriale reso pubblico non fu
tutto il memoriale scritto da Aldo Moro. Pecorelli mosse forti critiche nei confronti delle
Brigate rosse, colpevoli di non aver fatto trapelare nessuna notizia, rendendo gli scritti
innocui.



Ce li avevano dipinti come superuomini, invincibili e imprendibili banditi che
coprono di sangue via Fani, sequestrano ed uccidono Aldo Moro, entrano ed escono
a piacere dai più sorvegliati ed esclusivi uffici della capitale, infiltrano le loro spie in
alcuni delicati ministeri. Programmati come computer avveniristici, i terroristi delle
Brigate rosse diventati interlocutori di Paolo VI e del presidente dell’Onu294,
sembravano dei satelliti artificiali al paragone della fariginosa macchina del nostro
Stato. Che resta di quest’immagine di efficienza e di perfezione, dopo la
pubblicazione del dossier Moro? Dov’è la loro intelligenza superiore, è questo il
cervello del partito armato della rivoluzione? Perché sosteniamo che le Brigate rosse
sono un esercito di killer senza cervello e senza idee? È lo stesso memoriale Moro a
parlare. Anche se resta da stabilire perché “la Repubblica” dell’8 ottobre scriveva:
«Ieri è arrivata la conferma della magistratura. Le settanta pagine del dossier ci
sono», e perché il verbale del processo Moro distribuito alla stampa dal Viminale è
di solo quarantanove cartelline; anche se resta da stabilire se è tutto qui il materiale
raccolto dalle Br in cinquantaquattro giorni di interrogatori, posto che per compilare
cinquanta cartelle occorrono tre ore di conversazione, il memoriale Moro che tutti
conosciamo è tutto di Moro, cioè è tutto vero. Gli unici sbagliati sono gli
interlocutori. Lo abbiamo letto più volte, con grande attenzione. Non contiene nulla
che non sapesse già l’ultimo degli uscieri di Palazzo Madama. Sono forse
sensazionali i giudizi personali di Moro su Andreotti, sono forse sensazionali le
rivelazioni sulla «strage di Stato» o sulle faide tra ministeri per il controllo dei
293 Caso Moro. Un memoriale mal confezionato – L’ultimo messaggio è il primo, «Osservatore politico»,
31 Ottobre 1978.
294 GIACOMO FIORINI, Il rapimento e l’uccisione di Aldo Moro. Interventi di Paolo VI. Dibattito e
Riflessioni, Università degli studi di Padova, tesi di laurea, rel. Prof. G. Romanato, a.a. 2007 - 2008.
114
servizi segreti? È roba trattata con larghezza di immaginazione da “Lotta continua” e
dalla stampa extraparlamentare295.
Dopo due mesi di silenzi sull’argomento, «Osservatore politico» tornò a parlare del
memoriale Moro, il 2 gennaio 1978, nell’articolo Silenzio di regime sul primo furto in
casa Moro. La tematica principale riguardò il furto nell’ufficio di Moro in via Savoia,
avvenuto nel dicembre del 1975, di alcuni documenti riguardanti il golpe Borghese.
Secondo il giornalista, il leader democristiano avrebbe voluto non far trapelare la notizia
di tale sottrazione di documenti, notizia che venne comunque trapelata alla stampa.
La storia del caso Moro deve essere ancora scritta. I retroscena della vicenda sono
ancora misteriosi e chissà ancora per quanto resteranno tali. Ai cronisti sembra
essere sfuggito, tra l’altro, un episodio: il furto verificatosi nell’ufficio di Aldo Moro
fra il Natale e il Santo Stefano del 1975. I ladri mirarono ad impossessarsi solo di
documenti. E non va dimenticato che in via Savoia 85 prestavano servizio di
sorveglianza una gazzella della Polizia e una Alfetta dei Carabinieri! Si trattò di ladri
tanto in gamba da farla in barba al servizio di vigilanza? O bisogna sospettare il
peggio?




Possiamo affermare che Moro, appena saputo dell’accaduto, esattamente il 27
dicembre, chiamo al telefono l’allora comandante generale dell’Arma dei
carabinieri, gen. Mino, per chiedergli di tacere sul fatto ed adoperarsi affinché la
notizia non venisse divulgata. Tuttavia il 28 dicembre qualche agenzia diffondeva un
breve e conciso comunicato sulla vicenda. Quale era il contenuto degli incartamenti
trafugati? Negli ambienti della Procura di Roma, da dove secondo i Carabinieri la
notizia era stata passata alla stampa, c’era chi sosteneva che tra le cartelle sottratte vi
fosse un dossier sul golpe Borghese. […] Del resto era notorio che Moro nutrisse un
particolare interesse per quella istruttoria, dato che dietro di essa si nascondeva la
mano di un suo collega di partito. La cosa trova conferma nelle affermazioni di
Moro prigioniero, secondo le quali tutto il processo Borghese è stato manipolato per
fini personali e politici. Moro sapeva molto sul golpe Borghese. E sapeva bene chi
era l’autore della macchinazione296.



295 Brigate senza generali, «Osservatore politico», 31 Ottobre 1978.
296 Silenzio di regime sul primo furto in casa Moro, «Osservatore politico», 2 gennaio 1979.
115




Occorre soffermarsi su due importanti punti di questo articolo. Secondo Pecorelli la
«mano del collega di partito» sarebbe stata quella di Giulio Andreotti297, opinione che il
giornalista espresse in diversi numeri di «Op»298. In secondo luogo, nelle carte di Moro
ufficialmente ritrovate, non vi furono affermazioni su quello che disse Pecorelli, non vi è
accenno nella versione dattiloscritta del 1978 né in quella in fotocopia di manoscritto nel
1990. Un ulteriore indizio sulla incompletezza del memoriale Moro ritrovato fino ad
oggi, che va ad aggiungersi agli interrogativi riguardanti la parte del documento relativa
ai comportamenti dei servizi segreti e di Miceli. Il 16 gennaio 1979 nell’articolo
Terrorismo, antiterrorismo e riforma di polizia, Pecorelli mise in dubbio tutta la
ricostruzione ufficiale del caso Moro. Lasciò intendere di conoscere molte verità della
vicenda, annunciando di volerle rivelare.



Si è permesso così il dilagare di quella violenza che nel 1978 ha generato la morte di
ventinove persone, cinquanta feriti per attentati, ottantasei tra poliziotti e carabinieri
finiti all’ospedale per scontri di piazza e circa mille automobili distrutte. A questi
vanno aggiunti circa tremila attentati contro edifici pubblici, privati, sedi di partiti
politici, caserme della pubblica sicurezza, dei carabinieri, delle forze dell’ordine in
genere. Violenza politica che ha raggiunto il suo apice con l’uccisione Moro. Aldo
moro che pensava di essere liberato dalle Brigate rosse, e che temeva di rimanere
ferito in un conflitto a fuoco tra i carabinieri ed i suoi carcerieri, come ha pubblicato
“Panorama” in un articolo non firmato, notizia che avrebbe attinto dai documenti
sequestrati nel covo del brigatista Alunni, notizia che viceversa nel memoriale
diffuso dal ministero degli Interni non risulta. Ma torneremo a parlare di questo
argomento, del furgone, dei piloti, del giovane dal giubbotto azzurro visto in via
Fani, del rullino fotografico, del garage compiacente che ha ospitato le macchine
servite all’operazione, del prete contattato dalle Brigate rosse, della intempestiva
lettera di Paolo, del passo carrabile al centro di Roma, delle trattative intercorse,
degli sciacalli che hanno giocato al rialzo, dei partiti politici che si sono arrogati il
297 «In una lettera testamento attribuibile al principe Borghese e attualmente agli atti della Procura di
Brescia, si affermava che l’autore della telefonata di contrordine al tentativo di golpe era stato Andreotti
in persona», FLAMIGNI, Le Idi di marzo, p. 234




.
298«Sempre più strano questo processo al golpe Borghese. Potrebbe svolgersi tutto nell’anticamera dello
studio di Andreotti. Pensate: andreottiano il Pm Vitalone, andreottiana la longa manus della legge (nella
fattispecie Labruna e Maletti), andreottiani gran parte degli imputati», Golpe Borghese: Andreotti ieri e
oggi, «Osservatore politico», 10 giugno 1977.
116
diritto di parlare in nome del Parlamento, dei presunti memoriali, degli articoli
redatti, cervellotici, scritti in funzione del fatto che lo stesso Moro, che avrebbe
intuito che i carabinieri potevano intervenire, aveva paura di restare ferito. Parleremo
di Steve R. Pieczenik, il vice segretario di Stato al Governo Usa il quale, dopo aver
partecipato per tre settimane alle riunioni di esperti al Viminale, ritornato in America
prima che Moro venisse ucciso, ha riferito al Congresso che le disposizioni date da
Cossiga in merito alla vicenda Moro erano quanto di meglio si potesse fare. […] A
questo punto vogliamo fare anche noi un po’ di fantapolitica. Le trattative con le
Brigate rosse ci sarebbero state. Come per i Fedayn. Qualcuno però non ha
mantenuto i patti299. Moro, sempre secondo le trattative, doveva uscire vivo dal covo
(al centro di Roma? Presso un comitato? Presso un santuario?), i carabinieri
avrebbero dovuto riscontrare che Moro era vivo e lasciar andare via la macchina
rossa. Poi qualcuno avrebbe giocato al rialzo, una cifra inaccettabile perché si voleva
comunque l’anticomunista Moro morto, le Br avrebbero ucciso il presidente della
Democrazia cristiana in macchina, al centro di Roma, con tutti i rischi che una simile
azione comporta. Ma di questo non parleremo, perché è una teoria cervellotica





299 «Vent’anni dopo il senatore Giovanni Pellegrino, presidente della Commissione parlamentare
d’inchiesta su stragi e terrorismo, esprimerà concetti analoghi. La possibilità che Moro avesse rivelato
alle Br segreti sensibili aveva creato una situazione sicuramente più complessa e pericolosa dal punto di
vista dello Stato. Per cui poteva essere opportuno non forzare la situazione con un blitz. Se avessero fatto
irruzione in via Gradioli e avessero catturato Moretti, quale sarebbe stata la reazione degli altri brigatisti?
La Braghetti, Gallinari e Maccari, i carcerieri di Moro, che istruzioni avevano per una eventualità del
genere? Di uccidere il prigioniero? Di rendere pubblici i verbali e le videocassette del suo interrogatorio?
In questa chiave potrebbe anche capirsi perché non si volesse arrivare a via Gradioli, almeno fino a
quando non fosse stata scoperta la prigione in cui Moro era detenuto, e non si fosse raggiunta la certezza
di poter mettere le mani anche su tutto il materiale relativo al processo brigatista. È possibile che Cossiga
si sia fidato di certe persone e poi se ne sia pentito. Mi riferisco a qualche apparato nazionale o anche
estero che assunse su di sé il doppio compito di recuperare le “carte Moro” e di liberare il prigioniero. Ma
poi perseguì soltanto il primo obbiettivo e lasciò che Moro venisse ucciso, per regolare qualche vecchio
conto. In questo modo le tesi del “doppio ostaggio” e quella del “doppio delitto” verrebbero in qualche
modo a sovrapporsi. La sofferenza umana di Cossiga, tutte le volte che si affronta il caso Moro, a me è
parsa autentica. E credo che nasca non solo dalla perdita di un amico come Moro, ma anche da questa sua
sensazione d’essersi fidato di persone sbagliate, o di apparati sbagliati. È un’ipotesi assai verosimile, che
se fosse confermata porterebbe proprio a concludere che Cossiga è stato atrocemente beffato da mandatari
infedeli»,




da FASANELLA – SESTIERI – PELLEGRINO, Segreto di Stato, la verità da Gladio al caso
Moro, Einaudi 2000, pagg. 180-82 in FLAMIGNI, Le Idi di marzo, p. 396.
117
campata in aria. Non diremo che il legionario si chiama “De300” e il macellaio
Maurizio301.
L’enigmatico riferimento ad Alunni Corrado, brigatista arrestato il 13 settembre 1978 nel
covo in via Negroli a Milano, si collegò all’ipotesi che durante l’arresto fosse stato
trovato il memoriale e che le Br avessero distribuito le copie tra le varie colonne
brigatiste. Ciò spiegherebbe il perché nell’articolo di «Op» del 26 settembre 1978 Le
lettere di zombi, pubblicato dodici giorni prima di Monte Nevoso e una settimana dopo
l’arresto del brigatista, Pecorelli fosse già in grado di annunciare il ritrovamento di una
trentina di lettere di Moro. Un’altra anomalia si riferisce alla paura di Moro d’essere
ucciso in un conflitto a fuoco tra i terroristi ed i carabinieri, dato anche questo non
riscontrabile in nessun suo scritto ufficiale. «Osservatore politico», dunque, sostenne che
le carte divulgate nel 1978 fossero incomplete, dell’esistenza di una copia recuperata nel
covo di via Negroli due settimane prima dell’operazione di Monte Nevoso, che vi
fossero dei manoscritti di Moro autografi ed in fotocopia (che vennero ritrovati solo nel
1990) e che esistesse un memoriale tutt’oggi ignoto contenente rivelazioni non
riscontrabili nelle versioni del 1978 e del 1990. Difficile capire quali potessero essere le
fonti informative di Carmine Pecorelli, sebbene i principali sospetti cadrebbero sulla
figura del generale Dalla Chiesa e su Licio Gelli, comunque in ambienti contigui alla
Loggia Propaganda Due e ai servizi segreti. È probabile che il generale Dalla Chiesa si
servisse di Pecorelli, come fece con il generale Galvaligi, affinché trapelassero notizie
relative al ritrovamento delle carte di Moro, per costringere il governo a pubblicare la
versione che lui stesso gli consegnò. Una triplice responsabilità per dissimulare una fuga
di notizie. Oltre ai diversi articoli di «Osservatore politico» in cui venne elogiata la
figura di Dalla Chiesa, è accertata la collaborazione tra Pecorelli ed il generale nel 1979.
Nell’agenda del giornalista si trovarono appuntate le date dei loro incontri,
300«Questo “De” sembra essere un riferimento a Giustino De Vuono, presente nell’elenco dei terroristi
ricercati diffuso dal Viminale il 16 marzo 1978. De Vuono sarebbe stato riconosciuto da due testimoni
oculari del caso Moro. Quanto al “Maurizio” menzionato da Op, si scoprirà poi che era lo pseudonimo
brigatista del capo delle Br Mario Moretti. Pecorelli lo chiamava “macellaio” e in effetti, lo si scoprirà
anni dopo, Moretti è stato colui che ha materialmente assassinato Moro», Ivi, p. 397.





301 Terrorismo, antiterrorismo e riforma di polizia. Vergogna buffoni!, «Osservatore politico», 16 gennaio
1979.
118
particolarmente intensificati proprio nei mesi in cui Pecorelli rilasciò le sue dichiarazioni
sul memoriale.
Era stato Dalla Chiesa a chiedere d’incontrare Pecorelli e Mino me ne parlò subito
dopo, dicendomi che non aveva capito bene cosa volesse. Aveva avuto l’impressione
che Dalla Chiesa intendesse utilizzarlo in qualche maniera, ma non aveva capito se
per far filtrare notizie o per altro. Era perplesso perché Dalla chiesa non gli aveva
dato notizie302.
La testimonianza del maresciallo Angelo Incandela, comandante degli agenti di custodia
del carcere di Cuneo, confermò che nel gennaio del 1979 Dalla Chiesa e Pecorelli
collaborarono segretamente per recuperare delle fotocopie del manoscritto del
memoriale, che ritenevano fossero entrate nel carcere di Cuneo. Il maresciallo venne
convocato da Dalla Chiesa con l’ordine tassativo di mantenere la massima segretezza.
Nella deposizione del 27 giugno 1994 all’autorità di Palermo, Incandela raccontò
d’essersi incontrato con Dalla Chiesa in un’Alfa Romeo bianca. Il generale lo informò
della presenza di alcuni scritti riguardanti Aldo Moro nel carcere dove lavorava da pochi
mesi, documenti indirizzati al boss della malavita milanese Francis Turatello. Nell’auto
era presente una terza persona che sarebbe stata in grado di spiegare, secondo il generale,
come e dove fossero entrati quei documenti.




Gli scritti riguardanti il caso Moro erano entrati nel carcere attraverso le finestre del
corridoio dell’ufficio per i permessi di colloqui, dove sostavano i parenti dei detenuti
in attesa della perquisizione prima di essere ammessi ai colloqui. Lo sconosciuto mi
fornì una particolareggiata descrizione dei luoghi, specificandomi che le finestre del
corridoio ove sostavano i parenti prima di essere perquisiti, erano prive di reti, sicché
era agevole consegnare attraverso le stesse oggetti a detenuti che circolavano senza
nessuna sorveglianza nel cortile sul quale prospicevano dette finestre. […]Lo
sconosciuto proseguì specificandomi che gli scritti riguardanti il sequestro Moro
erano entrati nel carcere avvolti con un nastro adesivo da imballaggio303.
302 Franca Mangiavacca, compagna di Pecorelli, agli atti della sentenza della corte d’Assise di Perugia del
14 aprile 1993, FLAMIGNI, Dossier Pecorelli, p. 150.




303 Angelo Incandela, GOTOR, Il memoriale della Repubblica, p. 250.
119
In una seconda deposizione del 25 luglio 1994, il maresciallo raccontò d’aver
riconosciuto il volto dello sconosciuto solo due mesi dopo, negli articoli che parlavano
dell’omicidio del giornalista Carmine Pecorelli. Incandela seppe descrivere con
precisione gli occhiali che il giornalista portò in quella circostanza304, inoltre ricordò che
«il generale chiese allo sconosciuto di cercare un numero di telefono il quale rispose
d’averlo dimenticato in redazione305».
Dalla Chiesa continuò a sollecitarmi affinché io trovassi gli scritti del sequestro
Moro che si trovavano all’interno del carcere, nonché documenti concernenti l’on.
Andreotti e dopo quindici giorni di ricerche rinvenni l’involucro che Pecorelli mi
aveva descritto, all’interno di un pozzetto con un coperchio di lamiera profondo
circa venti – trenta centimetri che si trovava in un piccolo locale dove venivano presi
in consegna i generi di conforto portati ai detenuti dai loro familiari. L’involucro
aveva la forma di un salame ed era avvolto con un nastro isolante da imballaggio
color marrone. […] L’involucro poteva contenere un centinaio di fogli306.
Angelo Incandela spiegò come Dalla Chiesa fosse convinto dell’esistenza di ulteriori
fogli all’interno del carcere, riguardanti l’on. Giulio Andreotti.
Io sospetto che volesse in qualche modo incastrare Andreotti. Infatti, il generale
aveva delle riserve su quell’uomo politico; spesso mi faceva capire che lui su
Andreotti sapeva cose assai gravi. Ma Dalla Chiesa pur alludendo pesantemente non
mi disse mai con esattezza cosa aveva in mano, quali fossero gli elementi
d’accusa307.
Secondo il maresciallo Incandela, Dalla Chiesa e Carmine Pecorelli si misero alla ricerca
di documenti altamente segreti e destabilizzanti per il sistema politico di allora.
Documentazione che, probabilmente, avevano già visionato in forma dattiloscritta.
304 «cerchiati in oro piuttosto quadrati, chiari non scuri. Completamente diversi per foggia da quelli
comparsi nella foto pubblicata dopo la morte, con montatura nera e spessa», Ivi, p. 251.
305 Ibidem.
306 Ivi, pag. 252.






307 PINO NICOTRI, Agli ordini del generale Dalla Chiesa. I misteri degli anni '80 nel racconto del
maresciallo Incandela, Marsilio, Venezia 1994, p. 112.
120
Mi disse che stavamo scrivendo la storia, che si può essere fedeli allo Stato in tanti modi e che
si può servire la Patria anche in modi non propriamente legali. Mi disse: Per la Patria, caro mio,
si può e si deve anche rischiare quando occorre. E quando si hanno i coglioni! Sempre a patto
naturalmente che il fine sia nell’interesse dello Stato e della Società308.
308 Carlo Alberto Dalla Chiesa, GOTOR, Il memoriale della Repubblica, p. 254.
121
Bibliografia.
EMMANUEL AMMARA, Abbiamo ucciso Aldo Moro. Dopo 30 anni un
protagonista esce dall'ombra, Cooper, Roma 2008.
MANLIO CASTRONUOVO, Vuoto a perdere. Le Brigate rosse, il rapimento, il
processo e l'uccisione di Aldo Moro, Besa, Lecce 2008.
WILLIAM E. COLBY, La mia vita nella Cia, Mursia, Milano 1981.
MARCO CORRIAS – ROBERTO DUIZ, Mino Pecorelli un uomo che sapeva
troppo, Sperling & Kupfer, Milano 1996.
MAURIZIO DE LUCA, Sindona. Gli atti d’accusa dei giudici di Milano, Editori
Riuniti, Roma 1986.
MAURIZIO DE LUCA - PAOLO PANERAI, Il crack. Sindona, la Dc, il Vaticano
e gli altri amici, Mondadori, Milano 1975.
RITA DI GIOVACCHINO, Scoop mortale. Mino Pecorelli, storia di un giornalista
Kamikaze, Pironti, Napoli 1994.
RITA DI GIOVACCHINO, Il libro nero della Prima Repubblica, Fazi Editori,
Roma 2003.
GIOVANNI FASANELLA – CLAUDIO SESTIERI – GIOVANNI PELLEGRINO,
Segreto di Stato, la verità da Gladio al caso Moro, Einaudi, Torino 2000.
SERGIO FLAMIGNI, La tela del ragno: il delitto Moro, Edizioni Associate, Roma
1988.
SERGIO FLAMIGNI, Trame atlantiche. Storia della loggia massonica segreta P2,
Kaos, Milano 1996.
SERGIO FLAMIGNI, Il covo di Stato. Via Gradoli 96 e il delitto Moro, Kaos,
Milano 1999.
SERGIO FLAMIGNI, La sfinge delle Brigate rosse. Delitti, segreti e bugie del capo
terrorista Mario Moretti, Kaos, Milano 2004.
SERGIO FLAMIGNI, Dossier Pecorelli, Kaos, Milano 2005.
122
SERGIO FLAMIGNI, Le idi di marzo. Il delitto Moro secondo Mino Pecorelli,
Kaos, Milano 2006.
LICIO GELLI, La verità, Demetra Edizioni, Bologna 1989.
AGOSTINO GIOVAGNOLI, Il caso Moro, una tragedia repubblicana, Il Mulino,
Bologna 2005.
MIGUEL GOTOR, Il memoriale della Repubblica. Gli scritti di Aldo Moro dalla
prigionia e l'anatomia del potere italiano, Einaudi, Torino 2011.
MARIO GUARINO, Gli anni del disonore. Dal 1965 il potere occulto di Licio Gelli
e della loggia P2 tra affari, scandali e stragi, Dedalo, Bari 2006.
VINCENZO IACOPINO, Pecorelli OP. Storia di una agenzia giornalistica,
SugarCo, Milano 1991.
HENRY KISSINGER, Gli anni della Casa Bianca, SugarCo, Milano 1980.
MARIO MARGIOCCO, Stati Uniti e Pci, Laterza, Roma 1981.
DOMÈNECH MATILLÓ ROSSEND, L’avventura delle finanze Vaticane, Tullio
Pironti Editore, Napoli 1988.
PINO NICOTRI, Agli ordini del generale Dalla Chiesa. I misteri degli anni '80 nel
racconto del maresciallo Incandela, Marsilio, Venezia 1994.
FRANCESCO PECORELLI – ROBERTO SOMMELLA, I veleni di «Op». Le
notizie riservate di Mino Pecorelli, Kaos, Milano 1995.
VLADIMIRO SATTA, Odissea nel caso Moro. Viaggio controcorrente attraverso
la documentazione della Commissione Stragi, Edup, Roma 2008.
GIANNI SIMONI - GIULIANO TURONE, Il caffè di Sindona. Un finanziere
d’avventura tra politica, Vaticano e Mafia, Garzanti, Milano 2009.
MASSIMO TEODORI, La banda Sindona. Storia di un ricatto: Dc, Vaticano,
Bankitalia, P2, Mafia, Servizi segreti, Gammalibri, Milano, 1982.
NICK TOSCHES, Il mistero Sindona, SugarCo, Milano 1986.
ANGELO VENTURA, Per una storia del terrorismo italiano, Donzelli, Roma
2010.
ANNA VINCI, La P2 nei diari segreti di Tina Anselmi, Chiarelettere, Milano 2011.
123
Commissione parlamentare d' inchiesta sulla strage di Via Fani, sul sequestro e
l'assassinio di Aldo Moro e sul terrorismo in Italia, Legge 23 novembre 1979, n.
597, Senato della Repubblica, Roma 1979.
Commissione parlamentare d'inchiesta sul caso Sindona e sulle responsabilità
politiche ed amministrative ad esso eventualmente connesse, Legge 22 maggio
1980, n. 204 e legge 23 giugno 1981, n. 315, Senato della Repubblica, Roma 1983.
Relazione della commissione parlamentare d’inchiesta sulla loggia massonica P2,
Leggi 23 settembre 1981, n. 527; 4 giugno 1982, n. 342; 28 febbraio 1983, n. 57; 1
ottobre 1983, n. 522; 6 aprile 1984, n. 59, Senato della Repubblica, Roma 1984.






