Sabato mattina, Sile invernale. Scendendo l’argine si sta, spalla a spalla con l’amico Mauro, in riva al fiume basso, che reclama pioggia.
Le sette metri sono spazzate da un vento gelido che ci impedisce di godere dell’anomalo tiepido sole di fine gennaio. Sembrano contrastanti, il gelo e il tepore. Ma la pesca è così, per me, ultimamente. Contrastante. Ci vado poco. E mi rimane addosso.
Mi resta addosso, il giorno successivo, la spalla destra indolenzita. Mi resta addosso il pensiero dell’attrezzatura da sistemare, lasciata lì in magazzino perché devo accompagnare le bambine al parco. Mi rimane addosso il dubbio: se fossi rimasto avrei preso io quel cavedano così grosso e ingolfato di bigattini? O quel pigo a una manciata di grammi dai due chili?
Rutilus pigo. Il pigo. Per descriverlo non riesco a citare De Andrè né Lucio Dalla. Non bastano tutte le citazioni del mondo. Bisognerebbe trovare qualche parola che ne descriva, in forma di onomatopea visiva (esiste?), le scaglie di differenti sfumature del verde disposte in maniera particolare, unica e affascinante per ogni pesce. L’album Rock bottom di Robert Wyatt, forse. Doppi sensi. Fondale roccioso. Ma anche altro.
Parliamo del pigo. Sopra il chilo è un pesce magnifico, preso a bolognese: combattivo, mai domo, di una bellezza abbagliante, ma anche capace di tirar fuori la nostra parte oscura, le imprecazioni più colorite, la delusione più cocente. Il pigo si slama facilmente, talora fa affondare il galleggiante di mezza tacca solamente e possiamo solo immaginare che ci sia. Il rutilus pigo è nostro, un gioiello, ma sotto sei metri d’acqua chi lo vede? Gli ambientalisti? Non credo.
Per le mie specifiche tecniche sarò breve: otto grammi, torpille e spallinata decrescente. In tutta la giornata ho solo cambiato varie volte la lunghezza del terminale e la distanza dell’ultimo pallino dall’amo, serie k del 21. Stop. Tre bei pighi mi galvanizzano. Poi diverse slamate per entrambi, oltre a qualche breme e gardon di contorno. Mauro ruoterà varie canne e grammature fino a trovare il suo bandolo.
La mattina era iniziata al bar. Il Locusta Fishing Club, ovvero 12 pescatori, i nomi scritti sulle bustine dello zucchero e il sorteggio delle coppie. A me è capitato Mauro. Ed è sempre un piacere ritrovarlo a pesca. Decidiamo di pescare vicini, anche se le condizioni del fiume chiamerebbero lo starsene da soli, isolati. Pasturiamo in modo differente ma complementare. Pastura e palle di incollato pesante a monte. Solo incollato e ghiaia in palline piccole a valle, una ogni tre passate. E la scelta, tutto sommato visto il periodo, paga.
Vorrei concludere la giornata raccontando del Locusta Fishing Club che si riunisce al gran completo per una mangiata serale ma lo farà qualcun altro, forse. Io a metà pomeriggio devo scappare e finisco l’ultima ora di sole al parco giochi, con le bambine.
Nel mentre su whatsapp mi arriva qualche foto sfuocata e dei messaggi audio particolarmente felici. Mi sembra di aver immaginato qualche cattura per il mio socio, ma non ne sono certo. Sarà il sole che d’inverno quando è basso ti fa dubitare della realtà. E il dubbio, anche quello, mi rimane addosso. Si può finire così, un report, con un punto di domanda? L’avrò preso, il pigo? Quanto pesava?
E poi ancora: quando ci si rivede, a pesca?
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