Edited by barionu - 29/4/2024, 15:15
CAT_IMG Posted: 29/4/2024, 06:58 IL CASO KAVOD 2 - Ebraismo







IN PREPARAZIONE








----------------------------

https://rispondereaibigliniani.altervista....H3OqEoJu44sdbE7

Ho aperto per rispondere al dettaglio al link sopra ...

sarà un lavoro corposo , e lungo , armarsi di pazienza ....



REPERTORIO


https://originidellereligioni.forumfree.it/?t=75524946






CAT_IMG Posted: 24/4/2024, 14:10 CASO MORO 6 IL MEMORIALE - ZIO OT DICE LA SUA



www.novaelements.it/tavola-periodica/



www.peacelink.it/moro/i/4030.html


------------------------


www.peacelink.it/moro/a/47571.html


Non è la piazza che accusa il palazzo, ma il palazzo che accusa sé stesso

Il Memoriale Moro trovato nel covo di via Montenevoso a Milano




A chiare lettere ci sono scritte cose terribili sulla storia italiana e sui segreti della DC. E noi sappiamo, e pur sapendo non facciamo niente e non ce ne importa niente. Sappiamo e continuiamo a vivere nella più totale e oscena indifferenza.


Riccardo Lestini (scrittore e regista)
Fonte: www.riccardolestini.it - 05 maggio 2018
9 ottobre 1990, via Monte Nevoso, zona Lambrate, Milano.





Da quando i carabinieri agli ordini di Dalla Chiesa hanno fatto irruzione nel covo delle BR sito in questa strada, ritrovando al suo interno le carte del celebre “Memoriale Moro”, sono passati dodici anni (per il blitz del 1978, si veda il capitolo precedente).

Nel frattempo il mondo è profondamente cambiato.
È caduto il muro di Berlino, è finita la guerra fredda e con essa la logica dei blocchi contrapposti, i regimi comunisti dell’est si dissolvono uno dietro l’altro e anche il gigante sovietico sta crollando inesorabilmente.

In mezzo ci sono stati gli anni del riflusso e del rampantismo, un ritrovato e diffuso (e apparente) benessere, il craxismo e il pentapartito. Gli anni di piombo sono finiti, la strategia della tensione anche. Le Brigate Rosse sono state sconfitte dall’azione dello Stato, dalle scissioni interne, dal mutato contesto storico e sociale e dal dilagante fenomeno del pentitismo. Renato Curcio, Mario Moretti e Barbara Balzerani, attraverso un comunicato sottoscritto dalla stragrande maggioranza dei militanti, hanno dichiarato la resa e la fine della lotta armata.

Al caso Moro in generale e in particolare al “Memoriale” ritrovato dodici anni prima, nessuno pensa più. Molti dei protagonisti di quello strano ritrovamento non ci sono più. In particolare il generale Dalla Chiesa e il giornalista Mino Pecorelli, entrambi assassinati in brutali agguati dai contorni misteriosi su cui nessuno ha mai voluto fare la dovuta chiarezza.



Solo una cosa è rimasta la stessa rispetto al 1978: alla presidenza del consiglio c’è sempre Giulio Andreotti.

Quel 9 ottobre in via Monte Nevoso, all’interno 1 del civico 8, sono previsti lavori di muratura.
Quell’appartamento era stato acquistato negli anni ’70 dalle BR, per conto del brigatista Domenico Gioia, che aveva sottoscritto il compromesso d’acquisto versando a Rocco Lomutolo, il vecchio proprietario, il 70% del prezzo pattuito. Ma Gioia non aveva mai fatto il rogito, il che aveva consentito a Lomutolo di rientrare in possesso dell’appartamento. Ma l’appartamento, per tutti questi anni, era stato tenuto sotto sequestro, il che aveva impedito a Lomutolo sia di rimetterci piede sia di rivenderlo.



La lunghissima controversia legale si era chiusa solo nella primavera del 1990. Lomutolo, che aveva pure dovuto restituire a Gioia venti milioni delle vecchie lire, aveva potuto così finalmente mettere in vendita l’appartamento, acquistato pochi mesi dopo da Girolamo De Cillis, il quale procede subito ai lavori di ristrutturazione.

I lavori vengono affidati alla ditta Spezi, che il 9 ottobre manda sul posto un suo dipendente, Giovanni Bernardo. L’appartamento, come sappiamo, è molto piccolo, appena quaranta metri quadri, e il lavoro può concludersi in una sola giornata. A metà mattinata, dopo aver già divelto tutto il pavimento, Bernardo procede alla rimozione di un mobiletto incassato sotto la finestra della cucina e fissato al muro con dei chiodi. Dentro il mobiletto non c’è niente, ma dietro c’è un pannello, una finta parete in cartongesso.

Bernardo, facendo leva con uno scalpello, lo apre quel tanto che basta per infilarci dentro il braccio. Dentro c’è una cartellina con dei fogli, una borsa e una scatola.

Bernardo non tocca niente. La ditta lo ha informato che nell’appartamento in cui sta lavorando anni prima erano stati arrestati alcuni terroristi legati al caso Moro, quindi capisce subito di aver trovato qualcosa di importante. Lascia tutto come ha trovato e corre ad avvertire il proprietario.



La presenza dell’intercapedine di per sé non è niente di strano. Ovvio che dentro un covo clandestino vi siano pareti nascoste e non visibili per prevenire eventuali visite improvvise e indesiderate. Se non fosse che l’appartamento, nel 1978, fosse stato perquisito per ben cinque giorni dai carabinieri che, secondo le parole del giudice Pomarici, lo “scarnificarono mattonella per mattonella”.

Quindi come è possibile che il pannello in cartongesso sia sfuggito a una perquisizione che si racconta essere stata tanto lunga e tanto minuziosa? E perché, nonostante i terroristi arrestati durante il blitz avessero denunciato la presenza nell’appartamento di altro materiale non trovato e non repertato, non sono state effettuate altre perquisizioni di controllo

E soprattutto, cosa contenevano quella cartellina, quella borsa e quella scatola?



1. Il grande rompicapo

A repertare il materiale stavolta è la polizia. Che nella scatola trova una pistola nuovissima e mai usata, un mitra di fabbricazione russa avvolto in una copia del Corriere della Sera del 18 settembre 1978, una canna di pistola e trenta detonatori, mentre nella borsa 60 milioni e 307 mila lire in contanti, tutti soldi provenienti dal riscatto per il sequestro dell’armatore Costa e che, tra il 1977 e il 1978, servirono a finanziare l’intera operazione Moro.

Ma il materiale più importante è quello dentro la cartellina marrone, ovvero un totale di 421 fogli, tutti (tranne due) fotocopie di originali manoscritti di Moro. Di questi 421, 174 sono lettere e disposizioni testamentarie, mentre le restanti 245 costituiscono il cosiddetto “Memoriale Moro”.


L’unica certezza è che quelle carte erano state maneggiate da Lauro Azzolini, visto che vi sono state rinvenute sue impronte digitali (anche se ciò non significa che sia stato lui a sistemarle dietro il pannello). Tutto il resto è un gigantesco mistero, un grande e irrisolvibile rompicapo.

Partiamo dai numeri. Il “Memoriale” rinvenuto nel 1978, come abbiamo visto, era costituito da 43 fogli dattiloscritti. Questa seconda versione, anche tenendo conto della differenza tra manoscritti e dattiloscritti, è quindi notevolmente più estesa. Vi sono parti e passaggi completamente mancanti nella prima e, laddove gli argomenti coincidono, sono trattati in maniera assolutamente più articolata e approfondita.

Tutto questo conferma quanto hanno sempre sostenuto Azzolini e Bonisoli, ovvero che il materiale presente in via Monte Nevoso era molto di più di quanto repertato dai carabinieri. E conferma quanto si è sempre sospettato sin da subito e da più parti, vale a dire che il “Memoriale” portato alla luce nel 1978 fosse una versione incompleta e manipolata.

In definitiva, nel 1990, quella che ormai sembrava essere stata una pura dietrologia complottista, si scopriva corrispondere a verità.

A riguardo, la brigatista Nadia Mantovani, che in via Monte Nevoso aveva lavorato sulle carte di Moro, anni prima del secondo ritrovamento e senza aver mai visionato il documento del 1978, in sede processuale aveva dato un resoconto molto dettagliato. Aveva parlato di un ampio passaggio in cui Moro parlava di guerriglia e controguerriglia, dei rapporti tra Andreotti e la CIA, di Kappler e di Rizzoli. Tutte parti completamente mancanti nella versione del 1978 e presenti in quella del 1990. In sostanza, nel “Memoriale” del 1978 mancavano tutte le parti più scottanti e sconvolgenti.

Ma allora, che cos’era il “Memoriale” del 1978 e chi lo aveva redatto?

Che sia stato prodotto dalle Brigate Rosse appare sinceramente strano, se non proprio improbabile. Che senso poteva avere, per le BR, elaborare una versione totalmente priva di tutti quei passaggi in cui venivano portati alla luce i più indicibili segreti di Stato e le più oscure trame della Democrazia Cristiana?

E chi aveva nascosto il “malloppo” rinvenuto nel 1990 all’interno del pannello?

La logica fa ovviamente pensare che siano stati gli stessi brigatisti, ovvero Bonisol
i, Azzolini e la Mantovani.

E infatti, probabilmente, erano stati proprio loro a costruire il tramezzo “invisibile”. Lo conferma lo stesso Bonisoli, che in un’intervista, a proposito del pannello, ricorda: “era lì, noi l’aprivamo ogni giorno, come un armadio, perché poteva entrare un vigile urbano, l’uomo del gas, qualsiasi persona: rappresentava una sicurezza in più”.

Eppure, qualcosa, anzi molto più di qualcosa, continua proprio a non tornare. Prima di tutto resta il fatto che continua a essere incredibile che i carabinieri, smontando da cima a fondo un mini appartamento di appena quaranta metri per ben cinque giorni, non siano riusciti a individuarlo. Ma soprattutto quel pannello è tutt’altro che apribile “come un armadio”. Al contrario, è fissato al muro con dei chiodi, talmente bene che per aprirlo il dipendente della ditta incaricata dei lavori impiega diverso tempo. Quindi non proprio un nascondiglio da poter aprire e chiudere “tutti i giorni”.

Sembra quindi – molto più di un legittimo e naturale sospetto – che qualcuno nel 1978 prima abbia prodotto in fretta e furia una sintesi “epurata” di tutto il materiale, e poi abbia riposto il tutto dietro quel pannello, preoccupandosi di renderlo ancora più nascosto fissandolo al muro con i chiodi.

Inevitabilmente, nel 1990, esplode la polemica politica. Craxi, segretario del PSI come dodici anni prima (tra i pochi esponenti politici, all’epoca, a schierarsi dalla parte della trattativa), dirà che a nascondere quelle carte è stata una “manina” (chiaro riferimento alla corporatura minuta di Giulio Andreotti). Andreotti risponderà che invece è stata una “manona”, ovvero quella del più corpulento Craxi.
Il mistero, ad ogni modo, resta.


Torniamo a quel 1 ottobre 1978. Sappiamo che al momento dell’irruzione nell’appartamento i carabinieri si trovarono davanti carte stipate ovunque, un’incredibile montagna di documenti. Praticamente, l’archivio delle Brigate Rosse. Già qui troviamo la prima anomalia. Ovvero che tra tutte quelle carte il capitano Arlati, che guidava l’operazione, si fionda subito, a colpo sicuro, sulla cartellina azzurra contenente il “Memoriale”, sul cui ritrovamento informa immediatamente per telefono Bozzo, il braccio destro di Dalla Chiesa. Come se Arlati sapesse esattamente cosa cercare. Di sicuro, come abbiamo visto nel capitolo precedente, della presenza del “Memoriale” in via Monte Nevoso sapeva Dalla Chiesa, così come sapeva che in quelle pagine vi erano dei passaggi assai esplosivi sul conto di Andreotti. E che proprio in virtù di questo aveva convinto Andreotti sull’urgenza di quel blitz.

Ma l’anomalia più grande è che il capitano Bonaventura, quella stessa mattina, a perquisizione appena iniziata e con il verbale ancora da stendere, portò via il “Memoriale” dall’appartamento per fotocopiarlo e consegnarlo nelle mani di Dalla Chiesa. E lo riportò in via Monte Nevoso più di sei ore dopo.


Su questo incredibile episodio, dopo il secondo ritrovamento del 1990, si aprono ulteriori scenari. Arlati rivelerà infatti alcuni dettagli che, all’epoca, aveva omesso. Prima di tutto che alle 17,30, quando Bonaventura riconsegnò il “Memoriale”, il plico gli apparve “più magro” di quando era uscito. In secondo luogo che una copia del “Memoriale” fu consegnata da Bonaventura al capitano Gustavo Pignero (che nel 1981 risulterà nella lista della P2 di Licio Gelli), il quale le porterà subito a Roma.


Il rompicapo si fa sempre più complicato e la lista di domande, inevitabilmente, infinita.

Cosa è successo nelle oltre sei ore in cui la cartellina azzurra è rimasta nelle mani del capitano Bonaventura e fuori dall’appartamento? Il materiale presente è stato solo “ridotto” ed espunto delle parti più delicate oppure si è proceduto a una vera e propria riscrittura, a un sunto riveduto e corretto? Nell’uno o nell’altro caso, che fine ha fatto il materiale originale? È stato riportato in via Monte Nevoso e rimesso nel pannello oppure è stato conservato in altro luogo?


Quando Arlati parla di un plico “più magro”, cosa intende esattamente? Una decina, una ventina di pagine? Quante?
Quale versione viene consegnata a Dalla Chiesa? Quella originale o quella “riveduta e corretta”? Il giorno successivo, quando Dalla Chiesa si recò a Roma per incontrare Evangelisti, braccio destro di Andreotti, cosa gli consegnò? La documentazione originale o quella manipolata?


Dalla Chiesa era al corrente di questa manipolazione? Dal momento che, come abbiamo visto nel capitolo precedente, nei mesi successivi si adopererà per far uscir fuori la verità sul conto di Andreotti, è possibile ipotizzare che Dalla Chiesa non sapesse nulla e che la manovra di manipolazione fu voluta dai servizi segreti per neutralizzare il generale e salvare Andreotti?


Perché Pignero andò a Roma con la copia del “Memoriale” (poi quale? L’originale o quello modificato?)? A chi doveva consegnarlo, visto che i suoi superiori erano tutti a Milano? A Roma arrivò prima lui o Dalla Chiesa?
Delle due l’una. O quel giorno in via Monte Nevoso furono trovati due “Memoriali”, un sunto dattiloscritto dalle BR e uno costituito dalle fotocopie degli originali manoscritti di Moro, e mentre il sunto fu portato via per censurarne ed eliminarne le parti più scomode il plico delle fotocopie fu occultato dietro il pannello chiodato, oppure fu ritrovato soltanto il plico delle fotocopie, da cui seduta stante fu tratto un sunto da presentare come “Memoriale” ufficiale.


Nell’uno o nell’altro caso resta impossibile chiarire le posizioni (e le mosse) di Dalla Chiesa, Arlati e Pignero. Soprattutto, nell’uno o nell’altro caso, è indubbio che quel giorno, in via Monte Nevoso ci furono strani movimenti. Così come è indubbio che il “Memoriale” del 1978 è il frutto di diverse e interessate manipolazioni.
Ma anche quello del 1990 è incompleto.


Ripartiamo dai numeri. Nel capitolo precedente abbiamo visto come più fonti vicinissime alle BR avessero parlato – a proposito di quel “Libro Bianco” in preparazione e in cui le Brigate Rosse avrebbero pubblicato tutti i documenti in loro possesso relativi alla vicenda Moro – di un corpus di circa duemila pagine. Una cifra sicuramente esagerata, ma comunque lontanissima sia dalla settantina di fogli ritrovati nel 1978, sia dai 421 rinvenuti nel 1990.
Che ci fosse qualcosa – o molto – di più, lo dicono gli stessi brigatisti.


Oltre a parlare alle fotocopie degli originali manoscritti, Bonisoli e Azzolini parlarono della presenza, in via Monte Nevoso, della trascrizione integrale di tutti gli interrogatori. Come sappiamo infatti, per almeno i primi venti giorni del sequestro, gli interrogatori furono registrati su nastro e poi sbobinati, pratica poi abbandonata perché richiedeva troppo tempo. I nastri originali, a detta dei brigatisti, furono distrutti poco dopo l’esecuzione di Moro. Ma le trascrizioni, che secondo Bonisoli e Azzolini erano in via Monte Nevoso assieme al resto, dove sono finite?


Non solo. Nella sua deposizione ricordata prima, la Mantovani parla di passaggi del “Memoriale” dedicati a Kappler, ma nel “Memoriale” del 1990 in proposito vi è solo un piccolo accenno. E sempre la Mantovani ricorda che in via Monte Nevoso ci fosse anche la lista delle domande degli interrogatori. Anche questa, mai rinvenuta.
E lo stesso Moretti più di una volta ha dichiarato che del “Memoriale Moro” è venuto alla luce “quasi tutto”, tranne alcune parti che, a detta sua, sarebbero state trattenute dai servizi segreti.

Manca inoltre il capitolo relativo a Taviani e ai servizi segreti americani, di cui le BR avevano pubblicato uno stralcio autografo nel Comunicato numero 5.

Dove è finito tutto questo materiale?



2. Un solo memoriale, infinite stesure

A questo punto, cerchiamo di fare chiarezza e ricostruire la storia, e soprattutto natura e contenuto, delle varie stesure e delle varie versioni del “Memoriale”.


Stesura “A”: il complesso degli originali autografi, dei nastri e dei fogli direttamente provenienti dagli interrogatori, tanto quelli registrati quanto quelli effettuati con la consegna di domande scritte all’ostaggio che poi provvedeva e rispondere su appositi fogli.

Stesura “B”: trascrizione dattiloscritta della stesura “A”.

Stesura “C”: ottantacinque cartelle di cui quarantatré costituenti il “Memoriale”, rinvenute nel 1978 in via Monte Nevoso.

Stesura “D”
: 421 fogli, di 245 costituenti il “Memoriale”, rinvenuti nel 1990 sempre in via Monte Nevoso.
“A” è la fonte primaria e originale, una sorta di “fonte Q” del “Memoriale”, mai stata ritrovata e che, molto probabilmente, come sostengono i brigatisti, fu interamente distrutta da Prospero Gallinari dopo che lo stesso aveva provveduto a farne alcune fotocopie, che chiameremo stesura “A1”.

Interamente perduta “A”, concentriamoci quindi su “A1”. Quante copie furono fatte di “A1”? Impossibile dirlo, ma secondo alcuni ne furono fatte diverse che poi vennero distribuite a tutte le colonne brigatiste. È un’ipotesi che moltiplica all’infinito il numero di copie potenzialmente esistenti e circolanti (se così fosse strano che non negli anni, oltre a quella di via Monte Nevoso, non ne siano saltate fuori altre).

Di sicuro una di queste copie fu spedita, via Firenze, tramite Moretti che la consegnò a Bonisoli, a Milano, in via Monte Nevoso appunto, dove confluì in “D”. Probabile anche che un’altra copia di “A1” sia stata recapitata a qualche brigatista detenuto a Cuneo. Potrebbe infatti trattarsi di “A1” quel plico di carte che Dalla Chiesa, come abbiamo visto nel capitolo precedente, chiese a Incandela di recuperare nel carcere dietro soffiata di Pecorelli.

Anche la maggior parte di “B”, come “A”, non è mai stato trovato. Ma a differenza di “A”, nessuno parla di una sua distruzione. Questa copia dattiloscritta di trascrizione integrale di “A” fu fatta probabilmente dal solito Gallinari, a Firenze. Secondo alcuni, anche di “B” furono fatte diverse copie distribuite alle principali colonne.

Una fu sicuramente inviata a Milano in via Monte Nevoso, dove andò Nadia Mantovani per farne l’analisi politica.

La prima bozza di questa analisi politica fu effettivamente ritrovata nel corpus di “C”, ma su “B” restano infiniti dubbi. O “B” è la versione di “C” da cui Bonaventura sottrasse pagine determinanti, oppure “B” fu prelevato da via Monte Nevoso, occultato dalle forze dell’ordine e sostituito con “C”.

Di conseguenza “C” o è una versione ridotta di “B”, oppure è una versione di altra mano prodotta per nascondere “B”.



3. Il grande segreto della Repubblica



Non potendo saperne di più, siamo obbligati ad esaminare esclusivamente “D”, che per quanto probabilmente incompleto, è di sicuro la versione più estesa e veritiera del “Memoriale” in nostro possesso.


Tra le parti più esplosive c’è senz’altro quella dedicata al presidente Segni, che Moro rappresenta come un oscuro uomo di potere che persegue una strategia ostinatamente contraria al centro-sinistra, contravvenendo quindi al suo ruolo super partes di garante delle istituzioni. Cosa più importante, Moro lo indica come il grande regista del “Piano Solo”, il tentato colpo di Stato del 1964 che avrebbe dovuto instaurare in Italia una dittatura militare guidata dal generale De Lorenzo. I passaggi su Andreotti sono particolarmente forti, visto che si parla dei legami dell’allora presidente del consiglio con Michele Sindona e tra le righe si accenna ai rapporti di connivenza con Cosa Nostra.

Si parla del pesante condizionamento esercitato dai servizi segreti americani su tutta la vita politica italiana, della regia degli stessi nella cosiddetta strategia della tensione. A questo proposito, Moro lascia intendere come, in particolare su piazza Fontana, interi settori della Democrazia Cristiana furono sostanzialmente conniventi.
Autentiche bombe che, se rivelate nel 1978, avrebbero fatto saltare ben più di una poltrona.


Ma ciò che avrebbe destabilizzato l’intero sistema è altro, vale a dire il capitolo in cui Moro rivela alle BR l’esistenza di Gladio. Il paradosso più grande è che le Brigate Rosse, chiuse e ottuse nella loro politica fatta solo della più astratta ideologia e completamente a digiuno del più elementare principio di realtà, non seppero cogliere la portata di tale rivelazione.

In una storia così fitta di torbidi misteri e intrighi inquietanti come quella dell’Italia repubblicana, Gladio è il segreto per eccellenza. Un’organizzazione paramilitare clandestina del tipo “stay-behind” (letteralmente: stare nelle retrovie) in seno alla NATO, organizzata dalla CIA in funzione anticomunista e allo scopo principale di contrastare un’ipotetica invasione sovietica, che in Italia operò sotto la copertura dei governi della Democrazia Cristiana, con tanto di delega specifica per il ministro della difesa (per essere poi sciolta nel 1986).


La sua storia e il suo modus operandi furono tutt’altro che limpidi: ebbe stretti e accertati legami con la P2 di Gelli (tutti i vertici di Gladio erano al contempo iscritti alla loggia), ebbe un ruolo più che attivo nella preparazione del tentato colpo di Stato militare passato alla storia come “piano Solo”, fu spalla dei servizi segreti nella strategia della tensione, forti sospetti continuano a gravare circa rapporti con i vertici di Cosa Nostra. E ancora oggi possiamo dire di conoscere appena il 40% di quella storia così torbida e agghiacciante. Il resto – e probabilmente il peggio – è ancora avvolto da una spessissima coltre di mistero.


Ad ogni modo Gladio è la chiave di tutti i misteri legati al caso Moro, il perno attorno cui ruotano tutti quegli avvenimenti, il grande burattinaio capace di tirare in un colpo solo tutti i fili trattati ed esaminati fino a questo punto.


È Gladio, il timore che Moro possa rivelarla, la grande ossessione di tutti sin dal giorno del suo rapimento. La cosa terrorizza il governo, la Democrazia Cristiana, l’amministrazione americana, la CIA, i servizi segreti italiani. E tutti, a partire dai comitati di crisi istituiti da Cossiga, lavorano non per salvare Moro, ma il segreto di Gladio.

Il che spiega ogni inefficienza, ogni lungaggine, ogni assurdità di quei giorni, l’immobilismo, la rigidità incomprensibile della linea della fermezza, l’abbandono disumano in cui viene lasciato da subito lo statista, l’impegno incredibile profuso da ogni parte a rendere inattendibili le sue parole che disperate filtravano dalla prigionia attraverso le lettere.


Moro può anche morire, anzi forse deve morire, ma il segreto di Gladio deve restare tale. Perché è Gladio, non Moro, il vero ostaggio da liberare.

Per questo prima si fa di tutto perché Moro non parli e perché non venga creduto. E poi si fa di tutto per recuperare quelle carte.

Siamo nel 1978, in piena guerra fredda, e l’Italia è il delicato e traballante ago della bilancia dell’intero equilibrio internazionale. Far venire alla luce un segreto così pazzesco come Gladio in quel contesto avrebbe travolto, di colpo, l’intero sistema.

Basta guardare le date.

Casualmente l’appartamento di via Monte Nevoso viene riconsegnato al legittimo proprietario proprio nel 1990, subito dopo la caduta del muro di Berlino. Ovvero subito la fine della guerra fredda e di quegli equilibri di cui Gladio era uno degli oscuri architravi.

E altrettanto casualmente l’esistenza di Gladio viene pubblicamente e precipitosamente rivelata da Andreotti il 24 ottobre 1990. Sempre dopo la caduta del muro di Berlino, quando per quanto imbarazzante il segreto non è ormai più destabilizzante, ma soprattutto appena quindici giorni dopo il ritrovamento del “Memoriale”.
È credibile che siano tutte coincidenze?



4. Quanto ci importa di Moro?

Ma al di là del gioco delle casualità e delle coincidenze, è forse il caso che noi, dove per noi intendo noi cittadini italiani tutti, iniziamo a chiederci quanto ci importa realmente di Moro.
Le istituzioni hanno fatto di tutto per farlo morire prima e per dimenticarlo poi, inquinando a più non posso la verità sulla sua prigionia e sulla sua esecuzione, allontanandone la memoria e rendendo le sue parole semplicemente disperate, poco importanti dal punto di vista storico e politico.
Ma noi in cosa saremmo diversi?
Il “Memoriale” è lì, alla portata di tutti, scaricabile gratuitamente in pdf e leggibile in poche ore.
A chiare lettere c’è scritto che un presidente della repubblica, negli anni ’60, provò a organizzare un colpo di Stato militare per bloccare l’avanzata dei partiti di sinistra e le loro possibili alleanze con la parte più progressista della Democrazia Cristiana. C’è scritto che il sette volte presidente del consiglio Giulio Andreotti da sempre ha intrattenuto rapporti di piena connivenza con Cosa Nostra e torbidi rapporti con i servizi segreti americani. C’è scritto che la CIA e i servizi segreti nostrani appoggiarono e favorirono la strategia della tensione, la stagione delle bombe che per oltre un decennio, da piazza Fontana alla stazione di Bologna, uccisero brutalmente centinaia di cittadini innocenti. C’è scritto che interi settori della Democrazia Cristiana furono conniventi e silenziosi nella strage di piazza Fontana.


C’è scritto tutto questo e molto altro, ed è stato scritto non dall’ultimo dei complottisti, ma da chi quel Palazzo, quegli intrighi, quelle stanze così oscure e avvelenate le ha abitate e dirette, provando inutilmente a cambiarle, per oltre trent’anni.


Non è la piazza che accusa il palazzo, ma il palazzo che accusa sé stesso.
E noi sappiamo, e pur sapendo non facciamo niente e non ce ne importa niente.
Sappiamo e continuiamo a vivere nella più totale e oscena indifferenza.
Sappiamo e, quel che è peggio, facciamo finta di non sapere.







Edited by barionu - 27/4/2024, 21:19
CAT_IMG Posted: 24/4/2024, 13:59 IL CASO MORO LA PISTA FENZI GENOVA VIA FRACCHIA - ZIO OT DICE LA SUA










-------------------------





Capitolo IV



«Osservatore politico» ed il caso Moro.




Il viaggio in Usa di Aldo Moro e l’avvicinamento al Pci.
Il 12 ed il 13 maggio del 1974 si tenne il referendum sul divorzio, il cui risultato segnò
la sconfitta della Chiesa e della Democrazia cristiana. Si avvertì un segnale di un
cambiamento politico e culturale della società italiana verso sinistra182, mentre la scena
politica attraversava una fase che sembrò preludere a grandi cambiamenti. La formula di
centro-sinistra era in crisi, ma non vi furono le condizioni politiche per alternative
centriste o di centro destra. Aldo Moro si convinse della necessità di una nuova politica
italiana che, dopo gli anni del centrismo e delle alleanze con il Psi o altri partiti del
centro-sinistra, avrebbe dovuto affrontare il Partito comunista ed il rapporto con le
masse popolari che in esso si riconoscevano.
Bisogna avere un atteggiamento chiaro, serio e costruttivo nei confronti del partito
comunista verificando con il maggior impegno la validità delle sue proposte e
delle sue critiche e riservando ad esso, nella dialettica democratica e
nell’esperienza sociale ben più ampia e profonda che non l’azione del governo,
una doverosa attenzione e conversazione183.
Le parole di Moro, sebbene prudenti, accrebbero gli allarmi nel Dipartimento di Stato
americano, dal quale venne la richiesta di un più incisivo anticomunismo184 in Italia.
«Osservatore politico» cominciò a dedicarsi con particolare attenzione ad Aldo Moro dal
1974, in occasione del viaggio ufficiale a Washington del ministro degli Esteri e del capo
dello Stato Giovanni Leone. Un’importante missione date le crescenti difficoltà
economiche italiane e l’urgenza d’ottenere aiuti finanziari dall’alleato statunitense.
182 «Se ne ebbe conferma il successivo 16 – 17 giugno, con le elezioni regionali in Sardegna: il Pci
aumentò i propri voti del 7%, il Psi li aumento del 5,7%, mentre la Dc arretrò del 6,2%», FLAMIGNI, Le
Idi di marzo, il delitto Moro secondo Mino Pecorelli, Kaos, Milano 2006, p. 35.
183 Aldo Moro su «Il Popolo» del 20 luglio 1974. Ivi, p. 37.
184 «Noi seguiamo gli avvenimenti dell’Italia con simpatia ed affetto. Potete contare sul fatto che in
qualsiasi momento l’Italia debba affrontare difficoltà, faremo tutto il possibile per assicurarle stabilità e
progresso». Discorso di Henry Kissinger durante la colazione offerta da Leone al Quirinale il 5 luglio
1974, MARIO MARGIOCCO, Stati Uniti e Pci, Laterza, Roma 1981, pag. 167.
75
Il presidente americano Gerald Ford ha dato incarico al suo ambasciatore a Roma
John Volpe di fare un sondaggio tra i vari partiti politici italiani, compreso il Pci, per
avere un quadro quanto più possibile esatto della situazione italiana in vista della
imminente visita del presidente Leone a Washington. A quanto apprende “Op”,
l’ambasciatore Volpe avrebbe incontrato alcuni tra i massimi esponenti del Pci, ai
quali avrebbe detto senza mezzi termini che eventuali aiuti americani al nostro paese
(nuovo piano Marshall) sono legati al non ingresso dei comunisti nell’area di
governo. I Comunisti, avrebbe detto Volpe, possono continuare a pilotare il
movimento sindacale o monopolizzare l’opposizione, ma non debbono assumere
dirette responsabilità di governo. Una eventualità del genere porterebbe ad un
graduale sganciamento dell’Italia dalla Nato185.
Le rivelazioni del direttore della Cia William Colby, fatte alla sottocommissione Forze
armate del Congresso, vennero pubblicate dal New York Times a due settimane
dall’arrivo in America della delegazione italiana. Colby descriveva l’attività Usa in Cile,
dalla corruzione dei deputati per evitare la ratifica della elezione di Allende da parte del
parlamento, al finanziamento di scioperi che bloccarono economicamente il paese per
settimane186. L’attività dell’agenzia sarebbe stata approvata dal «Comitato 40187», un
sottocomitato nell’ambito del Consiglio nazionale della sicurezza con funzione di
controllo verso le attività clandestine della Cia, al tempo presieduto da Kissinger. Le
manovre illegali compiute dall’agenzia in Cile contro il presidente socialista Salvador
Alliende non furono dunque fenomeni devianti, ma azioni volute dal presidente degli
Stati Uniti e dal suo consigliere per la sicurezza. La situazione cilena divenne quindi un
test per osservare il possibile ribaltamento di un regime di sinistra mediante la creazione
di caos al suo interno188. Pochi giorni dopo, il 16 settembre 1974, il presidente Gerald
185 Per gli aiuti Usa il Pci all’opposizione, «Osservatore politico», 23 settembre 1974.
186 «Nel settembre 1970 Allende vinse le elezioni presidenziali. Nixon era furioso e convocò Helms, il
direttore della Cia di allora, a una riunione nello studio ovale con Henry Kissinger. Nixon ordinò
chiaramente d’impedire che Allende entrasse in carica. La Cia si mise d’impegno ed inviò in Cile, per sei
settimane di attività frenetica, una speciale Task Force di suoi operatori indipendenti dalla «stazione» e
che rispondevano solo alla sede centrale di Washington». La mia vita nella Cia, WILLIAM COLBY,
Mursia, Milano 1981, pag 224.
187 RODOLFO BRANCOLI, Gli Usa e il Pci, Garzanti, Milano 1976, p. 128.
188 «Non vedo perché dobbiamo starcene fermi a guardare un paese diventare comunista per
l’irresponsabilità del suo popolo», Henry Kissinger al «Washington Post» del 10 settembre 1974.
76
Ford ammise ufficialmente che l’Amministrazione Usa era intervenuta in Cile, tra il
1970 e il 1973, per favorire il golpe militare del generale Augusto Pinochet189. La
tematica, a pochi giorni dall’arrivo della delegazione italiana, fu un chiaro messaggio: gli
Stati uniti attendevano da Leone assicurazioni che non ci sarebbero stati né
indebolimenti delle alleanze postbelliche, né rilanci del Pci all’interno. Durante i
colloqui Kissinger ribadì con durezza, al ministro degli esteri Moro, l’assoluta
contrarietà dell’Amministrazione a qualsiasi apertura democristiana al Pci, minacciando
il ritiro di qualsiasi aiuto all’economia italiana nel caso la Dc fosse venuta meno alla
chiusura anticomunista. Il segretario di Stato, inoltre, minacciò per l’Italia uno sbocco di
tipo cileno, mentre lo stesso Moro subì intimidazioni dirette al punto che lo stress
nervoso gli provocò un malore poche ore dopo190. Nella sua deposizione alla
Commissione parlamentare d’inchiesta la moglie di Aldo Moro dichiarerà:
È una delle pochissime volte in cui mio marito mi ha riferito con precisione che
cosa gli avevano detto, senza dirmi il nome della persona. Provo a ripeterla come
la ricordo: Onorevole Lei deve smettere di perseguire il suo piano politico di
portare tutte le forze del suo Paese a collaborare direttamente. Qui o Lei smette di
fare questa cosa o Lei la pagherà cara191.
Henry Kissinger non nascose mai la sua personale ostilità nei confronti di Moro, che
considerava il possibile Allende dell’Italia. Il segretario di stato fu ostile alla strategia di
apertura a sinistra attuata in Italia dagli inizi degli anni Sessanta, un grave errore
dell’amministrazione democratica di John Kennedy. Secondo Kissinger, l’alleanza
governativa della Democrazia cristiana con il Partito socialista lasciò ai comunisti il
monopolio dell’opposizione192. L’Italia rappresentava una nazione strategicamente
189 FLAMIGNI, Le Idi di marzo, p. 39.
190«Mi chiamò appena rientrato e mi disse che per alcuni anni si sarebbe ritirato dalla vita politica, cosa
che andava detta ai giornalisti. Risposi che mi pareva strano che si dovesse dare una notizia del genere
quando in Italia si era alla vigilia di una certa evoluzione politica all’interno della Democrazia cristiana
che avrebbe portato l’onorevole Moro alla nomina di presidente del Consiglio. Egli comunque insisteva
nella sua intenzione di ritirarsi dalla politica e nell’esigenza di informare i giornalisti». Guerzoni Corrado
in Commissione parlamentare d’inchiesta sul caso Moro, volume II, Resoconti stenografici, pag. 745.
191 Eleonora Moro in Commissione Moro, volume V, p. 6.
192 «Nel 1963 gli Stati Uniti decisero di sostenere la cosiddetta “apertura a sinistra”, il cui obbiettivo si
identificava in una coalizione fra socialisti di sinistra e democristiani; la cosa avrebbe, almeno così si
sperava, isolato i comunisti. Gli esiti ultimi della coalizione si rivelarono diametralmente opposti a quelli
77
importante per l’alleanza atlantica nell’ambito della guerra fredda, un satellite degli Usa,
caratterizzato dal più forte partito comunista di tutto l’Occidente. Il 28 ottobre 1974 Aldo
Moro venne incaricato dal presidente Leone di formare il nuovo governo. Il leader si
pronunciò contro il compromesso storico, sebbene teorizzò la necessità di collaborazione
con il Pci per risolvere alcuni grandi problemi del paese. Il successo delle sinistre alle
elezioni amministrative del giugno del 1975 fu un terremoto politico di livello
internazionale. «Osservatore politico» attribuì le colpe «alla fazione democristiana senza
coraggio, senza iniziative e senza chiarezza di idee di Moro193», continuando a sostenere
la richiesta di Kissinger di rivitalizzare la Dc. Il Dipartimento di Stato Usa cominciò ad
elaborare una nuova strategia facendo nuovamente leva sui socialisti, potenziati e
schierati sul fronte anticomunista. Carmine Pecorelli fu tra i primi a scrivere del nuovo
atteggiamento americano, a partire dal 19 luglio 1975194, prevedendo l’ascesa del
milanese Bettino Craxi verso la segreteria del partito.
Perché a Washington s’è deciso: il nuovo potere in Italia sarà assicurato da una santa
alleanza anticomunista ma riformatrice, tra un Psi e una Dc tutti rinnovati. Che
magari potranno giovarsi dell’estemporaneo appoggio esterno di un Pci che vorrà far
confluire su qualche disegno di legge anche i suoi voti. Ma che resterà rigorosamente
escluso dall’area del governo. Pena la nascita, con l’appoggio degli Usa, di nuove
formazioni politiche, gemelle e parallele a Dc e Psi195.
«Osservatore politico» scrisse di quanto la politica italiana venisse influenzata dal volere
del dipartimento di stato americano, decidendo il nuovo potere politico; una santa
alleanza fra un Psi ed una Dc rinnovati. Quello che avverrà dopo l’uccisione di Aldo
Moro. Carmine Pecorelli colse tutta l’ostilità nei confronti della politica di Moro e la
scrisse nei suoi articoli. Ore 13: Il ministro deve morire del 19 giugno 1975, una nota
pubblicata da «Op» successivamente alle elezioni amministrative in Italia. Risultati
ritenuti catastrofici per l’atlantismo e gli Stati Uniti, che attribuivano le colpe a Moro. In
sperati. L’apertura a sinistra li fece diventare l’unico partito di opposizione vero e proprio. L’influenza
comunista era anzi così forte che l’acuto Moro aveva deciso di sfruttarla per togliere potere ai socialisti»,
HENRY KISSINGER, Gli anni della Casa Bianca, Sugarco, Milano 1980, p. 95.
193 Carmine Pecorelli cit. in FLAMIGNI, Le Idi di marzo, p. 50.
194 Sarà Craxi il nostro Soares?, «Osservatore politico», 19 luglio 1975.
195 La grande virata della barca socialista, Ivi, 25 ottobre 1975.
78
Moro-bondo del 2 luglio 1975 o L’America, esperta, scherza e prevede del 13 settembre
1975: «Un funzionario, al seguito di Ford in visita a Roma, ebbe a dichiararci: «Vedo
nero. C’è una Jaqueline nel futuro della vostra penisola»196. I riferimenti al possibile
omicidio dell’uomo politico furono presenti in diversi articoli197 del giornalista e
raggiunsero il culmine in tale nota, in cui il direttore di «Osservatore politico» menzionò
la moglie di John Kennedy, ucciso a Dallas il 22 novembre 1963, ipotizzando un futuro
delitto di natura politica anche in Italia. Gli articoli di Pecorelli su Aldo Moro furono
caratterizzati da diverse allusioni di morte, sebbene il politico fosse tra i bersagli
democristiani più risparmiati di «Op». Probabilmente Moro, da ministro degli Esteri,
lavorò diverse volte in stretta collaborazione con il generale Miceli, amico del
giornalista. Inoltre tra il materiale sequestrato nella sede di «Osservatore politico» si
trovarono alcune fotografie che ritraevano Moro insieme a Pecorelli198. Il 7 gennaio
1976, il Psi revocò la fiducia al governo Moro che si dimise. I socialisti mirarono ad
un’alternativa di sinistra con un governo di emergenza nazionale. La copertina di
«Osservatore politico» presentava dunque una caricatura di Moro intitolata Il santo del
compromesso: vergine, martire e…dismesso.
Il compromesso storico è nato come appoggio esterno al centrosinistra. Oggi,
assassinato con Moro l’ultimo centrosinistra possibile, muore insieme al leader
pugliese ogni possibilità di sedimentazione indolore delle strategie di
Berlinguer199.
Pecorelli scrisse, in un articolo successivo, riguardo la possibilità che il segretario del Psi
De Martino avesse revocato la fiducia al governo in seguito a pressioni dei Servizi
statunitensi.
C’è perfino chi insinua che la decisione di De Martino sia legata alla visita avuta dal
segretario socialista da parte di un personaggio (alcuni dicono turco, altri lasciano
196 «Osservatore politico», 13 settembre 1975.
197 Il primo accenno venne da «Mondo d’oggi» nel novembre 1967. In un articolo Carmine Pecorelli
scrisse di un possibile rapimento dello statista, già in piano dal 1964, ad opera del tenente colonnello
Roberto Podestà, DI GIOVACCHINO, Scoop mortale, p. 200.
198 FLAMIGNI, Le Idi di marzo, p. 58.
199 Dopo Moro: la crisi oltre i suoi promotori, «Osservatore politico», 9 gennaio 1976.
79
intendere che sia tedesco): quelli che ne sono al corrente interrompono subito il
dialogo quando si domanda loro se per caso il personaggio misterioso sia un agente
della Cia200.
Sottolineando le preoccupazioni, sia a livello nazionale che internazionale, per l’ipotesi
di un’intesa governativa tra la Dc e il Pci, Carmine Pecorelli disapprovò l’incarico di
Leone affidato a Moro per formare il nuovo governo.
Il male oscuro del nostro paese è che vuol alimentare, a dispetto di Yalta,
un’opposizione che significa alterazione degli equilibri mondiali. E’ per questo che
basta che un sindaco Dc ceda le chiavi ad un collega comunista che entrano subito in
allarme i servizi segreti dei cinque continenti201.
Il 12 febbraio Moro varerà il suo quinto governo, un monocolore votato da Dc e Psdi,
che durò fino al 30 aprile. Sebbene la Democrazia cristiana confermò il suo primato, con
il terzo governo Andreotti, il pericolo del sorpasso e del primato comunista in Italia restò
forte. Il 14 aprile 1976 Aldo Moro diventò presidente del partito, la strada verso il
compromesso storico sembrò sempre più vicina.
Carmine Pecorelli contro il Governo: Il rapimento Moro.
Il 16 marzo 1978 il governo di solidarietà nazionale di Giulio Andreotti si sarebbe
dovuto presentare alla Camera per il voto di fiducia. Il giorno precedente «Osservatore
politico» ironizzò sulla coincidenza di tale data di formazione del governo e le Idi di
marzo202del 44 a.C.
Mercoledì 15 marzo il quotidiano “Vita Sera” pubblica in seconda pagina un
necrologio sibillino: «A 2022 anni dagli Idi di marzo il genio di Roma onora
Cesare 44 a.C. – 1978 d.C.». Proprio alle Idi di marzo del 1978 il governo
Andreotti presta il suo giuramento nelle mani di Leone Giovanni. Dobbiamo
200 Che relazione c’è tra il furto a Moro e la crisi governativa?, «Osservatore politico», 13 gennaio 1976.
201 Il saggio Ulisse, le sirene e la cera alle orecchie, Ivi, 15 gennaio 1976.
202 Data dell'assassinio di Giulio Cesare ad opera di Decimo Giunio Bruto, Marco Giunio Bruto, Gaio
Cassio Longino e altri cospiratori.
80
attenderci Bruto? Chi sarà? E chi assumerà il ruolo di Antonio, amico di Cesare?
Se le cose andranno così ci sarà anche una nuova Filippi?203
Erano le nove del mattino del 16 marzo quando Aldo Moro venne rapito dalle Brigate
rosse. La Fiat 130 di Moro, scortata da altre due auto, percorreva via Fani. All’incrocio
con via Stresa una Fiat 128 targata Corpo Diplomatico, rubata all’ambasciata
venezuelana, bloccò la strada alle tre vetture. Appostati dietro ad alcune siepi laterali
altri brigatisti, vestiti da steward Alitalia, iniziarono un conflitto a fuoco in cui morirono
tutti gli uomini della scorta204. Il comunicato numero uno delle Br venne fatto trovare a
Roma ad un giornalista del Messaggero avvertito telefonicamente sabato 18 marzo. In
una busta, abbandonata sulla parte superiore di un apparecchio per fotografie formato
tessera in un sottopassaggio di largo Argentina, vennero trovate cinque copie del
comunicato e una foto Polaroid che ritraeva Moro seduto sotto una bandiera con la stella
a cinque punte. I brigatisti dichiararono che il presidente della Democrazia cristiana
sarebbe stato sottoposto ad un processo del popolo e che sarebbero seguiti ulteriori
comunicati.
Qui Brigate rosse. Abbiamo rapito noi il servo dello stato Aldo Moro. Abbiamo
ucciso Leonardi e tutti gli altri della scorta. Le nostre richieste sono due: la
liberazione di tutti i compagni detenuti a Torino e i compagni di Azione
rivoluzionaria, tutti quanti. Entro quarantotto ore questo comunicato dovrà essere
letto su tutte le reti nazionali e ad un certo punto attendiamo una risposta. Se la
risposta non sarà valida faremo fuori anche Aldo Moro205.
Nei giorni successivi alla strage di via Fani, il bollettino ciclostilato «Op» si trasformò in
un settimanale distribuito nelle edicole di tutta Italia. Il primo numero, distribuito tra il
203 Le Idi di marzo, «Osservatore politico», 15 marzo 1978.
204 Le vittime della strage di via Fani: Oreste Leonardi, uomo scorta di Aldo Moro da quindici anni che
fece scudo con il proprio corpo per proteggere dai proiettili lo statista; Domenico Ricci, Autista di Moro
da oltre vent’anni; Francesco Zizzi, uno dei suoi primi giorni di scorta, morto durante il trasporto
all'ospedale Gemelli di Roma; Giulio Rivera, alla guida dell’auto di scorta che precede quella del
presidente della Dc; Raffaele Jozzino, l’unico che uscì dalla vettura e che esplose colpi d’arma da fuoco.
GIACOMO FIORINI, Il rapimento e l’uccisione di Aldo Moro. Interventi di Paolo VI. Dibattito e
Riflessioni, Università degli studi di Padova, tesi di laurea triennale in Storia, rel. Prof. G. Romanato, a.a
2007 – 2008, p. 18.
205 AGOSTINO GIOVAGNOLI, Il caso Moro, una tragedia repubblicana, Il Mulino, Bologna 2005, p.
91.
81
20 e il 21 marzo, portò la data posticipata al 28 marzo 1978206, mentre due giorni prima
venne ritrovato il secondo comunicato della Br. Carmine Pecorelli analizzò la situazione
in numerosi articoli, il primo, Abbiamo svoltato l’angolo, analizzò l’inadeguatezza dello
Stato nei confronti del Terrorismo.
Non illudiamoci: il rapimento Moro è una tappa, non il culmine della guerra civile
in Italia. Colpito al cuore lo Stato, i commandos brigatisti passeranno ad altri la
mano per operazioni più ampie. È la tragica escalation di tutte le rivoluzioni: ad un
certo punto si passa da azioni individuali a sollevazioni di massa. Da anni nel
nostro paese si sta sviluppando una minirivoluzione di tipo sudamericano. Sparuti
gruppi di guerriglieri sabotano l’economia, turbano l’ordine pubblico e la pace
sociale, attentano alle istituzioni e alla sicurezza. A fronte di tutto ciò, nessuna
reazione adeguata da parte dello Stato. Mentre pochi guerriglieri seminano morte e
disperazione nelle strade della penisola, Parlamenti e governi che si sono succeduti
in rara abbondanza hanno puntualmente smobilitato la macchina della difesa delle
istituzioni democratiche […] . Il Parlamento ed il Governo italiano hanno curato
uno stato ammalato di broncopolmonite doppia, somministrando solo aspirine. E
con estrema parsimonia. I terroristi hanno dichiarato guerra ad uno stato che,
evangelicamente, ha offerto l’altra guancia. Anche oggi, mentre tengono in
ostaggio il massimo statista italiano, presunti statisti ci fanno assistere al solito
balletto di sepolcri imbiancati: Zaccagnini piange e tremita, Leone si leva
sdegnato, commemora i defunti e torna a sedersi. A Montecitorio, a Palazzo
Madama, deputati e senatori, le facce della paura e gli occhi fuori dalle orbite,
affrettano i tempi di fiducia al governo. Nasce su cinque cadaveri, nasce sul
sequestro del presidente della Democrazia cristiana il primo governo italiano di
segno eurocomunista207.
L’analisi di Pecorelli riassunse i massimi luoghi comuni della reazione, la guerra civile
che lo Stato non represse e le istituzioni che smobilitarono l’apparato della difesa. In
questo articolo mutò anche l’atteggiamento del giornalista nei confronti del leader
democristiano; definito dal giornale, in diverse riprese, «lentocrate208» o «monarca
206 FLAMIGNI, Le Idi di marzo, p. 246.
207 Abbiamo svoltato L’angolo, «Osservatore politico», 28 marzo 1978.
208 FLAMIGNI, Le Idi di marzo, p. 247.
82
assoluto», si passò a scrivere di Moro come fosse il simbolo del più grave attentato della
storia repubblicana definendolo «il massimo statista italiano». Pecorelli descrisse lo
sgomento degli uomini del partito e del IV governo Andreotti, un monocolore sostenuto
da Pci, Psi, Psdi e Pri, che ricevette la fiducia quasi unanime dalla Camera e dal Senato il
16 marzo 1978209.
Che ne sarebbe della Dc se Moro non dovesse essere restituito al più presto alla vita
politica? Andreotti è troppo poco uomo di partito e troppo uomo di potere del
governo; Fanfani è logoro d’anni e di sconfitte, Forlani se ne avesse la forza non ne
avrebbe la voglia, Bisaglia ha atteso troppo all’ombra d’altri per poter oggi
improvvisamente balzare alla ribalta. Colpiscine uno, educane cento: è lo slogan
delle Brigate rosse. Mai come colpendo Moro i terroristi sono stati fedeli al loro
programma. Chi in questi giorni ha potuto vedere da vicino qualche parlamentare
Dc, ha visto uomini distrutti, insicuri del proprio futuro fisico oltre che politico. A
Piazza del Gesù l’ufficio di Moro è deserto, né si sa quando il presidente potrà
riprenderne pieno possesso. Nella stanza accanto c’è Zaccagnini, ma è una bussola
impazzita senza più punto magnetico di riferimento. I terroristi hanno sequestrato gli
equilibri politici, hanno sequestrato i tempi e i modi previsti per l’allunaggio
morbido degli astronauti democristiani sul pianeta rosso210.
Sottolineando come il sequestro di Moro abbia colpito il solo leader democristiano
capace di mantenere unione nel partito e l’unico interlocutore della strategia
berlingueriana del compromesso storico.
Quanto alle prospettive, sono terribili. I terroristi hanno tutto l’interesse a tirare per
le lunghe, tenere per giorni e giorni il paese nell’angoscia. Ricordiamo il
precedente di Mario Sossi. Rimase nelle mani delle Brigate rosse per quaranta
lunghissimi giorni211. Anche a Moro, come a Sossi, i “carcerieri del popolo”
celebreranno un macabro processo. Lo sottoporranno ad ogni sevizie psicologica,
209 Per la Camera il governo ottenne 545, 30 no e 3 astenuti. Al Senato 267 si e 5 no. Data l’emergenza il
Pci accantonò le riserve su Andreotti e votò la fiducia. Ivi, p. 248.
210 Il caso Moro: il partito, «Osservatore politico», 28 marzo 1978.
211 Le Br avevano sequestrato a Genova il sostituto procuratore Mario Sossi il 18 aprile 1974. Durante i
quaranta giorni di prigionia, il magistrato era stato lungamente interrogato dai brigatisti, ai quali aveva
fatto importanti e gravi ammissioni relative alla magistratura ed alla questura genovese, FLAMIGNI, La
sfinge delle Brigate rosse, p. 108.
83
lo ridurranno ad ecce homo, gli somministreranno sostanze chimiche e lo faranno
parlare. Gli faranno dire ciò che vogliono sulla Dc, sulla Nato, sugli Stati Uniti,
sulle più scabrose vicende politiche degli ultimi trent’anni è […]. Come sarà
ridotto al termine di questa vicenda Aldo Moro, l’orologiaio del nostro sistema
politico?212
Pecorelli arricchì il numero del 28 marzo con alcune notizie riservate, sebbene imprecise,
riguardo il rapimento di via Fani. Si trattò dell’articolo Il caso Moro: l’inchiesta, dove il
giornalista ricostruì le dinamiche del rapimento del 16 marzo:
Gli investigatori sono riusciti a ricostruire qualche particolare di rilievo. Dopo
l’agguato in via Mario Fani alle 9.10 di giovedì mattina, la 132 con a bordo Moro,
preceduta e seguita dalle due 128 del commando del terrore, ha imboccato via
Stresa, percorso un tratto di via Trionfale, superato l’incrocio di via Igea e girato a
destra per una via privata, via Carlo Belli. In fondo a questa strada, dove inizia via
Casale de’Bustis, c’è un ostacolo naturale: un cancelletto metallico chiuso da una
pesante catena. La 132 si ferma, scende una donna che con un paio di cesoie recide
la catena, apre il cancello e consente il passaggio del convoglio delle brigate. A quel
punto Moro era ancora nella 132. Lo ha visto distintamente un testimone, coperto da
un plaid di lana scozzese. Pochi minuti dopo la 132 si ferma per una seconda volta, è
in via Licinio Calvo. Anche qui un testimone può guardare, ed è pronto a giurare che
Moro non è più all’interno della vettura. La zona è stata setacciata metro per metro:
Moro non è stato ritrovato. I terroristi devono averlo trasferito in un altro mezzo di
locomozione fermandosi una terza volta nel tratto Casale de’Bustis – Licinio Calvo.
Su quale mezzo è stato trasportato il Presidente della Dc? Escluso l’elicottero, su
qualsiasi altro veicolo213.
L’ipotesi dell’elicottero tornerà ad essere citata diverse volte negli articoli214, sfruttando
le parole di un testimone che giurò d’aver udito il rombo di un elicottero poco dopo la
strage. Nei successivi articoli «Osservatore politico» attribuì la strage di via Fani alle
sinistre, non solo per l’ideologia politica dei terroristi, ma anche perché le sinistre stesse
212 Il caso Moro: le prospettive, «Osservatore politico», 28 marzo 1978.
213 Il caso Moro: l’inchiesta, Ivi, 28 marzo 1978.
214 «Non saranno infatti andati appunto in elicottero a deporre Moro?», Ivi, 25 aprile 1978.
84
contribuirono allo smantellamento dei servizi segreti215. Sbilanciandosi portavoce
dell’atlantismo, sottolineò l’obbiettivo politico che sarebbe dovuto scaturire da tale
vicenda: Una svolta moderata di tipo autoritario contro la sinistra ed il sistema dei partiti,
una Repubblica presidenziale. È ciò che scrisse nell’articolo del 4 aprile 1978, Alla
riscoperta dello Stato.
Giovedì 16 marzo è diventato certezza il dubbio che da tempo covava nella mente di
gran parte del Paese: per uscire dalla crisi, innanzitutto è necessario rifondare questo
Stato, incapace di difendere persino i suoi uomini più prestigiosi […]. Il Paese si è
reso conto del fallimento dei modelli del permissivismo sinistroide, ha compreso che
partono di qui l’anarchia, il caos, l’insicurezza che fanno da scenario alla guerra
civile. E che se si vuole uscire dalla crisi economica e sociale è necessaria una vera e
propria rivoluzione morale che restituisca credibilità e significato alle istituzioni216.
Nell’articolo Attenzione ai falsi profeti, il giornalista prese di mira i parlamentari
comunisti e socialisti che si occuparono della riforma della polizia e dei Servizi segreti217
e gli organi di stampa che fino al giorno del rapimento Moro sembrarono d’accordo a
queste modifiche. Inoltre Pecorelli si sbilanciò dimostrandosi contrario a riforme e
processi di democratizzazione degli apparati statali218.
Tanto per fare un esempio vistoso, “L’Espresso” della scorsa settimana denunciando
l’inefficenza dell’attuale struttura di sicurezza dello Stato, invocava i fantasmi dei
Maletti219, dei D’Amato, dei Dalla Chiesa, dei Santilli. Cioè proprio degli ufficiali e
degli alti funzionari di polizia che quel settimanale negli scorsi anni ha additato
all’odio del Paese, ha fatto allontanare con infamia o con dolore dai posti di
215 «In realtà, la sinistra assunse iniziative legislative per affrontare i cosiddetti “Corpi separati dello
Stato” e per adeguare l’ordinamento delle istituzioni militari e di sicurezza alla Costituzione
repubblicana», FLAMIGNI, Le Idi di marzo, p. 257.
216 Alla riscoperta dello Stato, «Osservatore politico», 4 aprile 1978.
217 Ugo Pecchioli, Sergio Flamigni, Arrido Boldrini del Pci; Vincenzo Balzamo, Giacomo Mancini,
Silvano Signori del Psi, FLAMIGNI, Le Idi di marzo, p. 258.
218 Ibidem.
219 «Op dimentica, come per incanto, la sua lunga campagna contro il generale Gianadelio Maletti,
conclusa solo quando l’ufficiale del Sid venne arrestato ed incarcerato per le deviazioni del Servizio», Ivi,
p. 257.
85
responsabilità e di comando. Ma nemmeno un cenno di autocritica nell’articolo in
questione, quasi “L’Espresso” fosse giunto ieri da un altro pianeta220.
Si continuò a sottolineare la superficialità del gruppo politico dinnanzi la drammatica
vicenda, riferendosi al tentativo d’oscurare la gravità della situazione alla stampa ed al
popolo italiano. Pecorelli si riferì in particolar modo alla questione della foto di Moro
scattata dal covo brigatista, che sollevò quesiti sulla vera autenticità e sul terzo
comunicato delle Br con la lettera di Moro a Cossiga. Diffuso il 29 marzo 1978, con
allegata una lettera segreta destinata al ministro dell’Interno che le Br resero pubblica221.
Il messaggio n. 3 delle Brigate rosse, lo scritto autografo di Aldo Moro che è stato
recapitato alle 21.10 di mercoledì a Francesco Cossiga, ha fatto cadere nel vuoto
l’ipotesi che fosse un fotomontaggio l’immagine del presidente della Dc prigioniero
che ha angosciato l’Italia dalle pagine dei giornali. Il particolare rivela la pericolosa
superficialità, l’avventurosità, con la quale i politici hanno affrontato e stanno
affrontando la più drammatica vicenda nazionale. Ancora una volta, invece di
affrontare da uomini tutti i problemi proposti dalla difficilissima situazione, hanno
cercato d’imbrogliare le carte, d’imbrogliare il paese. Ci è stato detto, contro ogni
evidenza ci è stato fatto dire, che la foto di Moro prigioniero era una falsificazione,
con l’evidente scopo d’invalidare ogni futuro messaggio del presidente
democristiano. Senza battere ciglio, senza alcuno scrupolo morale, è stato fatto
pensare al paese persino che Moro non fosse più in vita. Il terrorismo non si batte
con questi mezzucci buoni solo per manipolare qualche assemblea condominiale.
Oggi infatti, con sadica puntualità, i brigatisti hanno smascherato gli apprendisti
stregoni agli occhi di tutto il paese. Speriamo che lo choc dia qualche risultato222.
Nello stesso numero Carmine Pecorelli citò il documento delle Br che rivendicò il
sequestro dell’armatore Costa nel 1977223, pubblicato in esclusiva da «Op» e caduto
220 Attenzione ai falsi profeti, «Osservatore politico», 4 aprile 1978.
221 «Moro ha chiesto di scriverle una lettera segreta (le manovre occulte sono la normalità per la mafia
democristiana) al governo ed al capo degli sbirri Cossiga. Gli è stato concesso, ma siccome niente
dev’essere nascosto al popolo, ed è questo il nostro costume, la rendiamo pubblica», Comunicato n. 3
delle Brigate rosse, FLAMIGNI, Le Idi di marzo, p. 258.
222 Di fronte alla lettera di Moro, «Osservatore politico», 4 aprile 1978.
223 «L’armatore genovese Pietro Costa venne sequestrato da un commando brigatista la sera del 12
gennaio 1977. L’ingente riscatto di un miliardo e mezzo di lire venne pagato a Roma dalla famiglia, alla
86
nell’indifferenza. Secondo il giornalista lo Stato avrebbe dovuto capire la pericolosità e
le intenzioni dei terroristi invece che sottovalutarne il fenomeno. Si trattò dell’ennesima
critica del giornalista al Governo.
Quando un anno or sono l’agenzia Op ne dette pubblicazione integrale, il documento
cadde nell’indifferenza quasi assoluta. Oggi assume un valore particolare: con il
sequestro Costa i terroristi hanno finanziato il sequestro Moro; la colonna del terrore
che ha stilato il documento è la stessa colonna che sta processando Aldo Moro. Ma il
documento è importante anche per un secondo motivo. Esso rivela che fin dallo
scorso anno avrebbe dovuto essere chiaro che con le Br lo stato si trovava a che fare
con una organizzazione estremamente estesa ed agguerrita che per preparazione,
determinazione e livello d’informazione costituisce un formidabile nemico. Ciò
avrebbe dovuto provocare la mobilitazione immediata di tutti gli apparati di
sicurezza del paese. Così non è stato. I politici continuando nei loro compromessi e
nelle loro parole hanno allegramente continuato a smantellare i servizi segreti e ad
avvilire il personale militare. Oggi le Brigate rosse hanno collocato una bomba ad
orologeria nel cuore dello Stato. C’è solo da augurarsi che esista ancora un artificiere
in grado di disinnescarla224.
Precedentemente ai fatti avvenuti il 16 marzo 1978, a più riprese Aldo Moro sembrò
preoccuparsi di una possibile situazione o evento che avrebbe potuto colpire il mondo
politico. Il leader democristiano disse di temere gesti clamorosi che le Br avrebbero
potuto compiere a danno di qualificati esponenti della Democrazia cristiana. Emersero
inoltre le inquietudini dello statista verso le azioni dei Servizi segreti occidentali e della
Cia. Il dirigente democristiano Giovanni Galloni testimonierà di un dialogo avuto con
Moro due mesi prima del suo rapimento.
La cosa di cui sono molto preoccupato è questa: io so che i Servizi Segreti
americano ed israeliano hanno degli infiltrati nelle Brigate rosse, però questi servizi
fine di marzo senza alcun intervento dello Stato. Costa venne liberato il 3 aprile, con in tasca il
comunicato con il quale le Br rivendicarono il rapimento. L’ingente somma di denaro ottenuta permise a
Moretti di consolidarsi come capo – padrone delle Br e di dotare l’organizzazione di una disponibilità
finanziaria quale mai ha avuto prima. Denaro che verrà utilizzato per acquistare armi, appartamenti e per
preparare l’operazione Moro», FLAMIGNI, La sfinge delle Brigate rosse, p. 189.
224 Il documento che annunciò la guerra, «Osservatore politico», 4 aprile 1978.
87
non ci hanno mai fatto comunicazione ai nostri servizi o allo Stato, perché
certamente le loro indicazioni potrebbero essere utili per la ricerca dei covi225.
Inoltre Moro ricevette diverse minacce scritte dalle Brigate rosse, sia nella sua abitazione
che nel suo ufficio di via Savoia. Ne parlò Pecorelli nell’articolo Moro era stato
minacciato dalle Brigate rosse, sottolineando come tutti, compreso le guardie del corpo
del politico, fossero preoccupati. Secondo il giornalista tutti tranne lo Stato.
Aldo Moro aveva informato dell’arrivo di questi messaggi intimidatori gli uffici
competenti. Ma, a quanto risulta, all’informazione non è stata data alcuna
importanza. I risultati si sono visti il 16 marzo in via Fani. Chi invece si era
preoccupato dei messaggi delle Br è stato il povero Oreste Leonardi, il sottoufficiale
che da quindici anni tutelava l’incolumità di Aldo Moro. Quasi mosso da un oscuro
presentimento, il Leonardi, la mattina del 16 marzo, aveva raddoppiato l’abituale
dotazione di proiettili per la sua pistola. Purtroppo le Br non gli hanno dato il tempo
di servirsene226.
«Osservatore politico» per la trattativa.
Nella fase iniziale del rapimento Moro, Carmine Pecorelli si pronunciò in favore della
fermezza di Stato ma, dall’inizio dell’aprile 1978, cominciò a scrivere numerosi articoli
in favore della possibile trattativa con i terroristi. Con l’articolo In nome del popolo:
trattare… infatti, il giornalista aprì la strada al partito della trattativa. Questo cambio di
posizione sarebbe avvenuto successivamente alla lettera dello statista a Cossiga227.
Al termine di affannose consultazioni, la segreteria democristiana ha deciso di non
trattare con le Brigate rosse lo scambio del presidente Moro […]. Aldo Moro sarà
sacrificato sull’altare della ragion di Stato. Di quale Stato?
Incapace di amministrare la giustizia, incapace di difendere i cittadini, incapace di
punire i disonesti e speculatori, incapace di offrire prospettive al Paese, privo di
225 Aldo Moro da FLAMIGNI, Le Idi di marzo, p. 264.
226 Moro era stato minacciato dalle Brigate rosse, «Osservatore politico», 4 aprile 1978.
227 Aldo Moro da FLAMIGNI, Le Idi di marzo, p. 265.
88
autorità di ordine e di morale, questo Stato oggi si tiene in piedi solo rinnovando il
macabro rituale del sacrificio umano228.
Pecorelli si domandò per quale ragione, gli stessi uomini politici che si congratularono
con la Dc tedesca per aver trattato con il «Movimento 2 giugno» riguardo il rapimento
Peter Lorenz e gli stessi che si indignarono nei confronti della Repubblica Federale
Tedesca per non aver voluto trattare con i terroristi palestinesi nell’attentato di Palma De
Maiorca229, fossero assolutamente contrari alla trattativa per Moro.
Quelli stessi che oggi hanno rifiutato di salvare la vita a Moro, sono gli stessi che ieri
inveivano contro la Germania e contro Israele rei di non voler trattare con i terroristi
palestinesi; sono gli stessi che hanno plaudito alla Dc tedesca disposta a trattare per
Lorenz. Perché allora non trattare per Moro? A chi giova non trattare? La decisione
di non trattare è iniqua e inopportuna, ispirata da una logica perversa e suicida. Non
accettando le trattative, la Dc s’è detta indifferente alla sorte di Moro. Che succederà
se le Br non dovessero restituire il loro legittimo capo ai democristiani?230
Nell’articolo del 18 aprile 1978 «Osservatore politico» scrisse riguardo alla lettera del
prigioniero per la moglie Eleonora, intercettata dalla polizia l’8 aprile e consegnata alla
signora Moro. Pecorelli precisò d’aver preso visione di questa lettera prima del Viminale
e della Procura, dimostrandolo in tale articolo. Sebbene il testo integrale venne
pubblicato da «Op» solo il 13 giugno 1978, fu chiaro che il giornalista ne prese visione
ben prima, probabilmente grazie ai numerosi contatti con la P2, i servizi segreti ed il
Viminale231.
228 In nome del popolo: Trattare…, «Osservatore politico», 4 aprile 1978.
229 In questo articolo Pecorelli si riferisce al rapimento del politico Peter Lorenz, dell’Unione Cristiano
Democratica, rapito nel 1975 e dell’attentato ad opera del gruppo terroristico tedesco Rote Armee
Fraktion del 13 ottobre 1977 a Palma di Maiorca, dove un gruppo di quattro terroristi palestinesi dirottò
un Boeing 737 della Lufthansa, prendendo in ostaggio novantuno persone. La RAF pretese la liberazione
dei propri capi in cambio della vita degli ostaggi dell'aereo e dell'industriale tedesco Schleyer. Il governo
tedesco non si piegò al ricatto dei terroristi ed il 17 ottobre, con un'azione di forza, assaltò l'aereo
uccidendo 3 terroristi e liberando gli ostaggi.
230 In nome del popolo: Trattare…, «Osservatore politico», 4 aprile 1978.
231 «Pecorelli aveva contatti con il sostituto procuratore Luciano Infelisi, titolare dell’inchiesta»,
FLAMIGNI, Le Idi di marzo, p. 272.
89
Innanzitutto dobbiamo precisare che le lettere di Moro alla famiglia sono quattro,
perché se è vero che il postino delle Br ha bussato solo tre volte alla porta del prof.
Rana, l’ultima ha recapitato due messaggi di Moro. La lettera più importante è
proprio questa. È scritta con una penna a biro su due fogli, con qualche cancellatura
e qualche ripetizione. Sul suo contenuto nulla è trapelato, perché il prof. Rana non
l’ha mostrata a nessuno, recapitandola personalmente alla moglie di Moro. Ciò
significa che il testo non è ancora stato visto né al Viminale né alla Procura. Per un
doveroso rispetto per il dolore dei familiari, evitiamo di riferire particolari che
riguardano un dramma tutto loro. Ma il nostro dovere professionale ci obbliga a
sottolineare le parti politiche della lettera di Moro, quelle relative alle accuse
all’interno del gruppo dirigente democristiano232.
Dunque il giornalista visionò la lettera prima del dovuto e lo ammise tacitamente
continuando a rivelarne i contenuti del prigioniero riguardo le soluzioni politiche. La
necessità della trattativa, lo scambio di prigionieri, ma soprattutto citando la frase «il mio
sangue ricadrà sulle teste di Cossiga e Zaccagnini»233.
Noi, unica vera voce controcorrente nel coro della stampa italiana, abbiamo detto
subito che bisognava trattare. Ci risulta che la nostra tesi è stata discussa a lungo nel
corso di un vertice del Viminale. Poi, chissà perché, è stata lasciata cadere. Si fosse
almeno cominciato a trattare, il presidente Moro non si sarebbe sentito abbandonato
al suo destino, il Paese non avrebbe dovuto assistere al reciproco crucifige dei suoi
massimi rappresentanti istituzionali. Che succederà adesso? Si sente ripetere dal
solito coro dei giornalisti che c’è il pericolo che Moro riveli alle Br segreti si stato.
Non prendiamoci in giro. Questo non è uno Stato che ha segreti da custodire. Il
pericolo vero è che Moro riveli segreti di uomini politici e partiti. Il processo
Lockheed è appena cominciato: che potrebbe accadere se rivelasse alle Br l’identità
232 La lettera segreta di Moro. Uno spettro s’aggira per i corridoi repubblicani, «Osservatore politico»,
18 aprile 1978.
233 «Naturalmente non posso non sottolineare la cattiveria di tutti i democristiani che mi hanno voluto
nolente ad una carica, che, se necessaria al Partito, doveva essermi salvata accettando anche lo scambio
dei prigionieri. Sono convinto che sarebbe stata la cosa più saggia. Resta, pur in questo momento
supremo, la mia profonda amarezza personale. Non si è trovato nessuno che si dissociasse? Nessuno si è
pentito di avermi spinto a questo passo che io chiaramente non volevo? E Zaccagnini? Come può
rimanere tranquillo al suo posto? E Cossiga che non ha saputo immaginare nessuna difesa? Il mio sangue
ricadrà su di loro», FLAMIGNI, Le Idi di marzo, p. 272.
90
dell’Antilope nazionale234? O l’elenco dei 554 conti svizzeri degli amici di Michele
Sindona?235
Nell’articolo Cade Cossiga, cade Zaccagnini…e dopo? del 18 aprile 1978 Pecorelli
analizzò l’accusa rivolta da Moro nei confronti del collega Emilio Taviani,
considerandola un atto di viltà verso un uomo ormai privo di potere.
Moro ha definito Taviani un «teppista di Stato». Taviani è da tempo un pezzo da
museo, un cadavere nell’armadio politico italiano, prendersela con lui significa voler
fare il maramaldo. In passato, quando era ancora un uomo di potere, dalle pagine
dell’agenzia Op, abbiamo più volte duramente polemizzato con il ministro genovese,
rimproverandogli d’essere stato il primo affossatore dell’ordine pubblico sostenendo
che in Italia esiste un solo terrorismo: quello nero236.
L’articolo fu in riferimento al comunicato numero cinque, recapitato dalle Brigate rosse
intorno alle 17.20 del 10 aprile 1978, con allegato ad esso un una fotocopia del
manoscritto di Moro su Emilio Taviani.
L’interrogatorio del prigioniero prosegue e, come abbiamo già detto, ci aiuta
validamente a capire le linee antiproletarie, le trame sanguinarie e terroristiche che si
sono dipanate nel nostro paese, ad individuare con esattezza le responsabilità dei vari
boss democristiani, le loro complicità, i loro protettori internazionali, gli equilibri di
potere che sono stati alla base trent’anni di regime Dc. L’informazione e la memoria
di Aldo Moro non fanno certo difetto ora che deve rispondere davanti a un tribunale
del popolo. Mentre confermiamo che tutto verrà reso noto al popolo e al movimento
rivoluzionario che saprà utilizzarlo opportunamente, anticipiamo le dichiarazioni che
il prigioniero Moro sta facendo, quella parziale ed incompleta, che riguarda il
teppista di Stato Emilio Taviani237.
234 Il politico italiano primo beneficiario delle tangenti nello scandalo Lockheed era coperto da
pseudonimo «Antelope Cobbler», Ibidem.
235 La lettera segreta di Moro. Uno spettro s’aggira per i corridoi repubblicani, «Osservatore politico»,
18 aprile 1978.
236 Cade Cossiga, cade Zaccagnini…e poi?, Ibidem.
237 Comunicato numero cinque, GOTOR, Il memoriale della repubblica, Einaudi, Torino 2011, p. 6.
91
Attraverso il documento Taviani, Aldo Moro sviluppò delle motivazioni atte a
giustificare una trattativa con le Brigate rosse attraverso lo scambio di prigionieri politici
e mosse una forte critica nei confronti del politico Taviani attraverso la ricostruzione
della sua carriera. Moro accusava il collega d’essere «andato in giro» per tutte le
correnti, portandovi la sua indubbia efficienza ed una grande spregiudicatezza; d’aver
avuto una condotta poco lineare, per le sue alleanze con il Msi e successivamente con il
Pci; per essere sempre stato influenzato dagli ambienti americani e per aver avuto forti
contatti con essi, ma soprattutto per la sua amicizia con l’ex direttore del Sid, Eugenio
Henke. Il documento oltre ad avere un valore rilevante dal punto di vista storico,
considerato parte del memoriale Moro, rivela dei possibili messaggi tra le righe lanciati
dal prigioniero al partito ed al mondo politico. Soltanto al termine della guerra fredda,
infatti, si sarebbe venuto a sapere che Taviani, nel suo periodo al ministero della Difesa e
quando il suo capo di gabinetto fu proprio Henke, fu il fondatore dell’organizzazione
segreta Stay-behind. Tale struttura venne costituita con l’unico scopo di difesa in caso
d’invasione sovietica, o nell’eventuale possibilità che il comunismo dilagasse in Europa.
L’appendice italiana di questa organizzazione, chiamata Gladio, era conosciuta solo da
un manipolo di uomini ai vertici dello Stato238. Dunque il fatto che la prima pagina degli
interrogatori di Moro divulgata attaccasse proprio il fondatore di Stay-behind, scosse
notevolmente questi uomini politici. Pecorelli non poteva saperlo, non cogliendo la frase
di Moro: «vi è forse, nel tener duro contro di me, un’indicazione americana o tedesca?».
Cinque giorni dopo, il 15 aprile 1978, il comunicato numero sei delle Br rivelò la
conclusione dell’interrogatorio e l’inevitabile condanna a morte del prigioniero.
Le Brigate rosse, mediante il solito volantino, annunziano che il «processo» ad Aldo
Moro è terminato e che «l’imputato» è stato condannato a morte. La stampa
commenta in maniera pressoché uniforme, si fa quadrato intorno alle istituzioni in
pericolo, si ribadisce la necessità del non cedimento – benché non appaia ben chiaro
su cosa eventualmente si dovrebbe cedere, dal momento che a tutt’oggi il tribunale
del popolo non adombra neppure l’alternativa alla condanna239.
238 Emilio Taviani, Francesco Cossiga, Giulio Andreotti, Aldo Moro, Giuseppe Saragat, Ugo La Malfa,
Luigi Longo, Ivi, p. 22.
239 Diario dell’irreale assoluto. Sabato 15 aprile: la condanna, «Osservatore politico», 25 aprile 1978.
92
Il dossier di «Op» Diario dell’irreale assoluto del 25 aprile 1978, descrisse gli
avvenimenti nei cinque giorni che intercorsero tra il sesto comunicato Br ed il settimo.
Pecorelli dedicò ampio spazio anche al falso comunicato brigatista del 18 aprile 1978,
contenente l’annuncio dell’avvenuta esecuzione di Aldo Moro e le istruzioni per il
ritrovamento del corpo presso il Lago della Duchessa, in provincia di Rieti240. Un
enorme dispiegamento di forze alla ricerca del cadavere di Moro che lo stesso presidente
democristiano, nel suo memoriale, definì «la macabra grande edizione sulla mia
esecuzione»241.
Un volantino anomalo, rachitico, frettoloso e recapitato in una sola città
contrariamente ai precedenti, annuncia l’avvenuta esecuzione per suicidio di Aldo
Moro, ed il suo seppellimento in un laghetto di montagna. I leader dei partiti, sempre
più accasciati e con un che di ambiguo disorientamento, dispongono, pur
nell’incertezza sull’attendibilità del messaggio, le ricerche. La via per il lago
segnalata risulta impraticabile da terra a causa della neve e del gelo degli ultimi
giorni. Si muovono elicotteri che depositano sciatori, esperti anti-valanghe e
sommozzatori sul lago, il quale risulta oltre che coperto di neve fresca priva di
impronte, anche totalmente ghiacciato. Non rimane che perforarlo, e senza alcun
esito. Si dirottano le ricerche su un altro laghetto poco distante, che presenta
caratteristiche meno ostiche e improbabili. Nulla242.
L’articolo collegò il falso comunicato con la scoperta del covo Br di via Gradoli,
avvenuta lo stesso giorno. Per il giornalista si tratto di un’unica operazione
accuratamente pilotata243. Il rifugio venne scoperto grazie ad una fuga d'acqua, che
secondo i vigili del fuoco sembrò essere stata volutamente provocata: uno scopettone era
240 Il 18 aprile 1978 venne diffuso un falso comunicato, contenente l’annuncio dell’avvenuta esecuzione
di Aldo Moro. Venne indicato il luogo dove trovare il cadavere del presidente democristiano, nei fondali
del Lago della Duchessa in provincia di Rieti. Un comunicato falso che il Viminale dichiarò autentico,
FLAMIGNI, Le Idi di marzo, p. 281.
241 Ivi, p. 284.
242 Diario dell’irreale assoluto. Lunedì 17 e martedì 18 aprile: la presunta esecuzione e la troppo
inequivocabile scoperta del covo, «Osservatore politico», 25 aprile 1978.
243 «L’infiltrazione d’acqua fu una manovra deliberatamente attuata per provocare la scoperta del covo Br
di via Gradoli 96 senza che ciò provocasse l’arresto di alcun brigatista. La teatrale scoperta del covo
venne sincronizzata con la diffusione del comunicato Br del Lago della Duchessa. E se la scoperta del
covo era chiaramente pilotata, il comunicato numero sette era palesemente falso», FLAMIGNI, Il covo di
Stato. Via Gradoli 96 e il delitto Moro, Kaos 1999, p. 49.
93
stato appoggiato sulla vasca, sopra ad esso qualcuno aveva posato il telefono della doccia
in modo che l'acqua si dirigesse verso una fessura nel muro. Anche secondo Alberto
Franceschini, ex Br, la vicenda del Lago della Duchessa e di via Gradoli andrebbero
tenute insieme. Fu un messaggio preciso a chi deteneva Moro, per avvisare le Br che lo
Stato avrebbe potuto catturarli in qualsiasi momento. Un’ulteriore ipotesi avvalorerebbe
l’idea che il covo sia stato fatto scoprire appositamente da qualche brigatista contrario
all'uccisione di Moro. Recentemente Steve Pieczenik, il consigliere americano chiamato
al fianco di Francesco Cossiga per risolvere lo stato di crisi, nel libro Abbiamo ucciso
Aldo Moro. Dopo 30 anni un protagonista esce dall'ombra di Emmanuel Ammara244,
ammise la sua responsabilità in accordo, con Cossiga, nella creazione di un falso
comunicato. Si rileva il dubbio di Pecorelli sulla vicenda grazie all’articolo Le
allucinanti avventure degli investigatori. Il giornalista, infatti, scrisse «Brigate rosse» e
«terroristi» tra virgolette, quasi a voler insinuare il dubbio riguardo ai veri autori di tale
scritto.
Ricevuta la copia del volantino delle “Brigate rosse” con il quale “i terroristi”,
comunicavano la località dove sarebbe stato abbandonato il corpo di Aldo Moro, gli
inquirenti si precipitano agli elicotteri messi a disposizione della Polizia e dei
Carabinieri per raggiungere nel più breve tempo possibile la zona della Duchessa245.
Il 20 aprile 1978 le Brigate rosse annunciarono, nel vero comunicato numero sette, che la
condanna di Moro sarebbe stata eseguita, lasciando uno specchio di ventiquattro ore per
il possibile scambio di prigionieri. Pecorelli raccontò quelle ore di ultimatum
nell’articolo del 25 aprile, La ventiquattresima ora.
Siamo costretti a chiudere il numero mentre mancano ancora 24 ore alla scadenza
dell’ultimatum delle Br. Trattare o non trattare? Sentiamo ripetere che lo Stato è in
preda al dilemma. Ma il dilemma presuppone una scelta. In questo caso lo Stato,
cioè la Dc e il Pci, si impediscono a vicenda di scegliere. La Dc vive un dramma nel
244 EMMANUEL AMMARA, Abbiamo ucciso Aldo Moro. Dopo 30 anni un protagonista esce
dall'ombra, Cooper, Roma 2008.
245 Diario dell’irreale assoluto. Le allucinanti avventure degli investigatori, «Osservatore politico», 25
aprile 1978.












---------------------------











94

dramma. Partito di cattolici, dovrebbe anteporre il rispetto della vita alle ragioni
della politica. Solo una minoranza di democristiani sembra decisa a non sacrificare
la vita del suo presidente. Se la Dc è divisa, gli altri partiti lo sono altrettanto246.
Il 2 maggio 1978, ad una settimana dal futuro ritrovamento del corpo di Aldo Moro in
via Caetani, «Osservatore politico» offrì un’ampia analisi politica della situazione
italiana nell’articolo Il Paese si può e si deve salvare, cercando di dare un significato al
rapimento ed immaginando le possibili ripercussioni di tale vicenda sul Paese. L’Italia
apparse disorientata: comprese di vivere un momento politico cruciale tuttavia, secondo
il giornalista, non riuscì ad andare oltre questa accettazione. Offrì, inoltre, una nuova
interpretazione dell’eurocomunismo d’un partito scomodo ad entrambe le superpotenze
mondiali.
L’agguato di via Fani porta il segno di un lucido superpotere. La cattura di Moro
rappresenta una delle più grosse operazioni politiche compiute negli ultimi decenni
in un Paese industriale, integrato nel sistema occidentale. L’obbiettivo primario è
senz’altro quello di allontanare il Partito comunista dall’area del potere nel momento
in cui si accinge all’ultimo balzo, alla diretta partecipazione al governo del paese. È
comune interesse delle due superpotenze mondiali mortificare l’ascesa del Pci, cioè
del leader del comunismo che aspira a diventare democratico e democraticamente
guidare un Paese industriale. Ciò non è gradito agli americani, perché altererebbe
non solo gli equilibri del potere economico nazionale ma ancor più i suoi riflessi nel
sistema multinazionale. Ancor meno è gradito ai sovietici. Con Berlinguer a Palazzo
Chigi, Mosca correrebbe rischi maggiori di Washington. La dimostrazione storica
che un comunismo democratico può arrivare al potere grazie al consenso popolare,
rappresenterebbe non soltanto il crollo del primato ideologico del Pcus sulla III
Internazionale, ma la fine dello stesso sistema imperiale moscovita. Ancora una
volta la logica di Yalta è passata sulle teste delle potenze minori. È Yalta che ha
deciso via Mario Fani247.
246 La ventiquattresima ora, «Osservatore politico», 25 aprile 1978.
247 Yalta in via Mario Fani, Ivi, 2 maggio 1978.
95
In previsione delle elezioni amministrative del 14 maggio, l’analisi politica continuò nei
successivi articoli. Sebbene Pecorelli fosse convinto dell’imminente liberazione del
leader democristiano248, descrisse le varie possibilità di governo nel caso della
liberazione di Moro o dell’esecuzione della sentenza del carcere del popolo. In questi
articoli Pecorelli si domandò quanto avrebbe potuto influire e che ruolo avrebbe avuto il
sequestro sull’opinione pubblica, divisa tra gli schieramenti favorevoli alla trattativa, il
Psi di Craxi in primis, e quelli contrari ad ogni dialogo come la Dc o lo stesso Pci.
Se Moro dovesse morire prima delle elezioni del 14 maggio, il Psi potrebbe
affermare che è stata l’intransigenza dei democristiani e dei comunisti ad aver
provocato il drammatico epilogo. Quale sarà allora la reazione dell’elettore Dc
medio? Egli sa che sono stati gli sforzi di Moro a permettere l’ingresso del Partito
comunista al governo, da ciò potrà dedurre che la Democrazia cristiana ha pagato un
prezzo troppo alto se poi questo governo non è riuscito a salvare il suo presidente249.
Poniamo invece che moro possa uscire vivo dall’avventura del sequestro. A
maggior ragione gli uomini della Dc, il Vaticano, gli osservatori esterni,
porterebbero eterna riconoscenza a Craxi. L’unico leader che dicendosi disposto a
trattare ha consentito alle istituzioni il superamento di un difficile scoglio250.
Nel primo caso (Moro morto), sotto la spinta dell’elettorato medio, probabilmente
gli attuali dirigenti Dc potrebbero essi stessi guidare il ritorno al rapporto
preferenziale col Partito socialista. Nella seconda ipotesi ciò è escluso
tassativamente: la Democrazia cristiana dovrà passare attraverso un travagliato e
penoso processo di rinnovamento251.
Il 9 maggio 1978 il corpo di Aldo Moro venne ritrovato nel baule posteriore di una
Renault4 rossa a Roma, in via Caetani. A pochi metri dalla sede della Democrazia
cristiana di Piazza del Gesù e poco distante da quella del Partito comunista italiano in via
delle Botteghe Oscure. I funerali di Stato si svolsero senza la presenza dei famigliari ed
248 «A questo punto è lecito, più che un’ipotesi, formulare una logica e razionale previsione. A nostro
avviso, non solo Moro non sarà soppresso dai suoi rapitori, ma è da ritenersi imminente la sua liberazione
che sarà seguita da cerimonie trionfali e festeggiamenti popolari paragonabili solo all’incoronazione di
Napoleone», Brigate rosse, arcangeli sterminatori arcangeli purificatori, «Osservatore politico», 2
maggio 1978.
249 Se Moro muore, voti alle colombe, Ibidem.
250 Se Moro vive, voti alle colombe, Ibidem.
251 In entrambi i casi la Dc dovrà cambiare linea, Ibidem.
96
in mancanza del corpo dello statista, un segnale di protesta e di rifiuto nei confronti del
mondo politico della famiglia Moro.
Questa è la cronaca del giorno in cui Moro venne ucciso. A Roma, più che dolore la
morte di Moro ha creato sdegno: contro le Brigate rosse che uccidendo il presidente
Dc hanno deluso l’aspettativa popolare la quale, pur senza identificarsi con esse,
sentiva di condividerne non pochi motivi di risentimento verso la classe politica. Ma
sdegno soprattutto contro quest’ultima, accusata non di avere preferito lo Stato alla
salvezza di Moro, ma di evidente e continua incapacità di salvare lo stesso Stato, alla
cui ragione Moro è stato sacrificato252.
In via Caetani Moro è tornato a noi. O fra i suoi. Con un’ironia atroce, le Brigate
rosse l’hanno fatto ritrovare in questa strada, nel centro storico di Roma: a due passi
dal Campidoglio, dal Milite Ignoto e da Palazzo Venezia. A pochissima distanza
dalle sedi di ogni centro di potere, in una strada che corre alle spalle di Berlinguer, e
di Zaccagnini […]253.
E concluse:
«E adesso a chi toccherà?», domanda un uomo vestito in un bellissimo completo di
velluto verde. Un vicino alza le spalle e scoppia in una risata stridula. «A rigore»,
dice, «a rigore dovrebbe toccare a tutti gli altri. A Leone, ad Andreotti e a Cossiga, a
Fanfani, e a La Malfa e anche a Berlinguer. Non perché hanno scelto di salvare lo
Stato e far morire Moro. L’avrei fatto anch’io. Ma perché anche con Moro morto, lo
Stato non lo salveranno. E allora a che cosa serviva la morte di Moro?254».
252 Il giorno del giudizio, «Osservatore politico», 23 maggio 1978.
253 In via Caetani, Ivi, 23 maggio 1978.
254 Ibidem.
97
«Osservatore politico», 13 giugno 1978.
98
Capitolo V
Il memoriale di Aldo Moro.
A trentacinque anni dal rapimento e dall’assassinio di Aldo Moro restano
duecentoquarantacinque fotocopie del suo memoriale, una riproduzione degli autografi
dell’interrogatorio al quale venne sottoposto il leader democristiano durante la sua
prigionia. Il documento venne ritrovato in tre diversi momenti, nell’arco di dodici anni.
Otto pagine vennero allegate al comunicato numero cinque delle Brigate rosse, datato
10 aprile 1978, mentre quarantanove fogli furono ritrovati durante il sequestro dei
Carabinieri nel covo brigatista in via Monte Nevoso, il 1 ottobre dello stesso anno.
Durante dei lavori di ristrutturazione nello stesso appartamento, tenuto per anni sotto
sequestro, il 9 ottobre 1990 venne recuperata la terza parte. Un documento manoscritto,
poi battuto a macchina e fotocopiato dai carcerieri, che fu occultato, censurato e
disperso. Carmine Pecorelli, attraverso gli articoli di «Osservatore politico», lasciò
intendere d’aver visionato già dal 1978 la versione ritrovata ufficialmente nel 1990.
Le tre parti del memoriale
Il procedimento di stesura del memoriale dal carcere del popolo risultò complesso ed
articolato. Aldo Moro rispondeva in forma scritta ai quesiti delle Brigate rosse, le sue
risposte venivano battute a macchina e consegnate ad un comitato Br che valutava ed
eventualmente correggeva il testo. Successivamente la correzione veniva riconsegnata al
leader Dc, che riscriveva il testo a mano. Questi testi furono oggetto di studio da parte
dei massimi vertici politici italiani e dalla Stampa che, cercando d’interpretarne il
significato, si domandarono quanto vi fosse realmente di Moro in quelle parole. Lo
scritto contro Taviani, ad esempio, presentò alcune anomalie ed errori che suscitarono
perplessità nel gruppo democristiano. Il prigioniero attaccò lo «smemorato» Taviani, reo
d’aver smentito un’affermazione di Moro contenuta nella lettera a Zaccagnini del 4
aprile 1978. In questa nota il leader democristiano sostenne d’esser stato favorevole, nel
1974, alla trattativa per la liberazione del magistrato Mario Sossi255. L’accusa destò
255 L’operazione «Girasole» avvenne a Genova il 18 aprile 1974. Mario Sossi, sostituto procuratore della
Repubblica presso la Corte di Genova e Pubblico Ministero nel processo al Gruppo XXII Ottobre nel
99
perplessità non solo per l’inesattezza della dichiarazione, in quanto Moro durante il
sequestro Sossi fu realmente per la non trattativa, ma in virtù del fatto che Emilio
Taviani fu uno dei pochi membri del partito a dichiararsi assolutamente disposto a
trattare con le Br per Moro. Taviani ed il gruppo democristiano si domandarono se
questo attacco ingiustificato potesse racchiudere qualche significato nascosto256. Lo
stesso accusato si domandò se Moro, correlando il sequestro del magistrato della Procura
della Repubblica di Genova e l’attacco rivoltogli, volesse far capire d’esser prigioniero
della colonna genovese. A distanza d’anni e con il Memoriale completo delle sue tre
parti, si è in grado di ricostruire e comprendere in maniera più esaustiva i significati ed i
collegamenti scritti dal leader democristiano durante la sua prigionia. I segnali di Moro a
Taviani furono diversi. In un brano dell’interrogatorio, Moro raccontò una conversazione
avuta con il deputato Franco Salvi, capo della sua segreteria politica fino al 1963,
riguardante la strage di piazza della Loggia257 a Brescia nel 1974. Secondo Salvi, in
ambienti giudiziari bresciani si diffuse la convinzione che la Democrazia cristiana fosse
stata troppo indulgente sull’accaduto258. Aldo Moro ricordò nei dettagli la risposta data a
Salvi: «l’accusa, nata dall’effervescenza dell’emozione e vociferazione, era priva di ogni
consistenza. Ma auspicava che il deputato bresciano, non fosse come altri uno
“smemorato259”». In quell’attentato morì anche una parente di Salvi, che Moro non
mancò di citare nei suoi scritti. Una disperata strategia per comunicare con l’esterno
senza che i suoi carcerieri se ne rendessero conto. Una meticolosità nel descrivere
particolari dettagli, quasi a voler smentire i giornali che durante il sequestro parlarono di
un Moro «stoccolmizzato» o peggio, drogato dai suoi carcerieri. In un altro passo del
Memoriale ritornò sulla vicenda Salvi, raccontando ulteriori precisi dettagli e
1973, venne rapito sotto casa verso le otto di sera. Le Brigate rosse chiesero la liberazione dei loro
compagni in cambio della vita del magistrato. Venne rilasciato a Milano il 23 maggio 1974.
256 «Non mancarono quanti sospettarono la presenza di anagrammi e di messaggi in cifra nascosti tra le
righe. In un appunto datato 28 ottobre 1978 il giornalista dell’Ansa Marcello Coppetti annotò che un suo
collega de “Il Popolo” gli aveva rivelato come, durante il sequestro, avesse saputo che proprio nella
lettera su Taviani era presente una frase anagrammata che suonava così: sono sequestrato nei pressi della
Cassia. Coppetti, non poteva esimersi dall’osservare che via Gradioli, si trovava nei pressi della Cassia»,
MIGUEL GOTOR, Il memoriale della Repubblica, Einaudi, Torino 2011, p. 32.
257 La strage di piazza della Loggia avvenne il 28 maggio 1974 a Brescia, nella centrale piazza della
Loggia. Una bomba nascosta in un cestino portarifiuti fu fatta esplodere mentre era in corso una
manifestazione contro il terrorismo neofascista. L'attentato provocò la morte di otto persone e il ferimento
di altre centodue.
258 «In ambienti giudiziari bresciani si era sviluppata la convinzione d’indulgenze e connivenze della Dc e
si faceva il nome dell’On. Fanfani», GOTOR, Il memoriale della Repubblica, p. 25.
259 Ivi, p. 26.
100
commettendo due errori di rilievo. Il primo errore fu cronologico, quando la strage venne
collocata nel 1969; mentre la seconda svista riguardò gli incarichi costituzionali, dove
Moro invertì come ministro degli Interni Rumor al posto di Taviani. Il suo continuo
richiamo negli scritti di Moro e le due sviste narrative portarono a teorie non verificabili.
Probabile che Aldo Moro volesse tirare in ballo Emilio Taviani per alludere a Gladio e
convincere i pochi coinvolti ad utilizzare l’organizzazione per liberarlo dalle Brigate
rosse260.
Con l’operazione «Jumbo» del 1 ottobre 1978 il nucleo speciale del generale Carlo
Alberto Dalla Chiesa colpì tre covi brigatisti situati nel quartiere milanese di Lambrate.
Nell’appartamento in via Monte Nevoso 8 venne scoperto un archivio, catalogato con
maniacale precisione, delle attività Br dal 1970 al 1978, un paio di macchine da scrivere
Olivetti (Lettera 35 e 32), centinaia di appunti fitti di analisi economiche, rassegne
stampa e diari. La scoperta più importante furono le due cartelline di colore azzurro
contenenti settantotto fogli dattiloscritti, di cui quarantanove fogli appartenenti al
Memoriale Moro. La verbalizzazione dei reperti presenti nel covo durò per cinque giorni
al termine dei quali i Carabinieri furono obbligati a lasciare l’appartamento. «La
decisione di ritirare i militari speciali in favore di quelli territoriali sarebbe stata il
prodotto di un compromesso ai vertici dell’Arma per evitare l’esplosione di un conflitto
aperto dalle imprevedibili conseguenze261». In base alla versione ufficiale l’itinerario a
noi noto dei dattiloscritti di Moro fu il seguente:
nel pomeriggio del Iº ottobre Dalla Chiesa fece un breve sopralluogo nel covo con il
procuratore della Repubblica di Milano Mauro Gresti e il giudice istruttore di Roma
Achille Gallucci, nel frattempo giunto in aereo dalla capitale. Le carte di Moro
verbalizzate furono richieste in copia all’autorità giudiziaria dal ministro dell’Interno
Virginio Rognoni ai sensi del decreto del 21 marzo 1978. Secondo il generale Bozzo
vennero fotocopiate in via Moscova e dunque portate fuori dall’appartamento
quando erano già state verbalizzate per essere consegnate l’indomani dal generale
Dalla Chiesa nelle mani del ministro; secondo Rognoni il ricevimento della
documentazione sarebbe avvenuto dopo qualche giorno. A seguito di un’opportuna
260 VLADIMIRO SATTA, Odissea nel caso Moro. Viaggio controcorrente attraverso la documentazione
della Commissione Stragi, Edup, Roma 2008, p. 331.
261 GOTOR, Il memoriale della Repubblica, p. 58.
101
valutazione politica, il governo per volontà del ministro dell’Interno, decise di
pubblicarle per evitare polemiche, strumentalizzazioni ed eventuali fughe di
notizie262.
Il colonello Umberto Bonaventura, durante un’audizione della Commissione stragi del
23 maggio 2000, dichiarò che i documenti di Moro furono prelevati da Monte Nevoso
prima della verbalizzazione, per essere fotocopiati e consegnati al generale Dalla Chiesa.
Ma il 1 luglio 2000 il colonnello del Sismi, davanti alla magistratura romana, affermò
d’essersi sbagliato e corresse la sua versione ribadendo che le carte furono sottratte dopo
la loro verbalizzazione263. Nel suo libro di memorie, il capitano dei carabinieri Roberto
Arlati, presente durante l’irruzione nel covo brigatista, confermò la prima versione di
Bonaventura. Le carte uscirono alle ore 11 del 1 ottobre, sostarono nella sede dei
carabinieri di Milano in via della Moscova fino alle 17.30 e poi fecero ritorno nel covo,
dopo essere state esaminate dal generale Dalla Chiesa. Solo allora vennero verbalizzate.
Sostenne che Bonaventura prelevò le carte contro la sua volontà perché Dalla Chiesa
le voleva leggere in privato. Arlati avrebbe voluto che l’ufficiale fosse scortato da un
altro carabiniere, ma Bonaventura gli rispose nel modo più insinuante possibile
nell’ambito di un rapporto gerarchico fra militari e non solo: «E che fai, non ti fidi di
me? Tranquillo, giusto il tempo tecnico delle fotocopie. Ti faccio riavere tutto.
Insomma Roberto, te lo già detto. Faccio fare le fotocopie e ti restituisco il tutto»264.
Per Arlati l’incartamento, al ritorno in via Monte Nevoso, sembrò «lievemente più magro
di quello che aveva affidato al mattino a Bonaventura», inoltre sette ore parvero
decisamente troppe per una semplice commissione di fotocopiatura. Considerando che
Bonaventura ritrattò, trentacinque anni dopo i fatti, vi sarebbe dunque solo un testimone
oculare in grado d’affermare che i dattiloscritti uscirono dal covo prima di venire
verbalizzati. Il dubbio sulla testimonianza di Arlati è legittimo, e restano inspiegabili le
motivazioni per cui il capitano abbia deciso di cambiare versione solo dieci anni fa,
262 Ivi, p. 60.
263 MANLIO CASTRONUOVO, Vuoto a perdere. Le Brigate rosse, il rapimento, il processo e
l'uccisione di Aldo Moro, Besa 2008, p. 414.
264 GOTOR, Il memoriale della Repubblica, p. 62.
102
ricordando la sua indignazione, dopo la scoperta nell’intercapedine dell’appartamento
nel 1990, per coloro che azzardarono un’ipotesi di sparizione di materiale documentale.
Anche la magistratura milanese dichiarò davanti alla Commissione stragi di ritenere che i
carabinieri non potessero aver compiuto tale atto, difendendo la memoria di Dalla
Chiesa265. In un’intervista del Corriere della Sera del 19 aprile 1993, inoltre, Franco
Bonisoli, ex brigatista presente alla strage di via Fani, affermò che tutti gli interrogatori
dell'onorevole Moro furono ritrovati e pubblicati.
Per quanto riguarda le carte ritrovate nel 1990 sono convinto che si sia trattato di un
errore umano. E mi spiego. Quando mi arrestarono, pensai: hanno trovato le carte di
Moro. Erano, infatti, lì nel mio appartamento. Qualche giorno dopo, quando lessi il
verbale della perquisizione, fatto dai carabinieri, e non trovai segnate quelle carte,
oltre a cinquanta milioni che erano sempre conservati in via Monte Nevoso,
cominciai però a dubitare. Vuoi vedere che qualcuno all' interno degli apparati dello
Stato li ha trafugati? Era un chiodo fisso: vogliono eliminare, continuavo a ripetere,
la prova che il contenuto dei dattiloscritti di Moro, già pubblici, è autentico. Nel
1990, all'indomani della seconda scoperta di via Monte Nevoso, fui interrogato dal
sostituto procuratore Ferdinando Pomarici. Mi mostrò le foto del covo scattate dai
carabinieri dopo l'irruzione nel 1978. Riuscimmo a fare una ricostruzione dettagliata
di quanto avvenuto. Capii che i carabinieri dei nuclei speciali, che noi delle Brigate
Rosse consideravamo infallibili, avevano commesso un errore. Nell'appartamento
c'era tanto materiale. Moltissimi documenti. Ovunque. Ebbene, quegli stessi
carabinieri non avevano ritenuto necessario cercare ulteriori piccoli e normalissimi
nascondigli. […] Era un nascondiglio che ritenevamo una semplice precauzione nel
caso fossero entrati in casa o ladri o persone comunque esterne all'organizzazione.
Mi sembra normale. Le fotocopie integrali degli interrogatori di Moro erano in quel
nascondiglio266.
265 «Non in questo caso, in particolare non con quei carabinieri. Con loro, ho condiviso più notti di quante
non ne trascorressi a casa mia in quel periodo con i miei figli», il pubblico ministero Armando Spataro
alla Commissione Stragi, Ivi, p. 67.
266 Intervista a Franco Bonisoli, «Corriere della Sera», 19 aprile 1993.
103
Nel 28 maggio 1993, l’ex sottosegretario di Stato alla presidenza del Consiglio dei
ministri, Franco Evangelisti raccontò di un incontro notturno avuto con Dalla Chiesa
l’indomani di Monte Nevoso.
Venne a trovarmi verso le due di notte e mi fece leggere un dattiloscritto di circa
cinquanta pagine, nelle quali si parlava anche di me, e mi disse che proveniva da
Moro e che il giorno successivo lo avrebbe consegnato ad Andreotti. Non ho saputo
se effettivamente Dalla Chiesa si sia recato da Andreotti267.
Il 6 ed il 7 ottobre 1978, «Repubblica» pubblicò tre articoli riguardanti presunte
rivelazioni sulle carte di Moro sottratte dal covo brigatista. Si tratta degli articoli di
Giorgio Battistini Altre due lettere inedite e Tutto contro Andreotti il memoriale di Moro.
Sono stati svelati anche segreti di Stato? ed Il generale tace e il giudice ignora di
Giorgio Bocca. Sebbene inizialmente questi articoli causarono un caos politico, la scelta
dei giornalisti di mantenere segreta la loro fonte rese inattendibile e quasi fantasiosa la
denuncia di Repubblica. La fonte segreta venne rivelata nel processo di Palermo contro
Giulio Andreotti del 7 novembre 1995. Battistini confessò d’aver avuto una serie
d’incontri segreti con il generale dei carabinieri Enrico Galvaligi, uomo fidato di Dalla
Chiesa.
Galvaligi mi disse che il generale Dalla Chiesa era entrato nel covo di via Monte
Nevoso alcune ore prima che arrivassero i magistrati e che con il materiale originale
rinvenuto (una settantina di cartelle dattiloscritte con errori di battitura, un nastro
registrato e/o una videocassetta) era stato portato a Roma da due ufficiali dei
carabinieri “a qualcuno molto in alto… a chi di dovere. Galvaligi usò queste
espressioni, ma non volle assolutamente farmi il nome di questa persona, che
comunque non apparteneva né alla magistratura, né all’Arma dei Carabinieri, bensì
al mondo politico istituzionale. Aggiunse che il materiale portato a Roma conteneva
parti in cui Moro parlava in termini molto duri di fatti riguardanti Andreotti. Parlava
di questo materiale e del suo contenuto in termini tali da indurmi a pensare che egli
l’avesse personalmente visionato268.
267 Franco Evangelisti cit. in GOTOR, Il memoriale della Repubblica, p. 105.
268 Giorgio Battistini cit. in GOTOR, Il memoriale della Repubblica, p. 97.
104
A seguito di tale incontro, il giornalista tornò in redazione e raccontò di quanto avvenuto
al direttore del giornale, Eugenio Scalfari. Quest’ultimo suggerì di contattare
telefonicamente Galvanigi per assicurarsi che fosse la stessa persona incontrata da
Battistini. Confermata l’identità dell’uomo decisero di pubblicare la notizia tacendo la
fonte e sdoppiando la responsabilità della pubblicazione, coinvolgendo anche una firma
di prestigio del quotidiano come Giorgio Bocca. La versione dei fatti venne confermata
davanti ai magistrati da Scalfari, Giorgio Bocca e da Giampaolo Pansa, anche lui al
corrente dei fatti. Il militare chiese un ulteriore incontro con Battistini il giorno
successivo, il 7 ottobre 1978.
In quella circostanza precisò che nel memoriale si affrontavano diciassette
argomenti, dall’inizio della militanza politica di Moro nell’azione cattolica, ai
rapporti internazionali, ai servizi segreti e ai misteri di Stato e che, in alcuni di essi,
Moro attaccava pesantemente il presidente del Consiglio Giulio Andreotti269.
Negli anni successivi al rapimento Moro, dunque, una serie di dichiarazioni lasciarono
intendere che più di un testimone oculare avesse letto già dal 1978 la versione che
venne ritrovata ufficialmente solo nel 1990. Altri testimoni affermarono d’aver
visionato un’ulteriore versione di memoriale che non corrispose, per ampiezza, ai
dattiloscritti divulgati dal governo il 17 ottobre 1978 ed alle riproduzioni dei manoscritti
ritrovati nel 1990. Tra questi, Carmine Pecorelli.
«Osservatore politico» contro lo Stato.
Nell’articolo del 10 ottobre 1978 Verità di ieri tragedie di oggi, Carmine Pecorelli
risollevò la questione della trattativa per la liberazione di Moro. Prendendo ad esempio i
segreti accordi dello Stato con i terroristi palestinesi, liberazione di prigionieri politici in
cambio d’immunità terroristica territoriale, colse l’occasione per aggredire le scelte
politiche nei confronti delle Brigate rosse.
269 Ivi, p. 98.
105
Con assoluta lucidità mentale (dove sono andate a finire le menzogne di Zaccagnini
e Cossiga a proposito di Moro drogato, Moro fuori di sé, Moro impazzito?) [nelle
sue lettere] Moro ha tracciato una perfetta analogia tra la sua condizione di
prigioniero minacciato di morte da terroristi politici organizzati e quella di tanti e
tanti innocenti e ignari italiani che negli ultimi anni hanno corso il pericolo di
perdere la vita in attentati e stragi minacciati dai palestinesi. «Dunque non una ma
più volte furono liberati con meccanismi vari palestinesi detenuti ed anche
condannati, allo scopo di stornare gravi rappresaglie che sarebbero state poste in
essere se fosse continuata la detenzione». Moro si riferisce a quell’accordo anomalo
stabilito al di fuori dello Stato ma sotto il controllo dello Stato, grazie al quale l’Italia
non è stata teatro di quei dirottamenti aerei, stragi ed attentati che tante vittime e
danni hanno provocato in Europa a partire dal’72. In quell’anno agenti del Sid
informarono il governo che terroristi palestinesi stavano preparando attentati agli
aeroporti italiani. Rumor e Moro giudicarono che l’unica strada per impedire che
l’Italia diventasse terreno di manovra dei palestinesi era quella di trattare con
Habash270 una sorta di mutuo patto di non aggressione. L’accordo stabilito dal Sid,
con l’unica misteriosa eccezione della strage di Fiumicino271, fu sempre rispettato. A
questo punto non resta che da chiedersi perché quelle trattative anomale impossibili
ed inammissibili in forma ufficiale, ma tuttavia stabilite dal superiore interesse dello
stato con i terroristi palestinesi, sono state prontamente scartate quando si trattava di
salvare la vita di Moro. Perché si è preferito seguire la grottesca via di Cossiga con i
suoi blocchi stradali, le mobilitazioni generali dell’esercito, le perquisizioni a caso su
interi quartieri, una via buona per far saltare i nervi ai custodi di Moro, e avvicinare
l’ora della tragedia finale, quando l’unica strada vincente conosciuta dallo Stato, una
strada che avrebbe consentito alle istituzioni di uscire dalla vicenda Moro con
fermezza e dignità rafforzate, era quella di trattative, anche se lunghe e laboriose?272
«Osservatore politico» ripropose la tesi secondo la quale i brigatisti si sarebbero potuti
accontentare di uno scambio simbolico da parte dello Stato, proprio come con i
270 George Habash fu il fondatore del Movimento nazionalista arabo, dalla cui sezione palestinese nacque
il Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina nel 1967.
271 Il 27 dicembre 1985 un gruppo di uomini armati, dopo aver gettato bombe a mano, aprirono il fuoco
con raffiche di mitra sui passeggeri in coda per il check-in dei bagagli presso gli sportelli della compagnia
aerea nazionale israeliana El Al e della americana TWA, colpendo le loro vittime in modo indiscriminato.
272 Verità di oggi tragedie di oggi, «Osservatore politico», 10 ottobre 1978.
106
palestinesi. Allo stesso tempo mosse il dubbio che la liberazione del prigioniero sarebbe
potuta risultare scomoda per alcune strutture statali.
Ieri, trattare con i palestinesi non provocava alterazioni negli equilibri politici di
Montecitorio, Piazza del Gesù e Palazzo Chigi. Trattare con le Br invece, seguire la
via delle lettere, riportare Moro sano e salvo alla guida della Dc o addirittura al
Quirinale, avrebbe provocato un terremoto: il recupero di quelle strutture dello Stato
colpevolizzate e emarginate grazie ad istruttorie giudiziarie pilotate, e la fine della
cordiale, troppo cordiale intesa, tra il Partito comunista di Berlinguer e la Dc di
Zaccagnini. Per scongiurare pericoli del genere, è piccola cosa anche un sacrificio
umano. Dio solo sa quanto male può venire da questo male273.
Pecorelli incalzò la sua tesi nel successivo articolo del 17 ottobre 1978:
Diciamolo chiaro, in agosto Dalla chiesa sapeva già come e dove colpire le Br.
Probabilmente avrebbe saputo cosa fare anche in epoca precedente. Allora perché si
è ricorsi a lui soltanto a settembre? Perché non si è chiamato Dalla Chiesa subito
dopo la strage di via Fani, quando Moro, ancora vivo, era nelle mani delle Br? Uno
Stato, forte di un Dalla Chiesa, avrebbe potuto avviare trattative con i terroristi con
grosse probabilità di successo, specie disponendo di qualche buona pedina di
scambio. Purtroppo non era gradito alla maggioranza dell’arco quel “partito delle
trattative” che consigliava non già di cedere alla violenza, ma di salvare la vita di
Moro attraverso più duttili e meno pubblicizzati comportamenti dello Stato e delle
forze dell’ordine. Cossiga e Pecchioli, Zaccagnini e Berlinguer, intendevano
sfruttare l’emozione popolare provocata dal sequestro Moro per costruire un partito
unico, “cattocomunista”, e chiamavano a raccolta le piazze “bianche” e “rosse” in
nome di una non meglio precisata emergenza. Prima di rivolgersi all’Arma dei
carabinieri, prima di unificare nelle mani di un vero tecnico il comando
dell’antiterrorismo, hanno preferito attendere che si maturasse l’uva e si compisse il
peggio274.
273 Ibidem.
274 Perché solo adesso?, «Osservatore politico», 17 ottobre 1978.
107
Nel successivo articolo, pubblicato sotto forma di lettera al direttore, un immaginario
abbonato di «Op» pose al giornalista delle domande alla quale Pecorelli rispose
immediato. Si tratta di un testo pieno d’allusioni, virgolette, punti di sospensione, in un
immaginario botta risposta.
Signor Direttore, permetta un piccolo scritto da un suo affezionato lettore, che dopo
l’estate si è posto una domanda: «Cossiga sa tutto su Moro ma non parla?». E si è
risposto da solo: «non parlerà mai, altrimenti…» […]. Dice: ma il ministro non ne
sapeva niente, la Digos non ha scoperto nulla. I servizi poi… Si ribatte: il ministro di
polizia sapeva tutto, sapeva persino dov’era tenuto prigioniero; dalle parti del
ghetto… Dice: il corpo era ancora caldo… perché un generale dei Carabinieri era
andato a riferirglielo di persona nella massima segretezza. Dice: perché non ha fatto
nulla? Risponde: il ministro non poteva decidere nulla su due piedi, doveva sentire
più in alto e qui sorge il rebus: quanto in alto, magari sino alla loggia di Cristo in
Paradiso?275
Secondo questo articolo la prigione di Moro venne individuata senza nessuna difficoltà
dalla polizia che sarebbe stata bloccata da Cossiga. Il ministro, prima d’agire, avrebbe
dovuto consultare quella che Pecorelli definì «entità superiore», probabilmente
alludendo alla Loggia massonica Propaganda Due276.
Fatto sta, si dice, che la risposta il giorno dopo di quando il ministro la sentenziò fu
lapidaria: «Abbiamo paura di farvi intervenire perché se per caso ad un carabiniere
parte un colpo e uccide Moro, oppure i terroristi lo ammazzano, poi chi se la prende
la responsabilità?». Risposta da prete. Non se ne fece nulla e Moro fu liquidato
perché se la cosa si fosse risaputa in giro avrebbe fatto il rumore di una bomba! […]
C’è solo da immaginarsi, caro Direttore, chi sarà l’Anzà277 della situazione: ovvero
275 Caso Moro: il ministro non sapeva?, «Osservatore politico», 17 ottobre 1978.
276 «Un superpotere che il giornalista insinua essere la P2 con le parole “due piedi” e “loggia di Cristo”»,
FLAMIGNI, Le Idi di marzo, p. 370.
277 «Il generale Antonino Anzà venne ritrovato morto nel suo studio il 12 agosto 1977. L’ufficiale era
stato colpito da un colpo di pistola alla testa, nella sua casa di Roma. L’immediata versione dei fatti
attribuisce il decesso al suicidio, ma l’arma era appoggiata alla scrivania, a due metri di distanza dal
corpo. Qualche giorno prima, a Messina, anche il colonnello Giansante venne ritrovato morto. In quel
periodo, si scoprirà successivamente, erano in gioco gli avvicendamenti al vertice degli stati maggiori di
Esercito e Difesa ed all’interno dei Corpi erano sorte faide per aspirare alle due cariche», GUARINO –
108
quale generale dei Cc sarà ritrovato suicida con una classica revolverata che fa tutto
da se, o col solito incidente d’auto radiocomandato, o la sbadataggine dei camionisti
spagnoli, o d’elicottero278. Sotto a chi tocca: chi sfida l’Internazionale fa questa fine
in questa Italia democratica. […] Purtroppo il nome del Generale Cc è noto279:
Amen280.
Tracce del memoriale negli articoli di «Osservatore politico». Pecorelli sapeva?
Nel’articolo del 17 ottobre 1978 intitolato Fase di attesa, il giornalista espresse i suoi
dubbi sulla effettiva quantità di materiale sequestrato nel covo di Monte Nevoso. Con
toni interrogativi espresse la sua convinzione riguardo alla possibilità che determinate
prove scomode potessero essere state insabbiate, tra le quali accennò ad un verbale e ad
alcune bobine degli interrogatori effettuati dalle Br con il prigioniero.
Il fatto politicamente più importante è stato certamente la brillante operazione
condotta dai Carabinieri del generale Dalla Chiesa contro le Brigate rosse a Milano
che ha tuttavia aperto, come è ormai consuetudine, numerose polemiche circa il
numero e l’identità degli arrestati, circa la quantità e la qualità del materiale
sequestrato. Ci sono o non ci sono le bobine con gli interrogatori di Moro, c’è o non
c’è il memoriale-verbale di questi stessi interrogatori? I magistrati sono arrivati
buoni ultimi a prendere visione di tutto ciò, e quali politici ne sono già al corrente
avendo avuto la possibilità di operare qualche prudenziale censura?281
Il primo indizio d’una lettura precoce del memoriale da parte di Pecorelli lo si può
trovare nello stesso numero di «Osservatore politico», nell’articolo Necrologi &
Memoriali. In tale scritto il giornalista commentò la morte, avvenuta a Lugano il 29
settembre 1978, del politico democristiano Giuseppe Arcaini. Deputato alla Costituente e
sottosegretario al Tesoro dal 1954 al 1957, Arcaini venne nominato direttore dell’istituto
RAUGEI, Gli anni del disonore. Dal 1965 il potere occulto di Licio Gelli e della loggia P2 tra affari,
scandali e stragi, Dedalo, Bari 2006, p. 155.
278 Carmine Pecorelli si riferì al generale dell’Arma dei carabinieri Enrico Mino, coinvolto in un incidente
mortale, dalle circostanze misteriose. L’elicottero precipitò su monte Covello, Catanzaro, il 31 ottobre
1977, FLAMIGNI, Le Idi di marzo, p. 370.
279 «Qui Pecorelli allude in modo piuttosto chiaro al generale Dalla Chiesa», Ibidem.
280 Caso Moro: il ministro non sapeva?, «Osservatore politico», 17 ottobre 1978.
281 Fase di attesa, Ivi, 17 ottobre 1978.
109
di Credito delle Casse di Risparmio italiane, chiamato Italcasse. Coinvolto nello
“scandalo Italcasse”, si dimise nel 1977 con l’accusa di peculato, interesse privato verso
alcuni fondi neri e mutui concessi ad amici imprenditori ed al mondo politico. Nel
1977282 «Osservatore politico» pubblicò l’elenco, completo di codici bancari, di una
serie d’assegni incassati dalla Democrazia cristiana, in particolar modo da Andreotti, in
cambio di finanziamenti agevolati e contributi a fondo perduto283. Nel numero del 17
ottobre 1978 Pecorelli scriveva:
Morto il grande elemosiniere, i grandi elemosinati sono usciti dall’incubo. Arcaini
ha comunque lasciato in mani sicure un lungo memoriale per difendere il suo onore e
quello dei figli. Che succederebbe se nei prossimi giorni alle lettere di Moro si
aggiungesse la voce di questo secondo sepolcro?284
Il dato rilevante è l’appellativo con cui Pecorelli definì Arcaini «grande elemosiniere».
In relazione al direttore di Italcasse Aldo Moro usò la stessa denominazione, sebbene il
riferimento sia riscontrabile solamente nella versione del memoriale ritrovata
ufficialmente nel 1990. Pecorelli inoltre si ripeté nell’articolo Intanto Caltagirone si
compra un’altra banca del 24 ottobre 1978, collocando la stessa espressione tra le
virgolette. Tale accorgimento potrebbe apparire come una chiara intenzione, del
direttore Op, di dimostrare la sua pericolosa conoscenza riguardo gli interrogatori Br e
la vicenda Italcasse. Nel 1978 l’unico accenno allo scandalo si trovò negli articoli di
Galvaligi pubblicati da Repubblica, sebbene poco rilevanti poiché riferiti a dattiloscritti
non firmati e dunque non attribuibili ad Aldo Moro. Sebbene non vi sia certezza
riguardo la prematura visione degli scritti morotei da parte di Carmine Pecorelli, né si
conoscono le reali intenzioni del giornalista, «Osservatore politico» continuò ad offrire
indizi che potrebbero avvalorare tale ipotesi. Li riscontriamo nell’articolo Filo rosso del
17 ottobre 1978, nel quale si parlò di quattro polaroid di Moro dei giorni della prigionia
e centocinquanta fogli di carta extrastrong scritti dallo stesso presidente. Circostanze
282 Presidente Andreotti a lei questi assegni chi glieli ha dati?, «Osservatore politico», 14 ottobre 1977.
283 «Contributi a fondo perduto che l’Italcasse aveva elargito, fra gli altri, al gruppo chimico Sir di Nino
Rovelli, ai fratelli Caltagirone e alla società “Nuova Flaminia”, facente capo a Domenico Balducci,
organico alla banda della Magliana e al mafioso Giuseppe Calò», GOTOR, Il memoriale della
Repubblica, p. 225.
284 Necrologi & Memoriali, «Osservatore politico», 17 ottobre 1978.
110
che vennero riscontrate solamente nel 1990. L’articolo Non c’è blitz senza spina,
contenuto nel numero del dossier del 24 ottobre 1978 Caso Moro: memoriali veri
memoriali falsi, gioco al massacro, fece riemergere la questione dei verbali
dell’interrogatorio Br già citati la settimana precedente.
Dalla Chiesa ha trovato ad attenderlo una bomba senza spoletta. Accanto a
documenti strategici di grande importanza e probabilmente sottovalutati dagli
inquirenti, accanto ad alcune mappe di prigioni sicure, all’elenco dei nomi di alcuni
capi colonna per la prima volta dimenticati in un nido terrorista, accanto alle schede
segnaletiche di alcuni nemici del popolo da sparare al più presto, c’erano:
- la ricostruzione del sequestro di Moro, secondo il punto di vista della Direzione
strategica dei brigatisti;
- considerazioni autocritiche sull’operazione militare di via Fani e sulla gestione
degli sviluppi;
- il memoriale scritto da Moro durante i 54 giorni di prigionia;
- gli schemi di alcune lettere che Moro non fece in tempo a scrivere;
- i testi di 6 lettere complete, anch’esse non inviate al destinatario;
- alcuni nastri con la viva voce del memoriale Moro285.
Pecorelli rispose agli interrogativi posti nel precedente articolo fase di attesa del 17
ottobre, lo fece evidenziando la notizia in corsivo quasi a volerne sottolinearne la portata.
Nello stesso articolo, non c’è blitz senza spina, si parla di stralci del memoriale riferiti a
Miceli e De Lorenzo.
Il memoriale Moro è un detonatore. Consegnato subito alla magistratura, il materiale
rinvenuto da Dalla Chiesa era protetto dal più rigoroso segreto istruttorio286. Ciò
nonostante due settimanali hanno pubblicato alcuni passi a loro avviso tratti dal
memoriale287. Non è la prima volta che in Italia il segreto istruttorio non viene
rispettato. Ma qui si tratta di affermazioni gravissime scagliate contro l’intero attuale
staff del partito di maggioranza, di accuse specifiche e ben determinate che
285 Non c’è blitz senza spina, «Osservatore politico», 24 ottobre 1978.
286 «Il segreto istruttorio è valido per il materiale effettivamente consegnato alla autorità giudiziaria: ma
Pecorelli ha già scritto che i magistrati arrivarono per ultimi, dopo che sul materiale era calata una
prudenziale censura», FLAMIGNI, Le Idi di marzo, p. 374.
287 Probabilmente Carmine Pecorelli si riferiva anche alla vicenda Galvaligi.
111
coinvolgono personaggi di spicco nei più clamorosi casi giudiziari degli ultimi
vent’anni. Chi avrebbe mai azzardato la carriera per favorire un giornalista amico?
La custodia del segreto giovava sia all’esecutivo che ai partiti dell’area di governo,
ma frasi, dettagli, giudizi di Moro, allusioni ai risvolti istituzionali dello scandalo
Lockheed, a Piazza Fontana, all’Italcasse, hanno egualmente raggiunto certa stampa,
polarizzando subito l’attenzione dell’opinione pubblica. Se il detonatore è il
memoriale, la bomba è proprio questa degli scandali e delle rivelazioni. […] C’è chi
sostiene che quegli stralci del memoriale Moro che si riferiscono a Miceli e De
Lorenzo non possono che essere veritieri288.
Il memoriale del 1978, in effetti, riportava ampi brani relativi a De Lorenzo. Mentre né
quello del 1978, né la versione manoscritta del 1990 si soffermava su Vito Miceli, il cui
nome compare solamente in una citazione relativa alla strategia della tensione. Da
sottolineare che in questo unico passaggio relativo a Miceli ed ai servizi segreti, Moro
inserì un doppio rimando289 che ad oggi non ha ancora trovato corrispondenza in nessuna
carta del memoriale. Che cosa volesse dire realmente Pecorelli non è possibile stabilirlo,
ma è un primo indizio per coloro che sostengono la teoria dell’esistenza di un Urmemoriale
di Moro, un testo tutt'oggi censurato e coperto da segreti di Stato. Nei
successivi numeri di «Osservatore politico» si continuò a parlare di un presunto
Memoriale censurato, sollevando dubbi sull’integrità delle carte che vennero rese note
nel 1978. Nel numero del 31 ottobre 1978, Carmine Pecorelli sottolineò due gravi
contraddizioni a riguardo.
La lettura del testo del memoriale Moro diffuso a cura del ministero dell’Interno, che
ha già sollevato dubbi sulla sua integrità e sulla genuinità, presenta due altre gravi
contraddizioni ancora da risolvere:
- nel memoriale, Moro sembra convinto che le sue ammissioni – confessioni
gli possano servire per la libertà. La contraddizione è questa: come poteva
un Moro, tutto sommato lucido, credere che il racconto di fatti già noti,
288 Non c’è blitz senza spina, «Osservatore politico», 24 ottobre 1978.
289 «Ho già detto altrove – ho già detto», GOTOR, Il memoriale della Repubblica, p. 231.
112
senza aggiunta di particolari significativi e nuovi, potesse farlo uscire sano e
salvo dal carcere delle Br?290
A questa contraddizione si rispose sostenendo la tesi di una marcata carenza teorica delle
Brigate rosse, un gruppo dunque efficiente dal punto di vista operativo ma incapace di
comprendere le reali verità che Moro avrebbe potuto rivelargli. Secondo Pecorelli questa
ipotesi è insostenibile.
A Milano, oltre al memoriale in due copie, sono stati trovati ben cinquemila
documenti inventariati, tra i quali alcuni che per una corretta interpretazione
richiedono un buon livello di competenza, tale dunque da rendere i carcerieri –
interroganti (o chi poi doveva ascoltare le bobine o leggere le trascrizioni291) in
grado di capire il valore insignificante delle dichiarazioni del presidente della Dc.
Gli interrogativi a questo punto si sommano spontanei: è vero che le Br hanno
promesso a Moro la libertà in cambio di determinate dichiarazioni? Il testo delle
dichiarazioni è stato, diciamo così, “concordato” tra Moro e i suoi carcerieri in modo
da assumere una intonazione antidemocristiana ma non eccessivamente
destabilizzante? Esiste infine un altro memoriale in cui Moro sveli invece importanti
segreti di Stato?292
Come sappiamo questo interrogativo verrà risolto in via Monte Nevoso nel 1990, quando
vennero ritrovate fotocopie dei manoscritti dove il leader Dc affrontò tematiche che nel
1978 sarebbero state altamente destabilizzanti per il mondo politico. Nello specifico e
principalmente riguardanti la struttura segreta della Nato «Stay Behind» e «Gladio». Nel
paragrafo successivo, Caso Moro. Un memoriale mal confezionato, Pecorelli dimostrò
d’essere a conoscenza delle manipolazioni subite dal memoriale.
La bomba Moro non è scoppiata. Il memoriale, almeno quella parte recuperata nel
covo milanese, non ha provocato gli effetti devastanti tanto a lungo paventati […].
290 Contraddizioni e nuovi interrogativi, «Osservatore politico», 31 ottobre 1978.
291 Pecorelli insiste sull’esistenza di bobine degli interrogatori che tutt’oggi non sono presenti.
292 Ibidem.
113
Giulio Andreotti è un uomo molto fortunato ma a spianare il suo cammino questa
volta hanno contribuito una serie di circostanze, solo in parte fortuite293.
Ne diede prova, ancora, nei successivi numeri. In Brigate senza generali, infatti,
«Osservatore politico» sottolineò nuovamente che il memoriale reso pubblico non fu
tutto il memoriale scritto da Aldo Moro. Pecorelli mosse forti critiche nei confronti delle
Brigate rosse, colpevoli di non aver fatto trapelare nessuna notizia, rendendo gli scritti
innocui.
Ce li avevano dipinti come superuomini, invincibili e imprendibili banditi che
coprono di sangue via Fani, sequestrano ed uccidono Aldo Moro, entrano ed escono
a piacere dai più sorvegliati ed esclusivi uffici della capitale, infiltrano le loro spie in
alcuni delicati ministeri. Programmati come computer avveniristici, i terroristi delle
Brigate rosse diventati interlocutori di Paolo VI e del presidente dell’Onu294,
sembravano dei satelliti artificiali al paragone della fariginosa macchina del nostro
Stato. Che resta di quest’immagine di efficienza e di perfezione, dopo la
pubblicazione del dossier Moro? Dov’è la loro intelligenza superiore, è questo il
cervello del partito armato della rivoluzione? Perché sosteniamo che le Brigate rosse
sono un esercito di killer senza cervello e senza idee? È lo stesso memoriale Moro a
parlare. Anche se resta da stabilire perché “la Repubblica” dell’8 ottobre scriveva:
«Ieri è arrivata la conferma della magistratura. Le settanta pagine del dossier ci
sono», e perché il verbale del processo Moro distribuito alla stampa dal Viminale è
di solo quarantanove cartelline; anche se resta da stabilire se è tutto qui il materiale
raccolto dalle Br in cinquantaquattro giorni di interrogatori, posto che per compilare
cinquanta cartelle occorrono tre ore di conversazione, il memoriale Moro che tutti
conosciamo è tutto di Moro, cioè è tutto vero. Gli unici sbagliati sono gli
interlocutori. Lo abbiamo letto più volte, con grande attenzione. Non contiene nulla
che non sapesse già l’ultimo degli uscieri di Palazzo Madama. Sono forse
sensazionali i giudizi personali di Moro su Andreotti, sono forse sensazionali le
rivelazioni sulla «strage di Stato» o sulle faide tra ministeri per il controllo dei
293 Caso Moro. Un memoriale mal confezionato – L’ultimo messaggio è il primo, «Osservatore politico»,
31 Ottobre 1978.
294 GIACOMO FIORINI, Il rapimento e l’uccisione di Aldo Moro. Interventi di Paolo VI. Dibattito e
Riflessioni, Università degli studi di Padova, tesi di laurea, rel. Prof. G. Romanato, a.a. 2007 - 2008.
114
servizi segreti? È roba trattata con larghezza di immaginazione da “Lotta continua” e
dalla stampa extraparlamentare295.
Dopo due mesi di silenzi sull’argomento, «Osservatore politico» tornò a parlare del
memoriale Moro, il 2 gennaio 1978, nell’articolo Silenzio di regime sul primo furto in
casa Moro. La tematica principale riguardò il furto nell’ufficio di Moro in via Savoia,
avvenuto nel dicembre del 1975, di alcuni documenti riguardanti il golpe Borghese.
Secondo il giornalista, il leader democristiano avrebbe voluto non far trapelare la notizia
di tale sottrazione di documenti, notizia che venne comunque trapelata alla stampa.
La storia del caso Moro deve essere ancora scritta. I retroscena della vicenda sono
ancora misteriosi e chissà ancora per quanto resteranno tali. Ai cronisti sembra
essere sfuggito, tra l’altro, un episodio: il furto verificatosi nell’ufficio di Aldo Moro
fra il Natale e il Santo Stefano del 1975. I ladri mirarono ad impossessarsi solo di
documenti. E non va dimenticato che in via Savoia 85 prestavano servizio di
sorveglianza una gazzella della Polizia e una Alfetta dei Carabinieri! Si trattò di ladri
tanto in gamba da farla in barba al servizio di vigilanza? O bisogna sospettare il
peggio?
Possiamo affermare che Moro, appena saputo dell’accaduto, esattamente il 27
dicembre, chiamo al telefono l’allora comandante generale dell’Arma dei
carabinieri, gen. Mino, per chiedergli di tacere sul fatto ed adoperarsi affinché la
notizia non venisse divulgata. Tuttavia il 28 dicembre qualche agenzia diffondeva un
breve e conciso comunicato sulla vicenda. Quale era il contenuto degli incartamenti
trafugati? Negli ambienti della Procura di Roma, da dove secondo i Carabinieri la
notizia era stata passata alla stampa, c’era chi sosteneva che tra le cartelle sottratte vi
fosse un dossier sul golpe Borghese. […] Del resto era notorio che Moro nutrisse un
particolare interesse per quella istruttoria, dato che dietro di essa si nascondeva la
mano di un suo collega di partito. La cosa trova conferma nelle affermazioni di
Moro prigioniero, secondo le quali tutto il processo Borghese è stato manipolato per
fini personali e politici. Moro sapeva molto sul golpe Borghese. E sapeva bene chi
era l’autore della macchinazione296.
295 Brigate senza generali, «Osservatore politico», 31 Ottobre 1978.
296 Silenzio di regime sul primo furto in casa Moro, «Osservatore politico», 2 gennaio 1979.
115
Occorre soffermarsi su due importanti punti di questo articolo. Secondo Pecorelli la
«mano del collega di partito» sarebbe stata quella di Giulio Andreotti297, opinione che il
giornalista espresse in diversi numeri di «Op»298. In secondo luogo, nelle carte di Moro
ufficialmente ritrovate, non vi furono affermazioni su quello che disse Pecorelli, non vi è
accenno nella versione dattiloscritta del 1978 né in quella in fotocopia di manoscritto nel
1990. Un ulteriore indizio sulla incompletezza del memoriale Moro ritrovato fino ad
oggi, che va ad aggiungersi agli interrogativi riguardanti la parte del documento relativa
ai comportamenti dei servizi segreti e di Miceli. Il 16 gennaio 1979 nell’articolo
Terrorismo, antiterrorismo e riforma di polizia, Pecorelli mise in dubbio tutta la
ricostruzione ufficiale del caso Moro. Lasciò intendere di conoscere molte verità della
vicenda, annunciando di volerle rivelare.
Si è permesso così il dilagare di quella violenza che nel 1978 ha generato la morte di
ventinove persone, cinquanta feriti per attentati, ottantasei tra poliziotti e carabinieri
finiti all’ospedale per scontri di piazza e circa mille automobili distrutte. A questi
vanno aggiunti circa tremila attentati contro edifici pubblici, privati, sedi di partiti
politici, caserme della pubblica sicurezza, dei carabinieri, delle forze dell’ordine in
genere. Violenza politica che ha raggiunto il suo apice con l’uccisione Moro. Aldo
moro che pensava di essere liberato dalle Brigate rosse, e che temeva di rimanere
ferito in un conflitto a fuoco tra i carabinieri ed i suoi carcerieri, come ha pubblicato
“Panorama” in un articolo non firmato, notizia che avrebbe attinto dai documenti
sequestrati nel covo del brigatista Alunni, notizia che viceversa nel memoriale
diffuso dal ministero degli Interni non risulta. Ma torneremo a parlare di questo
argomento, del furgone, dei piloti, del giovane dal giubbotto azzurro visto in via
Fani, del rullino fotografico, del garage compiacente che ha ospitato le macchine
servite all’operazione, del prete contattato dalle Brigate rosse, della intempestiva
lettera di Paolo, del passo carrabile al centro di Roma, delle trattative intercorse,
degli sciacalli che hanno giocato al rialzo, dei partiti politici che si sono arrogati il
297 «In una lettera testamento attribuibile al principe Borghese e attualmente agli atti della Procura di
Brescia, si affermava che l’autore della telefonata di contrordine al tentativo di golpe era stato Andreotti
in persona», FLAMIGNI, Le Idi di marzo, p. 234.
298«Sempre più strano questo processo al golpe Borghese. Potrebbe svolgersi tutto nell’anticamera dello
studio di Andreotti. Pensate: andreottiano il Pm Vitalone, andreottiana la longa manus della legge (nella
fattispecie Labruna e Maletti), andreottiani gran parte degli imputati», Golpe Borghese: Andreotti ieri e
oggi, «Osservatore politico», 10 giugno 1977.
116
diritto di parlare in nome del Parlamento, dei presunti memoriali, degli articoli
redatti, cervellotici, scritti in funzione del fatto che lo stesso Moro, che avrebbe
intuito che i carabinieri potevano intervenire, aveva paura di restare ferito. Parleremo
di Steve R. Pieczenik, il vice segretario di Stato al Governo Usa il quale, dopo aver
partecipato per tre settimane alle riunioni di esperti al Viminale, ritornato in America
prima che Moro venisse ucciso, ha riferito al Congresso che le disposizioni date da
Cossiga in merito alla vicenda Moro erano quanto di meglio si potesse fare. […] A
questo punto vogliamo fare anche noi un po’ di fantapolitica. Le trattative con le
Brigate rosse ci sarebbero state. Come per i Fedayn. Qualcuno però non ha
mantenuto i patti299. Moro, sempre secondo le trattative, doveva uscire vivo dal covo
(al centro di Roma? Presso un comitato? Presso un santuario?), i carabinieri
avrebbero dovuto riscontrare che Moro era vivo e lasciar andare via la macchina
rossa. Poi qualcuno avrebbe giocato al rialzo, una cifra inaccettabile perché si voleva
comunque l’anticomunista Moro morto, le Br avrebbero ucciso il presidente della
Democrazia cristiana in macchina, al centro di Roma, con tutti i rischi che una simile
azione comporta. Ma di questo non parleremo, perché è una teoria cervellotica
299 «Vent’anni dopo il senatore Giovanni Pellegrino, presidente della Commissione parlamentare
d’inchiesta su stragi e terrorismo, esprimerà concetti analoghi. La possibilità che Moro avesse rivelato
alle Br segreti sensibili aveva creato una situazione sicuramente più complessa e pericolosa dal punto di
vista dello Stato. Per cui poteva essere opportuno non forzare la situazione con un blitz. Se avessero fatto
irruzione in via Gradioli e avessero catturato Moretti, quale sarebbe stata la reazione degli altri brigatisti?
La Braghetti, Gallinari e Maccari, i carcerieri di Moro, che istruzioni avevano per una eventualità del
genere? Di uccidere il prigioniero? Di rendere pubblici i verbali e le videocassette del suo interrogatorio?
In questa chiave potrebbe anche capirsi perché non si volesse arrivare a via Gradioli, almeno fino a
quando non fosse stata scoperta la prigione in cui Moro era detenuto, e non si fosse raggiunta la certezza
di poter mettere le mani anche su tutto il materiale relativo al processo brigatista. È possibile che Cossiga
si sia fidato di certe persone e poi se ne sia pentito. Mi riferisco a qualche apparato nazionale o anche
estero che assunse su di sé il doppio compito di recuperare le “carte Moro” e di liberare il prigioniero. Ma
poi perseguì soltanto il primo obbiettivo e lasciò che Moro venisse ucciso, per regolare qualche vecchio
conto. In questo modo le tesi del “doppio ostaggio” e quella del “doppio delitto” verrebbero in qualche
modo a sovrapporsi. La sofferenza umana di Cossiga, tutte le volte che si affronta il caso Moro, a me è
parsa autentica. E credo che nasca non solo dalla perdita di un amico come Moro, ma anche da questa sua
sensazione d’essersi fidato di persone sbagliate, o di apparati sbagliati. È un’ipotesi assai verosimile, che
se fosse confermata porterebbe proprio a concludere che Cossiga è stato atrocemente beffato da mandatari
infedeli», da FASANELLA – SESTIERI – PELLEGRINO, Segreto di Stato, la verità da Gladio al caso
Moro, Einaudi 2000, pagg. 180-82 in FLAMIGNI, Le Idi di marzo, p. 396.
117
campata in aria. Non diremo che il legionario si chiama “De300” e il macellaio
Maurizio301.
L’enigmatico riferimento ad Alunni Corrado, brigatista arrestato il 13 settembre 1978 nel
covo in via Negroli a Milano, si collegò all’ipotesi che durante l’arresto fosse stato
trovato il memoriale e che le Br avessero distribuito le copie tra le varie colonne
brigatiste. Ciò spiegherebbe il perché nell’articolo di «Op» del 26 settembre 1978 Le
lettere di zombi, pubblicato dodici giorni prima di Monte Nevoso e una settimana dopo
l’arresto del brigatista, Pecorelli fosse già in grado di annunciare il ritrovamento di una
trentina di lettere di Moro. Un’altra anomalia si riferisce alla paura di Moro d’essere
ucciso in un conflitto a fuoco tra i terroristi ed i carabinieri, dato anche questo non
riscontrabile in nessun suo scritto ufficiale. «Osservatore politico», dunque, sostenne che
le carte divulgate nel 1978 fossero incomplete, dell’esistenza di una copia recuperata nel
covo di via Negroli due settimane prima dell’operazione di Monte Nevoso, che vi
fossero dei manoscritti di Moro autografi ed in fotocopia (che vennero ritrovati solo nel
1990) e che esistesse un memoriale tutt’oggi ignoto contenente rivelazioni non
riscontrabili nelle versioni del 1978 e del 1990. Difficile capire quali potessero essere le
fonti informative di Carmine Pecorelli, sebbene i principali sospetti cadrebbero sulla
figura del generale Dalla Chiesa e su Licio Gelli, comunque in ambienti contigui alla
Loggia Propaganda Due e ai servizi segreti. È probabile che il generale Dalla Chiesa si
servisse di Pecorelli, come fece con il generale Galvaligi, affinché trapelassero notizie
relative al ritrovamento delle carte di Moro, per costringere il governo a pubblicare la
versione che lui stesso gli consegnò. Una triplice responsabilità per dissimulare una fuga
di notizie. Oltre ai diversi articoli di «Osservatore politico» in cui venne elogiata la
figura di Dalla Chiesa, è accertata la collaborazione tra Pecorelli ed il generale nel 1979.
Nell’agenda del giornalista si trovarono appuntate le date dei loro incontri,
300«Questo “De” sembra essere un riferimento a Giustino De Vuono, presente nell’elenco dei terroristi
ricercati diffuso dal Viminale il 16 marzo 1978. De Vuono sarebbe stato riconosciuto da due testimoni
oculari del caso Moro. Quanto al “Maurizio” menzionato da Op, si scoprirà poi che era lo pseudonimo
brigatista del capo delle Br Mario Moretti. Pecorelli lo chiamava “macellaio” e in effetti, lo si scoprirà
anni dopo, Moretti è stato colui che ha materialmente assassinato Moro», Ivi, p. 397.
301 Terrorismo, antiterrorismo e riforma di polizia. Vergogna buffoni!, «Osservatore politico», 16 gennaio
1979.
118
particolarmente intensificati proprio nei mesi in cui Pecorelli rilasciò le sue dichiarazioni
sul memoriale.
Era stato Dalla Chiesa a chiedere d’incontrare Pecorelli e Mino me ne parlò subito
dopo, dicendomi che non aveva capito bene cosa volesse. Aveva avuto l’impressione
che Dalla Chiesa intendesse utilizzarlo in qualche maniera, ma non aveva capito se
per far filtrare notizie o per altro. Era perplesso perché Dalla chiesa non gli aveva
dato notizie302.
La testimonianza del maresciallo Angelo Incandela, comandante degli agenti di custodia
del carcere di Cuneo, confermò che nel gennaio del 1979 Dalla Chiesa e Pecorelli
collaborarono segretamente per recuperare delle fotocopie del manoscritto del
memoriale, che ritenevano fossero entrate nel carcere di Cuneo. Il maresciallo venne
convocato da Dalla Chiesa con l’ordine tassativo di mantenere la massima segretezza.
Nella deposizione del 27 giugno 1994 all’autorità di Palermo, Incandela raccontò
d’essersi incontrato con Dalla Chiesa in un’Alfa Romeo bianca. Il generale lo informò
della presenza di alcuni scritti riguardanti Aldo Moro nel carcere dove lavorava da pochi
mesi, documenti indirizzati al boss della malavita milanese Francis Turatello. Nell’auto
era presente una terza persona che sarebbe stata in grado di spiegare, secondo il generale,
come e dove fossero entrati quei documenti.
Gli scritti riguardanti il caso Moro erano entrati nel carcere attraverso le finestre del
corridoio dell’ufficio per i permessi di colloqui, dove sostavano i parenti dei detenuti
in attesa della perquisizione prima di essere ammessi ai colloqui. Lo sconosciuto mi
fornì una particolareggiata descrizione dei luoghi, specificandomi che le finestre del
corridoio ove sostavano i parenti prima di essere perquisiti, erano prive di reti, sicché
era agevole consegnare attraverso le stesse oggetti a detenuti che circolavano senza
nessuna sorveglianza nel cortile sul quale prospicevano dette finestre. […]Lo
sconosciuto proseguì specificandomi che gli scritti riguardanti il sequestro Moro
erano entrati nel carcere avvolti con un nastro adesivo da imballaggio303.
302 Franca Mangiavacca, compagna di Pecorelli, agli atti della sentenza della corte d’Assise di Perugia del
14 aprile 1993, FLAMIGNI, Dossier Pecorelli, p. 150.
303 Angelo Incandela, GOTOR, Il memoriale della Repubblica, p. 250.
119
In una seconda deposizione del 25 luglio 1994, il maresciallo raccontò d’aver
riconosciuto il volto dello sconosciuto solo due mesi dopo, negli articoli che parlavano
dell’omicidio del giornalista Carmine Pecorelli. Incandela seppe descrivere con
precisione gli occhiali che il giornalista portò in quella circostanza304, inoltre ricordò che
«il generale chiese allo sconosciuto di cercare un numero di telefono il quale rispose
d’averlo dimenticato in redazione305».
Dalla Chiesa continuò a sollecitarmi affinché io trovassi gli scritti del sequestro
Moro che si trovavano all’interno del carcere, nonché documenti concernenti l’on.
Andreotti e dopo quindici giorni di ricerche rinvenni l’involucro che Pecorelli mi
aveva descritto, all’interno di un pozzetto con un coperchio di lamiera profondo
circa venti – trenta centimetri che si trovava in un piccolo locale dove venivano presi
in consegna i generi di conforto portati ai detenuti dai loro familiari. L’involucro
aveva la forma di un salame ed era avvolto con un nastro isolante da imballaggio
color marrone. […] L’involucro poteva contenere un centinaio di fogli306.
Angelo Incandela spiegò come Dalla Chiesa fosse convinto dell’esistenza di ulteriori
fogli all’interno del carcere, riguardanti l’on. Giulio Andreotti.
Io sospetto che volesse in qualche modo incastrare Andreotti. Infatti, il generale
aveva delle riserve su quell’uomo politico; spesso mi faceva capire che lui su
Andreotti sapeva cose assai gravi. Ma Dalla Chiesa pur alludendo pesantemente non
mi disse mai con esattezza cosa aveva in mano, quali fossero gli elementi
d’accusa307.
Secondo il maresciallo Incandela, Dalla Chiesa e Carmine Pecorelli si misero alla ricerca
di documenti altamente segreti e destabilizzanti per il sistema politico di allora.
Documentazione che, probabilmente, avevano già visionato in forma dattiloscritta.
304 «cerchiati in oro piuttosto quadrati, chiari non scuri. Completamente diversi per foggia da quelli
comparsi nella foto pubblicata dopo la morte, con montatura nera e spessa», Ivi, p. 251.
305 Ibidem.
306 Ivi, pag. 252.
307 PINO NICOTRI, Agli ordini del generale Dalla Chiesa. I misteri degli anni '80 nel racconto del
maresciallo Incandela, Marsilio, Venezia 1994, p. 112.
120
Mi disse che stavamo scrivendo la storia, che si può essere fedeli allo Stato in tanti modi e che
si può servire la Patria anche in modi non propriamente legali. Mi disse: Per la Patria, caro mio,
si può e si deve anche rischiare quando occorre. E quando si hanno i coglioni! Sempre a patto
naturalmente che il fine sia nell’interesse dello Stato e della Società308.
308 Carlo Alberto Dalla Chiesa, GOTOR, Il memoriale della Repubblica, p. 254.
121
Bibliografia.
EMMANUEL AMMARA, Abbiamo ucciso Aldo Moro. Dopo 30 anni un
protagonista esce dall'ombra, Cooper, Roma 2008.
MANLIO CASTRONUOVO, Vuoto a perdere. Le Brigate rosse, il rapimento, il
processo e l'uccisione di Aldo Moro, Besa, Lecce 2008.
WILLIAM E. COLBY, La mia vita nella Cia, Mursia, Milano 1981.
MARCO CORRIAS – ROBERTO DUIZ, Mino Pecorelli un uomo che sapeva
troppo, Sperling & Kupfer, Milano 1996.
MAURIZIO DE LUCA, Sindona. Gli atti d’accusa dei giudici di Milano, Editori
Riuniti, Roma 1986.
MAURIZIO DE LUCA - PAOLO PANERAI, Il crack. Sindona, la Dc, il Vaticano
e gli altri amici, Mondadori, Milano 1975.
RITA DI GIOVACCHINO, Scoop mortale. Mino Pecorelli, storia di un giornalista
Kamikaze, Pironti, Napoli 1994.
RITA DI GIOVACCHINO, Il libro nero della Prima Repubblica, Fazi Editori,
Roma 2003.
GIOVANNI FASANELLA – CLAUDIO SESTIERI – GIOVANNI PELLEGRINO,
Segreto di Stato, la verità da Gladio al caso Moro, Einaudi, Torino 2000.
SERGIO FLAMIGNI, La tela del ragno: il delitto Moro, Edizioni Associate, Roma
1988.
SERGIO FLAMIGNI, Trame atlantiche. Storia della loggia massonica segreta P2,
Kaos, Milano 1996.
SERGIO FLAMIGNI, Il covo di Stato. Via Gradoli 96 e il delitto Moro, Kaos,
Milano 1999.
SERGIO FLAMIGNI, La sfinge delle Brigate rosse. Delitti, segreti e bugie del capo
terrorista Mario Moretti, Kaos, Milano 2004.
SERGIO FLAMIGNI, Dossier Pecorelli, Kaos, Milano 2005.
122
SERGIO FLAMIGNI, Le idi di marzo. Il delitto Moro secondo Mino Pecorelli,
Kaos, Milano 2006.
LICIO GELLI, La verità, Demetra Edizioni, Bologna 1989.
AGOSTINO GIOVAGNOLI, Il caso Moro, una tragedia repubblicana, Il Mulino,
Bologna 2005.
MIGUEL GOTOR, Il memoriale della Repubblica. Gli scritti di Aldo Moro dalla
prigionia e l'anatomia del potere italiano, Einaudi, Torino 2011.
MARIO GUARINO, Gli anni del disonore. Dal 1965 il potere occulto di Licio Gelli
e della loggia P2 tra affari, scandali e stragi, Dedalo, Bari 2006.
VINCENZO IACOPINO, Pecorelli OP. Storia di una agenzia giornalistica,
SugarCo, Milano 1991.
HENRY KISSINGER, Gli anni della Casa Bianca, SugarCo, Milano 1980.
MARIO MARGIOCCO, Stati Uniti e Pci, Laterza, Roma 1981.
DOMÈNECH MATILLÓ ROSSEND, L’avventura delle finanze Vaticane, Tullio
Pironti Editore, Napoli 1988.
PINO NICOTRI, Agli ordini del generale Dalla Chiesa. I misteri degli anni '80 nel
racconto del maresciallo Incandela, Marsilio, Venezia 1994.
FRANCESCO PECORELLI – ROBERTO SOMMELLA, I veleni di «Op». Le
notizie riservate di Mino Pecorelli, Kaos, Milano 1995.
VLADIMIRO SATTA, Odissea nel caso Moro. Viaggio controcorrente attraverso
la documentazione della Commissione Stragi, Edup, Roma 2008.
GIANNI SIMONI - GIULIANO TURONE, Il caffè di Sindona. Un finanziere
d’avventura tra politica, Vaticano e Mafia, Garzanti, Milano 2009.
MASSIMO TEODORI, La banda Sindona. Storia di un ricatto: Dc, Vaticano,
Bankitalia, P2, Mafia, Servizi segreti, Gammalibri, Milano, 1982.
NICK TOSCHES, Il mistero Sindona, SugarCo, Milano 1986.
ANGELO VENTURA, Per una storia del terrorismo italiano, Donzelli, Roma
2010.
ANNA VINCI, La P2 nei diari segreti di Tina Anselmi, Chiarelettere, Milano 2011.
123
Commissione parlamentare d' inchiesta sulla strage di Via Fani, sul sequestro e
l'assassinio di Aldo Moro e sul terrorismo in Italia, Legge 23 novembre 1979, n.
597, Senato della Repubblica, Roma 1979.
Commissione parlamentare d'inchiesta sul caso Sindona e sulle responsabilità
politiche ed amministrative ad esso eventualmente connesse, Legge 22 maggio
1980, n. 204 e legge 23 giugno 1981, n. 315, Senato della Repubblica, Roma 1983.
Relazione della commissione parlamentare d’inchiesta sulla loggia massonica P2,
Leggi 23 settembre 1981, n. 527; 4 giugno 1982, n. 342; 28 febbraio 1983, n. 57; 1
ottobre 1983, n. 522; 6 aprile 1984, n. 59, Senato della Repubblica, Roma 1984.
«Osservatore politico», 1968 – 1979




CAT_IMG Posted: 21/4/2024, 19:41 IL CASO MORO LA PISTA FENZI GENOVA VIA FRACCHIA - ZIO OT DICE LA SUA








--------------



https://gerograssi.it/08-moro-grassi-sembr...1-agosto-2016/#

08. MORO – Grassi: Sembra Una Favola Triste. E’ Il Caso Moro – 31 Agosto 2016
Posted at 00:00h in 02 Rassegna Stampa Aldo Moro by Gero Grassi




08. MORO – SEMBRA UNA FAVOLA TRISTE. E’ IL CASO MORO

di Gero Grassi – Vicepresidente Gruppo PD Camera

La Commissione Moro 2 ha proceduto al l’interrogatorio del signor Angelo Incandela, già Capo Ispettori del carcere di Cuneo. Il verbale e’ secretato per indagini in corso, ma le dichiarazioni fatte sono le stesse che Incandela ha svolto nel corso del processo per l’omicidio Dalla Chiesa presso il Tribunale di Palermo. Quindi sono pubbliche da tempo.


Provo a fare una sintesi senza alcuna conclusione e commento.

Nel 1978 il generale Dalla Chiesa, che Incandela conosce molto bene e con il quale ha già lavorato, gli chiede di registrare i colloqui privati tra i detenuti speciali del carcere di Cuneo ed i loro familiari. Gli chiede anche di leggerne la corrispondenza. Stessa cosa gli chiedono i Servizi segreti.

Incandela obbedisce ma si rende conto che i registratori avuti non gli consentono di ascoltare i discorsi registrati. Precauzione attuata nei suoi confronti.

A fine 1978 Dalla Chiesa chiede di incontrarlo fuori dal carcere di Cuneo, verso mezzanotte.
Incandela si presenta all’appuntamento in una stradina di campagna vicino il carcere e sale nella macchina di Dalla Chiesa, seduto dietro. Alla guida c’è un signore che lui non conosce. Dalla Chiesa gli dice che nel carcere di Cuneo, da finestre senza sbarre, e’ entrato un pacchetto, a forma di salame. Dentro ci sono le carte di Moro. A questo punto interviene il guidatore che, dal tono confidenziale con il generale, si intuisce non essere un carabiniere e parla del carcere di Cuneo da lui conosciuto molto bene. Lo descrive nei dettagli. Questo signore spiega ad Incandela dove potrebbe trovarsi il salame.


Incandela, dopo opportune indagini, trova il salame in una grata sotterranea del carcere e, così come Dalla Chiesa gli ha ordinato, lo consegna al generale senza guardare il contenuto. Fa una cosa, però, studia tutti gli ingressi al carcere e trova registrati alcuni nomi senza la indicazione del detenuto, cosa obbligatoria da fare. Scopre anche che alcuni nomi di persone entrate nel carcere sono completamente falsi, nomi di fantasia. Intuisce che il guidatore della automobile di Dalla Chiesa e’ entrato nel carcere da come ne parlava e per come lo descriveva.


Passa qualche mese e Dalla Chiesa chiama, presso il comando generale dei Carabinieri, Incandela. Gli fa vedere un pacco di carte e gli dice che, avvolte, saranno il salame che deve nascondere nel carcere di Cuneo per poi ritrovarle dopo ispezione. Ovviamente una volta trovate le carte, le deve consegnare a Dalla Chiesa, senza leggerne il contenuto. Incandela si rifiuta, facendo notare al generale che sarebbe un illecito e Dalla Chiesa gli risponde che anche così si serve lo Stato. Incandela dice no perché è un illecito.


A quel punto Dalla Chiesa si alza e si allontana qualche minuto, nel frattempo Incandela legge qualche foglio e si rende conto che trattasi di carte di Moro che parlano di Andreotti. Il generale torna e fa firmare una richiesta di colloquio con se stesso, retrodatata, dello stesso Incandela. Cosi risulta che e’ questi che ha chiesto di parlare con il generale.

Chi è la persona che guida l’auto con la quale Dalla Chiesa va a trovare in piena campagna e a mezzanotte Incandela?

Chi è l’uomo che tratta familiarmente dandogli del tu e chiamando generale Amen, Carlo Alberto Dalla Chiesa?

Un famoso giornalista, direttore della rivista OP di Roma.

Trattasi di Mino Pecorelli, ucciso il 20 marzo 1979 dopo aver pubblicato sul suo giornale la notizia, che aspetta da Milano, alcune foto che dimostrano la partecipazione alla strage di via Fani di persone estranee alle Brigate Rosse.
È’ la stessa persona che pubblica alcune lettere di Moro mai ricevute dai destinatari e che i brigatisti dicono doversi trovare in via Montenevoso a Milano. Incandela lo riconosce vedendolo in televisione qualche mese dopo, quando Pecorelli viene ucciso.

Roma, 20 maggio 2016






Edited by barionu - 24/4/2024, 14:33
2505 replies since 30/7/2008